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Zibaldone - Lettura | 49m


1. L’imitazione e la corruzione delle arti: tra natura, artificio e giudizio del bello

Dalle riflessioni sul Trecento al Settecento, tra decadenza, studio forzato e l’impossibilità di un ritorno all’originaria spontaneità.

Il blocco definisce un sistema teorico sull’evoluzione delle belle arti, incentrato sul rapporto tra imitazione della natura e corruzione del gusto, con particolare attenzione alla letteratura italiana. Leopardi delinea una traiettoria storica che parte dal «trecento [come] principio della nostra letteratura, non già il colmo» (25), passa per il «quattrocento [che] fu un sonno della letteratura» (26) e culmina nel «cinquecento [come] vera continuazione del trecento e il colmo» (28), prima di precipitare nel «raffinamento del seicento» (29) e nella «corruzione d’altra specie» del Settecento (29). Il nucleo argomentativo ruota attorno all’idea che «dal niente in letteratura si passa al mezzo e al vero, quindi al raffinamento: da questo non c’è esempio che si sia tornato al vero» (20-21), con una condanna irreversibile della decadenza: «il buon gusto nel volgo dei letterati non è tornato più, nè tornerà secondo me» (29).

Emergono temi minori ma ricorrenti: la maraviglia come «forza del mirabile e desiderio di esso innato nell’uomo» (93-94), che giustifica il diletto anche per oggetti brutti o dolorosi se «bene imitate» (34); la differenza tra arte naturale e arte studiata, dove «la tropp’arte nuoce» (115) e «quello che Omero diceva ottimamente per natura, noi [...] non possiamo dirlo se non mediocremente» (116); la relatività del bello, legato a «opinioni e dall’abito» (126) e non a un prototipo universale, come dimostrano esempi tratti da «occhi azzurri belli tra’ greci: neri tra noi» (134) o «cani colle orecchie tagliate» (141). La sezione si chiude con una critica alla «sempiterna affettazione» (155) dei francesi e alla «pronunzia [che] tolgono [...] quel suono espressivo» (184) alle parole, a sottolineare come la corruzione investa anche la lingua.


Note e riferimenti impliciti

Fonti citate o evocate:

Temi trasversali:


2. L’arte della traduzione e la forza della novità: tra efficacia espressiva e illusioni poetiche

La traduzione come sfida all’equivalenza e la poesia come gioco di illusioni e naturalezza.

Il blocco affronta due nuclei tematici strettamente intrecciati: la traduzione come operazione creativa e non meramente riproduttiva, e la poesia come equilibrio tra arte e naturalezza, tra ragione e istinto. La traduzione esige non solo la corrispondenza lessicale, ma la capacità di suscitare nel lettore «quell’impressione che facea ne’ greci» (194), un effetto che spesso dipende dalla novità dell’espressione: «l’efficacia dell’espressioni bene spesso è il medesimo che la novità» (216). L’esempio di Luciano, che conia ntandron per indicare una «contrappersona» (202) burlesca, dimostra come la forza di una parola stia nel suo potere di sorprendere, non nella mera precisione. Allo stesso modo, la poesia — sia antica che moderna — vive di «bella negligenza» (330), di un’arte che «deve nascondere l’arte» (324) per apparire spontanea, ma che richiede «mille e centomila» tentativi per giungere a «quella semplicità» (319) che è «l’ultima cosa a cui arriva» (318).

Il confronto tra antichi e moderni rivela una frattura: gli antichi «dipingevano così semplicissimamente la natura» (268), mentre i romantici, nel cercare il patetico (260), cadono nell’affettazione (277) e nella diligenza (331) che uccide l’illusione. La natura — grande, istintiva, «nemica della ragione» (222) — è la vera musa, ma la ragione, «piccola» (223), la corrode, riducendo l’eroismo a «pazzie» (338) e la poesia a «arte psicologica» (275) che distrugge «la grandezza dell’animo». La religione, unica forza capace di «conciliar[...] la grandezza [...] colla ragione» (643), diventa così l’ultimo baluardo contro la barbarie (342) di un’epoca che, «oltremodo illuminata», «non diventa mica civilissima, ma barbaro» (342).

Il sommario evidenzia anche temi minori: la dislocazione delle parole (414-425), che può generare immagini involontarie ma suggestive; il ruolo della prosa (471), «nutrice del verso», e la duttilità delle lingue (480-482), dove l’italiano eccelle nel «far vedere» contro il francese che si limita a «far intendere». Infine, la decadenza dell’eroismo (362) e la fragilità delle illusioni (339) — «senza le quali non ci sarà quasi mai grandezza» (338) — chiudono il cerchio: la poesia, come la traduzione, è un’arte di «seduzione» (296), dove «il mezzo [...] è il gran luogo di verità» (208), ma dove «il sublime dee scuotere [...] senza subbissare» (209).


3. Sull'infinita varietà delle illusioni umane e la loro necessità per la felicità

La natura, l'arte e l'illusione come fondamenti della vita umana

L’alfabeto, la lingua e la pronuncia sono il risultato di un’abitudine tradizionale e non di una legge naturale: «non è dunque maraviglia che gli alfabeti dei popoli siano differenti secondo la differente assuefazione tradizionale, da cui si dee rimontare alla origine d’essi alfabeti» (823). La diversità linguistica dimostra che «in natura o non c’è alfabeto, o molto più ricco che non si crede volgarmente» (824). La natura, infatti, non impone regole fisse, ma si adatta alle circostanze e alle tradizioni dei popoli, come dimostra l’esempio dell’«u gallico» (858), sconosciuto agli italiani ma proprio del francese, che potrebbe derivare dall’influenza greca sulle spedizioni in Gallia.

La poesia e l’arte, come la lingua, non seguono schemi rigidi, ma si fondano sulla naturalezza e sull’illusione. Il poeta deve nascondere i «propositi occulti» (831), come «quel diletto, quella viva rappresentazione [...] venga spontanea e senza ch’il poeta l’abbia cercata» (832), per non rivelare l’arte e lo studio che vi sono dietro. L’arte, infatti, deve apparire naturale, come se «il poeta nello stato naturale è un uomo che preso il suo tema [...] venga giù dicendo quello che gli si somministra spontaneamente» (832). Questo principio vale non solo per il poeta, ma anche per «l’oratore, lo storico, ed ogni qualunque scrittore» (834).

L’illusione è essenziale per la felicità umana, poiché «tout homme qui pense est un être corrompu» (882). La ragione, infatti, distrugge le illusioni necessarie per vivere: «l’esser l’uomo buono per natura, e guastarsi necessariamente nella società» (885) dimostra che la natura ha dotato l’uomo di istinti che si perdono con l’incivilimento. La felicità, quindi, non si trova nella ragione, ma nell’ignoranza e nelle illusioni, come dimostra il «minor scontento dei contadini, ignoranti [...] che dei culti, e dei fanciulli massimamente, che dei grandi» (884).

La musica, tra tutte le arti, è quella che più direttamente tocca l’anima, poiché «de tous les beaux-arts c’est celui qui agit le plus immédiatement sur l’ame» (1107). Mentre le altre arti imitano la natura, «la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona» (1105), agendo sulla «source intime de l’existence» (1109). Questo spiega perché la musica, più di ogni altra arte, sia in grado di «cambiare en entier la disposition intérieure» (1109).

La felicità, dunque, non è un dato oggettivo, ma un’illusione necessaria, che la natura ha concesso all’uomo per sopportare l’esistenza. «La somma felicità possibile dell’uomo in questo mondo, è quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore» (1084), come accadeva all’autore stesso «di 16 e 17 anni per alcuni mesi ad intervalli» (1085). Questa condizione, però, è effimera e legata alla giovinezza, poiché «questa tale speranza che sola può render l’uomo contento del presente, non può cadere se non in un giovane di quella tale età, o almeno, esperienza» (1086).


Sommario

Il blocco di frasi analizzato esplora il rapporto tra natura, arte e illusione come elementi fondamentali per la felicità umana. La lingua e l’alfabeto non sono dati naturali, ma il risultato di «assuefazione tradizionale» (823), dimostrando che «in natura o non c’è alfabeto, o molto più ricco che non si crede volgarmente» (824). Allo stesso modo, la poesia e l’arte non seguono regole fisse, ma si basano sulla spontaneità e sull’illusione: il poeta deve nascondere i «propositi occulti» (831) per far sembrare naturale ciò che è frutto di studio e arte. «Tout homme qui pense est un être corrompu» (882), poiché la ragione distrugge le illusioni necessarie per vivere felici. La felicità, infatti, si trova nell’ignoranza e nelle illusioni, come dimostra il «minor scontento dei contadini, ignoranti [...] che dei culti» (884).

La musica, tra tutte le arti, è quella che agisce più direttamente sull’anima, poiché «non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona» (1105), toccando la «source intime de l’existence» (1109). La «somma felicità possibile dell’uomo» (1084) è legata a una «speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore», condizione effimera e tipica della giovinezza, poiché «questa tale speranza [...] non può cadere se non in un giovane di quella tale età» (1086).

Il testo sottolinea come l’illusione sia essenziale per sopportare l’esistenza, poiché «la natura, l’arte e l’illusione» sono i «fondamenti della vita umana». La felicità non è un dato oggettivo, ma un’illusione necessaria, che la natura ha concesso all’uomo per rendergli tollerabile la vita. L’arte, la poesia e la musica sono strumenti che, nascondendo la loro artificiosità, permettono all’uomo di vivere in un mondo di apparenze, dove «il proposito manifesto» (829) serve da «pretesto e manto ai propositi occulti» (831). In questo modo, l’illusione diventa il vero fondamento della felicità, poiché «l’esser l’uomo buono per natura, e guastarsi necessariamente nella società» (885) dimostra che solo nell’ignoranza e nelle apparenze l’uomo può trovare una parvenza di appagamento.


4. L’illusione dell’infinito e la meccanica del piacere: tra natura, ragione e relatività dei sentimenti

L’infinito come specchio deformante dell’anima, il piacere come molla materialistica dell’esistenza, la grazia come enigma irriducibile: un sistema di forze che regola l’uomo senza trascenderne la condizione animale.


Il blocco esamina la teoria del piacere come principio primo e materiale dell’agire umano, riducendo a meccanismo fisiopsichico anche le aspirazioni apparentemente più spirituali. L’idea dell’infinito (2107, 2156-2159) non è che un’illusione funzionale (2116), «posta in noi solamente per la nostra felicità temporale», un «inganno necessario» (2118) che la natura dispensa persino ai «fanciulli, primitivi, ignoranti, barbari» e, per congettura, «anche nelle bestie in un certo grado» (2119). Il desiderio stesso, «compagno inseparabile dell’esistenza come il pensiero» (2111), non prova la «spiritualità dell’anima» (2109) ma ne rivela la materialità condivisa coi bruti: «l’infinità dell’inclinazione al piacere è un’infinità materiale» (2109), derivata dall’amor proprio (2113, 2132), «conseguenza immediata e necessaria» della conservazione di sé.

La ragione (2120) non solo non eleva l’uomo, ma «distrugge» ciò che vi è di «più spirituale», «materializzando» persino le «nozioni più astratte» con la sua operazione «matematica». Le illusioni (2122), lungi dall’essere prerogativa umana, sono «atti dell’istinto» comune agli animali, «affogato» solo dalla civiltà. Ne consegue che anche i sentimenti religiosi (2123) — la «nullità delle cose», l’ansia di un «infinito incomprensibile» — sono effetti collaterali di questa macchina: «formano una delle principali prove di una vita futura» solo perché «appartengono veramente alle illusioni», non a una verità metafisica.

Il bello e la grazia (2164-2464) vengono scomposti in fenomeni altrettanto relativi. La simmetria (2165-2167), invocata da Montesquieu come «facilità» percettiva, è smascherata come convenzione culturale: «dove il nostro gusto [...] giudica conveniente la simmetria, quivi la richiede; dove no, non la richiede» (2177). La grazia, «non so che» sfuggente (2347), non è riducibile a sorpresa (2324-2326) né a naturalezza (2378), ma oscilla tra «piccantezza» e «dolcezza insinuante» (2387), tra movimento (2316) e semplicità (2370), sempre legata al contesto: «la grazia è relativa come il bello» (2362). Anche qui, la ragione fallisce: «non si può dare» una definizione (2347), perché «quello che piace non è solamente né principalmente la sorpresa» (2359), ma un «irritamento nelle cose che appartengono al bello» (2463), sia esso un «viso piccante» (2334) o un «difettuzzo» (2335) che «punge dirittamente al cuore» (2385).

Il sommario si chiude con una gerarchia rovesciata: la «grandezza» (2114) non è nella ragione né nella spiritualità, ma nella capacità di illudersi (2116), mentre la disperazione (2191) e il pentimento (2192) — «nessun dolore è paragonabile» a quello autoinflitto — rivelano l’unico assolutezza: l’amor proprio come «principio finale» (2128), da cui discendono «tutte le qualità» umane, «senza opera» della natura (2133). Persino la società (2230-2232) nasce da «Caino, il primo riprovato», come «effetto e figlia della colpa», mentre la politica (2261) dovrebbe «accostarsi alla natura vera, non artefatta», perché «il codice dei Cristiani» — lungi dalla «fredda ragione» — ne è esempio non imitato.


Note

5. La relatività del giudizio e la natura delle illusioni

La diversità dei giudizi e l’illusione come fondamento dell’esistenza

Il blocco di testo selezionato affronta la relatività del giudizio umano, l’influenza delle circostanze esterne e interne sulla percezione, e il ruolo delle illusioni come elemento costitutivo della vita. Si evidenzia come la diversità di opinioni tra individui ugualmente capaci non derivi da differenze intrinseche, ma da contingenze momentanee, stati d’animo o condizionamenti sociali. Il pirronismo viene proposto come atteggiamento necessario di fronte all’incertezza dei giudizi, anche quelli dei più competenti o di sé stessi. Il pubblico e il tempo, invece, sfuggono a questa soggettività, offrendo una valutazione apparentemente oggettiva. Si esplora inoltre il rapporto tra natura e ragione, mostrando come la prima, con le sue illusioni e passioni, sia la vera forza motrice dell’umanità, mentre la seconda, pur apparendo superiore, risulti inefficace nel generare azione e movimento. La tirannia, ad esempio, trae vantaggio dall’incivilimento e dalla diffusione dei lumi, che indeboliscono le passioni e favoriscono l’inerzia, rendendo i popoli più facilmente governabili. La religione cristiana, con la sua promessa di una vita ultraterrena, contribuisce a questa passività, distogliendo gli uomini dall’impegno terreno. Le illusioni, sebbene riconosciute come tali, restano necessarie: la loro assenza lascia l’uomo in uno stato di indifferenza e noia, mentre la loro presenza, anche se ingannevole, dona un senso di vita e scopo. La bellezza, la grazia, la compassione e persino la sensibilità sono analizzate come fenomeni relativi, dipendenti da contesti culturali, età, sesso e condizioni individuali. La compassione, ad esempio, è eccitata dalla debolezza e dalla dolcezza, ma repellata dall’impazienza o dalla malignità dello spirito. La semplicità, per essere autentica, deve apparire inconsapevole, quasi naturale, senza alcuna ricerca di effetto. La lingua, infine, viene considerata come strumento di universalità o di divisione a seconda della sua struttura: il francese, regolare e preciso, si diffonde facilmente, mentre l’italiano, ricco e vario, resta confinato ai suoi limiti geografici e culturali.

Il sommario si basa su citazioni dirette come:


6. La natura contro l’arte: varietà delle lingue e illusioni necessarie

Dall’uniformità francese alla ricchezza italiana, dal declino delle illusioni alla contraddizione tra ragione e felicità.

Il blocco analizza la contrapposizione tra natura e arte come principio distintivo delle lingue, delle civiltà e della condizione umana. La lingua francese, «geometrizzata» e uniforme, si oppone alla varietà dello stile italiano e greco, frutto di una formazione spontanea: «le differenze de’ buoni stili italiani saltano agli occhi di chicchessia», mentre «la strada [della lingua latina] è molto più segnata e definita». L’arte, imposta da regole, genera uniformità; la natura, libera, produce diversità. Questo dualismo si estende alla storia: la grandezza degli antichi, nutrita da «illusioni vitali», si contrappone alla «piccolezza» moderna, frutto di un sapere che distrugge le finzioni necessarie alla felicità. «La felicità consiste nell’ignoranza del vero», poiché «la natura ha fatto l’uomo felice» nell’ignoranza, mentre la ragione, scoprendo la verità, lo rende infelice. La religione, le grandi imprese e persino la morale dipendono da «opinioni» e «errori» condivisi, non da verità astratte: «l’opinione è la regina del mondo». Il cristianesimo, «nuova illusione», ravvivò un mondo «in uno stato di morte», ma la sua forza fu «effimera e nociva», come «liquori spiritosi» che esauriscono le energie. La contraddizione tra natura e ragione spiega il «mistero dell’uomo» e la decadenza delle civiltà: «la ragione ingrandisce o impiccolisce?». La risposta è nella «nemicizia scambievole» tra i due principi, dove «la natura supplisce alla ragione infinite volte, ma la ragione alla natura non mai».


7. La ragione come nemica della natura e la ricerca della felicità nell’ignoranza e nell’illusione

L’idea che la ragione, intesa come strumento di cognizione assoluta, sia contraria alla natura umana e alla sua felicità, e che l’ignoranza e l’illusione siano invece le condizioni necessarie per una vita appagante.


Il blocco di testo selezionato affronta il paradosso per cui la ragione, pur essendo considerata il tratto distintivo dell’umanità, si rivela in realtà la principale causa della sua infelicità. L’autore sostiene che la felicità umana non risiede nella conoscenza del vero, ma nell’adesione a credenze e illusioni naturali, che la ragione, con il suo progresso, distrugge inevitabilmente. La corruzione dell’uomo non è dovuta a un difetto di intelligenza, ma al suo eccesso: «la ragione e il sapere corruttori dell’uomo, sono in lui così facili a prevalere» (3730). La natura, invece, fornisce all’individuo tutto ciò che gli è necessario per vivere in armonia con sé stesso e con il mondo, senza bisogno di un sapere che va oltre l’istinto e l’esperienza immediata.

La felicità, dunque, non è un traguardo da raggiungere attraverso la ragione, ma uno stato originario che l’uomo perde quando si allontana dalla natura. Le religioni, in particolare quella cristiana, vengono lette come tentativi di riavvicinare l’umanità a una condizione di equilibrio, offrendo illusioni fondate su verità rivelate che la ragione non può confutare. «La perfezione della ragione consiste a richiamar l’uomo quanto è possibile al suo stato naturale» (4262), ma questo ritorno non può essere completo, poiché la corruzione operata dalla ragione è irreversibile. L’unica via per una felicità relativa, in questo contesto, è l’accettazione di un sistema di credenze che, pur essendo razionalmente fondato, si ponga al di là della ragione stessa, come nel caso della religione.

Il testo evidenzia anche come la società e la civiltà, lungi dall’essere progressi, siano in realtà forme di degradazione: «la società qual è, la ragione qual è ridotta, accresce smisuratamente questi bisogni: il mezzo di servire ai bisogni e di estinguerli, è divenuto padre, e cagione, e fonte perenne e abbondantissima di bisogni» (4220-4221). L’uomo primitivo, simile agli altri animali, viveva in uno stato di sufficienza e armonia, mentre l’uomo civile è condannato a una ricerca infinita e insoddisfatta di beni che non possono mai colmare il vuoto creato dalla ragione. «L’ignoranza parziale può sussistere [...] dunque tener l’uomo più o meno vicino allo stato primitivo, dunque conservarlo più o meno felice» (3776-3777).

In sintesi, il blocco di frasi delineato propone una visione disincantata del progresso umano, dove la felicità non è il risultato di un’accumulazione di conoscenza, ma la conseguenza di un ritorno – anche solo parziale – a uno stato di ignoranza e illusione che la natura aveva originariamente previsto per l’uomo. La ragione, lungi dall’essere una guida, si rivela un ostacolo, e la religione, con le sue verità rivelate, diventa l’unico strumento capace di offrire all’umanità una via di salvezza dalla sua stessa corruzione. «La natura non insegna nulla? non prescrive nulla? [...] La natura non può esser barbara per essenza» (3778, 3781).


8. Sull’odio verso sé stessi e la necessità dell’infelicità: riflessioni su natura umana, filosofia e linguaggio

L’irriducibile conflitto tra l’animo umano e la necessità, l’analisi del suicidio come vendetta contro sé stessi, e le osservazioni su linguaggio, storia e filosofia antica.


Il blocco esplora la reazione umana di fronte all’“infelicità necessaria e irreparabile” (5179), dove l’odio non trova oggetto esterno se non in sé stessi: «io dunque era il solo soggetto possibile dell’odio» (5189). L’autore contrappone gli antichi, che «bestemmiavano gli Dei» (5181) e sfidavano il fato, ai moderni, privi di «fortuna o destino» (5185) come entità personificate, costretti a rivolgere la rabbia contro la propria esistenza. Il suicidio diventa «gioia feroce» (5190), desiderato come «vendetta sopra me stesso» (5188), in un conflitto dove «la vittima di questa battaglia non poteva essere se non io» (5191).

Emergono temi minori: la filosofia come forza inattiva («un popolo di filosofi perfetti non sarebbe capace di azione» 5340), dove solo la «mezza filosofia» (5343) genera movimento, pur tendendo alla «distruzione» (5351); le osservazioni linguistiche su Floro, Orazio e Dante, con citazioni come «vivitur parvo bene» (5163) o «chi vuole andar per pace» (5155) per illustrare idiotismi latini e italiani; la compassione come moto naturale («una pena assai maggiore» 5317) distinta dall’amor proprio, estesa anche agli «oggetti belli, preziosi, rari» (5321). Infine, si accenna alla perdita dell’infinito nell’età adulta («ogni piacere si determina e circoscrive» 5301), dove le sensazioni vaghe sopravvivono solo come «rimembranza della fanciullezza» (5304).


Note

9. L’egoismo come tirannia: servitù, libertà e l’illusione del piacere

Dall’analisi dei meccanismi del potere e della natura umana alla condanna di una società incapace di uguaglianza.

Il blocco definisce un sistema in cui l’egoismo domina sia chi comanda sia chi obbedisce, riducendo l’esistenza a una dialettica tra «regnare o servire» (5382, 5393). I principi, i magistrati e i potenti «sanno riunir l’una cosa all’altra» (5387) — servitù e dominio — ma questa duplice capacità li rende «incapaci di libertà e di uguaglianza» (5390), stati che richiedono «qualità e forze della natura» (5391) assenti in una società «snaturata» (5392). La libertà esige «homines non mancipia» («uomini, non schiavi», 5394), mentre l’egoismo, «inseparabile dall’uomo» (5395), lo spinge a «innalzarsi» (5396) solo attraverso la corruzione o la sottomissione. Lo stato libero, dove «la fortuna, gli onori, le ricchezze [...] dipendono dalla moltitudine» (5399), è insostenibile per chi «manca di virtù e pregi veri» (5400), condannato a «non trovar vita» (5400) al di fuori della tirannia o della schiavitù.

Il discorso si estende poi alla natura effimera del piacere, sempre «futuro» (5457, 5480) e mai compiuto: «l’atto proprio del piacere non si dà» (5458). Ogni istante di godimento è «relativo agl’istanti successivi» (5465), e anche il ricordo di un piacere passato si trasforma in «una migliore idea del futuro» (5461). La speranza, «chiamata piacere» (5459), e la delusione che ne consegue — «il nostro dolore, dopo tali circostanze, era inconsolabile» (5437) — rivelano un’anima «agitata frequentemente» (5448) da timori e desideri mai appagati. La fanciullezza, dove «i dolori sono molto più grandi» (5426) per l’«opinione della felicità possibile» (5430), diventa metafora di una condizione umana condannata a «sperar poco» (5439) e a «provare così un altro piacere, il di cui oggetto è [...] sempre futuro» (5474).


10. La contraddizione tra natura e società: l’impossibilità della perfezione politica

Dall’egoismo moderno alla decadenza dei governi: come la corruzione della natura rende vano ogni tentativo di felicità collettiva.

Il blocco analizza la tensione irrisolvibile tra la libertà naturale dell’individuo e la necessità di unità imposta dalla società, dimostrando come ogni forma di governo — dalla monarchia assoluta alla democrazia — sia condannata all’imperfezione una volta venuta meno l’originaria purezza dei costumi. L’autore parte dalla critica alla filosofia greca che esalta la «securitas» come fine supremo («curam fugere», «ne sollicitus sis»), definendola una «filosofia dell’inazione» che, lungi dal garantire felicità, produce «mille assurdità e scelleraggini» e si rivela «contraddittoria colla felicità dell’individuo nello stato sociale». La società, infatti, esige «unità» e «cospirazione al bene comune», ma l’«egoismo» moderno — «il peggior flagello» — rende impossibile sia l’ubbidienza spontanea al principe sia la condivisione disinteressata del potere.

La monarchia assoluta, «inerente all’essenza della società», è presentata come l’unico governo «perfetto» nello stato primitivo, quando «la virtù, le illusioni naturali» guidavano gli uomini e «la scelta del principe cadeva sul più degno». Con la corruzione, però, «non fu più possibile trovare un principe perfetto»: il potere ereditario o casuale trasforma la monarchia in «tirannia», dove «tutti sono obbligati a proccurare il male di sé stessi» per «capricci» di un solo. Le repubbliche, sorte come reazione, reggono solo finché «resta tanta natura da esser suscettibile di virtù» e «l’uguaglianza» non è minacciata dalla «pleonejÛa» (l’eccesso di ricchezze, ambizione, sapere). Ma «spente le illusioni», anche la democrazia crolla: «le disuguaglianze nascono, le fazioni si formano, e alla fine trionfa un solo». Ogni tentativo di «puntellare» i governi con «costituzioni», «divisioni di poteri» o «leggi matematiche» è «un male indispensabile», «una gamba di legno» che sostituisce «la naturale», ma non la eguaglia: «la ragione non può supplire alla natura».

Il sommario evidenzia come il testo si strutturi attorno a tre nuclei:

  1. La critica all’egoismo moderno come negazione del «sacrifizio al bene comune», dove «l’ubbidienza spontanea non è più da sperare» e «la comunione d’interessi è impossibile». Citazioni chiave:

    • «Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtù dal mondo, che piacere [...] rimane?»
    • «Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo?»
    • «L’egoismo non è capace di sacrifizi».
  2. La decadenza dei governi come conseguenza della «corruzione»: la monarchia, «buona in origine», diventa «tirannia»; la democrazia, «felice finché dura la natura», si frantuma in «fazioni» e «oligarchie». La «perfezione» è «solo relativa» e «primordiale».

    • «La perfezione del principe [...] non fu più possibile».
    • «Le repubbliche [...] perirono per le ricchezze, il lusso, le ambizioni».
    • «La costituzione è una medicina a un corpo malato».
  3. L’impossibilità di un rimedio razionale: ogni «sistema» che pretenda di «sostituire l’arte alla natura» è «contraddittorio». La «precisione matematica»«alieno alla natura» — genera «nuovi mali»:

    • «La stretta precisione [...] è cresciuta in proporzione della corruzione».
    • «Fuor della natura non v’è perfezione».
    • «La società spoglia l’uomo di qualità essenziali [...] quindi è essenzialmente imperfetta».

Il testo si chiude con una «conclusione disillusa»: «l’uomo è naturalmente libero e uguale», ma «la società esige dipendenza e disuguaglianza»«contraddizione» che «nessun governo può risolvere». Le citazioni da Cicerone («societas quaedam»), Sallustio («initio reges [...] ingenium alii corpus exercebant»), e Tucidide («ma J Ûa m¢n J r sow, logismòw d’ öknon f¡rei», «l’ignoranza fa l’uomo pronto, la ragione ritenuto») servono a dimostrare come «la natura, non la ragione, sia l’unica guida possibile» — eppure «irrimediabilmente perduta».


11. La lingua come organismo vivo: evoluzione, decadenza e necessità della novità

La lingua greca e latina a confronto: autonomia creativa e dipendenza culturale.

Il testo analizza il rapporto tra lingua, cultura e innovazione, evidenziando come la Grecia abbia formato autonomamente il proprio patrimonio linguistico e intellettuale, mentre Roma abbia assorbito quello greco già strutturato, con conseguenze durature sulla purezza e sull’evoluzione del latino. Si discute inoltre la necessità di una "giudiziosa novità" per evitare la decadenza delle lingue moderne, in particolare dell’italiano, minacciato da un eccessivo purismo e dall’adozione acritica di forestierismi.


Il blocco esamina il processo di formazione e trasformazione delle lingue, partendo dal confronto tra la Grecia — che «formò, stabilì, perfezionò, determinò» (6980) il proprio sapere e la propria lingua senza dipendere da altre tradizioni — e Roma, la cui cultura «venne dalla Grecia, e tutto in un tratto, e belle e formate» (6984). Mentre i Greci «non ebbero bisogno di ricorrere ad altre lingue per esprimere le [loro] cognizioni» (6981), i Latini «non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze, arti, lettere greche nel loro terreno» (6986), ereditando così anche un lessico tecnico già consolidato. Questo fenomeno spiega perché il latino, «affogata ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove» (6995), abbia finito per «abbandonare il suo terreno» (6995) e adottare termini greci, trasformando «la facoltà generativa [...] in facoltà adottiva» (6996).

La riflessione si estende alle lingue moderne, con un focus sull’italiano, la cui ricchezza storica è minacciata da un «pazzo principio» (7122) che nega la necessità di evoluzione. Il testo sostiene che «una lingua non avrà più mestieri di accrescimento, allora solo quando o essa o il mondo sarà finito» (7125), e che «impedire alle lingue la giudiziosa e conveniente novità [...] è tutt’uno col guidarle [...] alla barbarie» (7158). Vengono criticati tanto il purismo eccessivo — che «vuol ricondur[la lingua] a’ suoi principii» (7015) — quanto l’adozione passiva di forestierismi, specialmente dal francese, che «rende con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè» (7008). La soluzione proposta è un equilibrio tra «coltivare il fondo della [propria] lingua» (6997) e «arricchirla del bisognevole» (7194), anche attraverso «nuovi composti chiarissimi, facilissimi, naturalissimi» (7066), evitando così che la lingua «perd[a] quello che avea guadagnato» (7110) e cada nell’impotenza espressiva.

Emergono temi minori come il ruolo degli scrittori nella vitalità linguistica — «la copia e la varietà degli scrittori» (7090) come motore di arricchimento lessicale — e il parallelo tra la decadenza del latino post-ciceroniano e il rischio attuale per l’italiano, «fermato, neghittoso, ed immobile» (7133). Si sottolinea inoltre come «tutte le lingue colte [...] abbiano avuto estesamente la facoltà dei composti» (7265), strumento essenziale per «esprimere tutte le cose occorrenti» (7271), e si critica la perdita di questa capacità nelle lingue romanze, dove «l’uso non [li] sopporta» (7049). La conclusione è un appello a «proclamare lo studio profondo e vasto della lingua» (7229) senza rinunciare alla «libertà che ciascun scrittore [...] usi il suo giudizio» (7230), per evitare che la lingua diventi «buona solo a parlare o scrivere ai bisavoli» (7139).


12. Il declino della lingua latina tra artificio e barbarie: universalità mancata e frammentazione inevitabile

La lingua latina come specchio di una civiltà al tramonto, tra rigidità artificiosa e disgregazione organica.


Sommario

Il blocco descrive il paradosso della lingua latina scritta: una perfezione formale che ne decretò l’isolamento e l’inadeguatezza all’universalità, nonostante la diffusione dell’Impero. Le frasi tracciano un percorso di decadenza precoce, legato a cause storiche e culturali: «la letteratura latina tardò tanto da cominciare quando restava poco tempo a poter durare in buon essere» (7545), in un’epoca in cui «era imminente la corruzione e il precipizio della società, di Roma, delle nazioni civili, della libertà, del mondo». La lingua colta si distaccò radicalmente dal volgare, «pose e creò una somma distinzione fra la lingua degli scrittori, e quella del popolo» (7545), assumendo «artifizio, squisitezza, tortuosità» (7551) che la resero «la meno adattata alla universalità che mai si vedesse» (7547). L’universalità fu raggiunta solo «quando fu imbarbarita» (7548), con la confusione tra scritto e parlato e la frammentazione in «una famiglia di lingue tutte barbare» (7549), processo parallelo al «misero diflusso» dell’Impero (7550).

Emergono temi minori: la comparazione con il greco, lingua di «candore» e «nuda venustà» (7558) che il latino non eguagliò mai, se non in rari autori come «Celso, del quale [si nota] la gran somiglianza […] coll’italiano» (7554); la critica alla civiltà come forza corruttrice, dove «tutte le forze dell’uomo sono nella natura e illusioni» (7580) e «la civiltà […] e l’impotenza sono compagne inseparabili» (7581). La riflessione si allarga a un ciclo storico ricorrente: «i popoli naturali o barbari […] saranno sempre signori dei civili» (7581), con l’Europa destinata a soccombere ai «mezzi barbari del Settentrione» (7583). Chiude una dialettica tra permanenza e mutamento: «i periodi della società si rassomigliano» (7593), ma «le diverse epoche […] sono fra loro diversissime» (7591), con l’uomo «sempre composto degli stessi elementi […] diversamente sviluppati» (7601). La lingua, come la storia, oscilla tra «proprietà inviolabile» (7551) e «barbarie» (7565), tra «indole nazionale» (7566) e «carattere straniero» (7567).


Note

Riferimenti testuali

13. L’egoismo naturale e la dissoluzione della società: dall’amor patrio all’odio universale

L’illusione della civiltà moderna svelata attraverso la lente dell’amor proprio e delle sue conseguenze: dalla distruzione delle nazioni alla guerra perpetua tra individui.

Il testo analizza la natura umana come fondamento ineliminabile dell’odio e dell’egoismo, dimostrando come la società antica, basata sull’amor patrio e sull’odio per lo straniero, fosse coerente con le leggi naturali, mentre quella moderna, priva di tali passioni, si riduca a un aggregato di individui in lotta continua. Le frasi selezionate delineano un percorso che parte dalla critica alla presunta «barbarie» dei costumi antichi — „non sarà dunque barbara? (7616) — per giungere alla constatazione che „l’uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla solitudine primitiva“ (7656), dove „l’individuo solo, forma tutta la sua società“ (7657). L’odio, una volta rivolto verso lo straniero, si concentra ora sul „compagno, il concittadino, l’amico, il padre, il figlio“ (7782), mentre „le nazioni sono in pace al di fuori? […] ma in guerra al di dentro“ (7786-7787).

Il sommario evidenzia come l’amor proprio, „un amore di preferenza“ (7622), generi necessariamente l’odio verso gli altri, rendendo impossibile una società fondata sul „bene universale“ (7780), „contraddittorio nella sua stessa nozione“ (7822). Gli antichi, „amando la patria sua“ (7663), trasformavano l’egoismo individuale in „egoismo nazionale“ (7761), mentre oggi, „sparito l’amor patrio“ (7776), „l’egoismo universale“ (7800) produce „una guerra perpetua e senza speranza di pace“ (7790). Le virtù pubbliche e private, un tempo sostenute dalle „illusioni“ (7957) dell’onore e della gloria nazionale, sono ora sostituite da „viltà, i vizi, la monotonia, il tedio“ (7949).

Il testo sottolinea inoltre la „contraddizione“ (7823) insita nell’idea di un amore universale, „sogno“ (7780) che, „non potendo l’uomo spogliarsi dell’amor di se stesso“ (7773), si risolve in „egoismo individuale“ (7820). Le guerre moderne, „non già meno frequenti, nè meno ingiuste“ (7855), sono mosse dall’„egoismo individuale di chi comanda“ (7856), mentre „anticamente combatteva il nemico contro il nemico“ (7869), „ogni individuo per la causa propria“ (7870). La „natura umana“ (7947), immutabile, porta inevitabilmente a „desolare“ (7946) le società, „senza ricavarne entusiasmo, virtù, o tolleranza“ (7948), ma solo „torpore, freddezza, inazione“ (7949).

Infine, il blocco affronta il paradosso per cui „la libertà vera e perfetta di un popolo non si può mantenere senza l’uso della schiavitù interna“ (7973), dimostrando come „l’uguaglianza“ (7995) e la „libertà“ (7985) siano incompatibili con lo stato sociale, a meno di delegare „i servigi bassi“ (8001) a una „seconda razza di uomini“ (8023). La „società accidentale“ (7627) degli antichi, fondata su „interessi passeggeri“ (7627), si oppone alla „società ristretta e legata“ (7652) dei moderni, dove „l’utile della società svanisce“ (7658) e „resta il danno“, cioè „il conflitto“ (7658) tra individui ridotti a „colonne d’aria“ (8132) che „premono l’un l’altro“ (8133) in una competizione senza fine.


14. La scrittura come arte e la decadenza dell’imitazione letteraria: tra algebra e geroglifici, stile e naturalismo

Dall’Enciclopedismo napoletano alle riflessioni sul linguaggio tra Aprile e Maggio 1821.

Il blocco testuale si concentra sulla critica alla degenerazione della scrittura in mera rappresentazione simbolica, quasi un’"algebra" che sostituisce la parola con segni arbitrari, privi della forza evocativa e affettiva propria del linguaggio. L’autore condanna l’uso eccessivo di "lineette, puntini, spazietti, punti ammirativi doppi e tripli", pratiche che riducono lo scrivere a un "ritorno all’infanzia" dell’arte, paragonabile alla scrittura geroglifica o a quella cinese, dove "le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare". La vera scrittura, invece, deve "rappresentar le parole coi segni convenuti" e suscitare "idee e sentimenti" attraverso un’arte dello stile che i moderni hanno smarrito, a differenza degli antichi.

L’imitazione letteraria, altro tema centrale, viene analizzata nei suoi limiti: la "maraviglia", pregio fondamentale dell’imitazione, svanisce quando questa si riduce a una mera trascrizione di suoni ("trap trap trap" per il calpestio dei cavalli) o a un "ingombro di segnetti". Tale pratica, definita "imitazione delle balie e de’ saltimbanchi", è priva di difficoltà e quindi di valore artistico, confondendo l’arte del poeta con la banalità dei "mimi, de’ ciarlatani, delle scimie". La scrittura deve obbligare il lettore alla "meditazione" e alla "posatezza", non attraverso artifici grafici, ma con la "profondità" e la "perfezione" dello stile.

Emergono inoltre riflessioni sulla lingua come strumento di potere e identità nazionale, con esempi storici che mostrano come la lingua latina, nonostante la forza politica di Roma, non sia riuscita a soppiantare il greco in Grecia, mentre lingue come il francese, modellate sulla ragione, abbiano acquisito universalità. Si affronta anche il rapporto tra lingue antiche e moderne, evidenziando come l’italiano, per la sua libertà e ricchezza, sia più adatto a comprendere il latino e il greco rispetto al francese, lingua "più serva e meno libera", dominata dalla razionalità matematica.

Infine, si toccano temi come la degenerazione del coraggio militare con l’introduzione delle armi da fuoco, la superiorità dell’immaginazione sulla ragione nelle lingue antiche, e la contrapposizione tra il "sistema di odio nazionale" degli antichi e il "calcolo" moderno, che ha sostituito l’azione con la mera speculazione. La scrittura, insomma, deve essere "scrittura e non algebra", e l’arte dello stile va recuperata nella sua pienezza per evitare che la letteratura si riduca a un "mestieraccio" di segni vuoti.


15. I verbi continuativi e frequentativi latini: formazione, significato e confutazione delle etimologie errate

L’analisi dei verbi derivati in latino tra continuativi e frequentativi, con particolare attenzione alle critiche alle etimologie di Monti e Forcellini.

Il testo esamina la distinzione tra verbi continuativi (che esprimono un’azione prolungata, come „allettare“ o „dilettare“) e frequentativi (che indicano ripetizione, come „saltitare“ o „dictitare“), confutando le interpretazioni errate di grammatici e lessicografi. Si evidenzia come molti verbi in „-tare“ (es. „optare“, „potare“) siano in realtà continuativi di forme primitive perdute, spesso riconducibili a participi o supini troncati (es. „potus“ per „potare“). Viene inoltre contestata l’etimologia di „allettare“ proposta da Monti, che lo deriva da „letto“, dimostrando invece la sua origine da „adlectare“ (participio „adlectus“ di „adlicio“), verbo che significa „tirare a sé, indurre con lusinghe“. Si analizzano poi le regole di formazione dei frequentativi (desinenze „-itare“), i casi di sovrapposizione semantica tra le due categorie e la progressiva confusione d’uso nelle lingue derivate, inclusa l’italiana, che ha perso la facoltà dei continuativi ma ha sviluppato forme analoghe (es. „spesseggiare“). Infine, si ipotizza un’origine monosillabica delle radici verbali latine, con riflessioni sulla derivazione dei verbi da nomi primitivi e sulla maggiore attitudine del latino (rispetto al greco) a conservare tracce delle forme originarie.


Note e riferimenti

16. Sui verbi continuativi e la loro distinzione dai frequentativi: analisi linguistica e casi esemplari

Fenomeni di persistenza fonetica e morfologica tra lingue antiche e moderne, con particolare attenzione alla formazione dei verbi continuativi e alla loro funzione espressiva.

Il blocco esamina la natura dei verbi continuativi in latino e nelle lingue derivate, distinguendoli dai frequentativi attraverso esempi tratti da autori classici. Si evidenzia come verbi come iactabant (da iacere), versare (da vertere), transversare (da transvertere) e coarctare (da coercere) esprimano un’azione prolungata e ininterrotta, non una mera ripetizione. L’analisi si estende a casi lessicali in italiano, francese e spagnolo, mostrando come forme apparentemente "barbare" o moderne abbiano radici in usi latini volgari o arcaici. Si citano passi di Virgilio, Plauto, Orazio e altri per dimostrare che la scelta del continuativo — anziché del positivo o del frequentativo — arricchisce il significato, descrivendo azioni “sine ulla intermissione” (10412) o abitudini consolidate, come in “adcepto, expenso, et cui debet, dato” (10376). Vengono inoltre discussi fenomeni fonetici (ad esempio l’aspirazione del f greco come p aspirato, 10280) e morfologici (la formazione di participi anomali come pulsus da pellere, 10409), con riferimenti a glossari e trattati lessicografici dell’epoca. Il testo suggerisce che molti verbi delle lingue romanze, spesso considerati innovazioni, discendano in realtà da continuativi latini non attestati nella letteratura classica ma vivi nel parlato.


17. Evoluzione linguistica e continuità: dai verbi latini alle trasformazioni fonetiche

Dall’etimologia dei verbi alla percezione del suono: come le lingue mutano tra conservazione e innovazione.

Il blocco esamina la derivazione e la funzione dei verbi latini e italiani, con particolare attenzione ai continuativi e alle desinenze verbali, evidenziando differenze semantiche e temporali tra “atto” e “azione”: «l’atto non è continuato, l’azione sì» (10514), «quando il verbo positivo latino significa atto, il verbo continuativo significa azione» (10517). Si analizza la persistenza della desinenza «in ai» (10489) come «vera e primitiva desinenza latina» (10489), conservata nell’italiano e nel francese scritto ma perduta nella pronuncia spagnola, dove «amè» (10491) deriva dall’antico «amai», modificato per «commercio scambievole» (10491) tra lingue romanze. Il testo approfondisce inoltre la percezione storica del «concorso delle vocali» (10494), inizialmente «fonte di dolcezza» (10494) nelle lingue antiche e poi «considerato come duro e sgradevole» (10495) con il «ripulimento» (10496) linguistico, confrontando usi greci, latini e italiani: «la lingua italiana antica [...] non solo non isfugge il concorso delle vocali, ma lo ama» (10501), mentre «oggi [...] è per lo più sfuggita come vizio» (10503).

Emergono temi minori come la «languida continuazione» (10486) espressa dai verbi italiani «venir facendo, andar dicendo» (10484), meno efficaci dei «continuativi latini» (10485), e la «differenza tra poesia greca e latina» (10498) nell’elisione vocale: «nella poesia latina [...] l’ultima vocale [...] si perde» (10498), «nella greca [...] si conta per sillaba» (10499). Il discorso si chiude con osservazioni sulla «pronuncia dei dittonghi» (10507), un tempo «sciolti» (10508) e poi «chiusi» (10508), segnalando un «cambio [...] riscontrabile fino a Callimaco» (10507).


Note

Riferimenti cronologici

Giugno 1821 (10483, 10488, 10510).

Riferimenti interni

Pagine citate: 1112, 1113, 1117, 1118, 1121, 1128, 1154, 1156-1161, 1166, 1212, 2328.

Fonti esterne

Andrès, t.2. p.281 (10492); Visconti (10507).


18. Sulla relatività del bello e la natura acquisita delle idee di bellezza e bruttezza

Dall’osservazione dei fanciulli alla critica dell’assoluto: come l’assuefazione, non la natura, determina il giudizio estetico e morale.

Il blocco analizza la formazione delle idee di bellezza e bruttezza come fenomeni esclusivamente relativi e acquisiti, negando l’esistenza di un canone assoluto o innato. L’autore dimostra che il giudizio estetico nasce dall’«assuefazione del senso della vista» (10766) e dal confronto tra forme, proporzioni e convenienze osservate, non da un presunto «tipo preesistente» (10863) o da «un ordine necessario delle cose» (10890). La tesi si articola attraverso esempi concreti: il fanciullo, privo di «idea innata» (10755) delle proporzioni umane, le apprende gradualmente vedendo «il naso o la bocca di quella tal misura» (10765) nelle persone intorno a sé, e solo in seguito «concepisce il senso della sproporzione» (10768) quando incontra tratti divergenti. L’errore percettivo — come scambiare «una piccola differenza di colore» (10780) per un secondo naso — rivela come «il brutto non è assoluto» (10779), ma dipende dalla «роса assuefazione» (10778) e dalla «scarsa idea delle proporzioni» (10774) nei primi stadi dello sviluppo.

L’analisi si estende alla critica del «genio» (10803) come mera «facoltà osservativa e comparativa» (10814), frutto di «organi delicati» (10804) e non di un «magnetismo» (10801) mistico. Anche il «perfezionamento del gusto» (10787) in arte o letteratura è ricondotto all’«esperienza» (10789) e al «confronto» (10796), non a un’«simpatia» (10802) con un bello astratto. La relatività del giudizio emerge anche nel confronto interculturale: «un Europeo che vede per la prima volta degli Etiopi» (10851) non ne distingue «quasi alcuna differenza» (10852), così come «un uccello Americano» (10866) può apparire «brutto» (10870) a chi non ne conosca le «proporzioni» (10869) specifiche. La conclusione radicale è che «nessuna cosa è bella nè buona assolutamente» (10885), poiché «il bello è puramente relativo» (10752) e «dipende dall’assuefazione» (10849), non da «un tipo universale» (10863). Il testo chiude con una nota linguistica (10914-10920) sulla derivazione dei verbi frequentativi, tema marginale ma funzionale a sottolineare come anche le categorie grammaticali — come quelle estetiche — siano frutto di «arbitrio» (10916) e non di leggi innate.


Note
Riferimenti testuali

19. Il ruolo della scrittura nella formazione e nell’evoluzione delle lingue

Convenzione, letteratura e limiti dell’armonia linguistica tra suono, segno e società


Sommario

Il blocco definisce la scrittura come «il principal mezzo di questa convenzione umana» (10927) per stabilire un linguaggio condiviso, senza il quale «la lingua non è lingua ma suono» (10932). La tesi centrale è che solo attraverso la scrittura — e in particolare la «letteratura largamente considerata» (10941) — una lingua possa arricchirsi, uniformarsi e diffondersi in una nazione, superando i limiti della «viva voce di ciascheduno, poco ed a pochi si estende» (10933). Le lingue primitive, prive di questo strumento, restano «impotenti, o poverissime, e debolissime» (10928), mentre la scrittura permette di «convenire scambievolmente» (10929) su significati, metafore e regole sintattiche, fissando «una convenzione universale» (10932) che né la voce né le comunicazioni individuali potrebbero garantire. Si sottolinea come «le scritture vanno per le mani di tutta la nazione, e durano anche dopo che quegli che le fece, non può più parlare» (10934), rendendo la letteratura il veicolo privilegiato per «produrre, stabilire, regolare e mantenere» (10943) la lingua comune.

Un tema minore riguarda l’ordine naturale delle idee e dei segni linguistici: si contesta la derivazione tradizionale dei nomi dai verbi (es. lex da legere), sostenendo invece che «molto prima ebbero gli uomini un nome da significare colui da cui veniva il comando, che un altro da significar l’azione stessa del comandare» (10947). L’idea concreta (il «re, cioè quegli che comanda») precede quella astratta («l’azione del comandare»), perché «l’idea metafisica di ciò che questi faceva» (10951) richiede una «idea chiara» (10953) che solo successivamente può essere «determinata e circoscritta con un segno» (10951). Si critica quindi l’approccio dei gramatici, «non ideologi», che ignorano «la sana filosofia, e ideologia, e la considerazione del progresso naturale delle idee» (10946).

Infine, si analizza l’«infinita varietà delle opinioni [...] rispetto all’armonia delle parole» (10968), smontando l’idea di un’armonia assoluta: «se i versi italiani [...] fossero assolutamente armoniosi, lo sentirebbe tanto il forestiero [...] quanto l’italiano» (10978). L’armonia è invece relativa a «climi, nazioni, assuefazioni» (10969), come dimostra l’esempio del «volgo» che «trova una certa armonia negl’inni ecclesiastici» (10982) — simili ai versi italiani per «struttura, l’andamento e il metro» (10984) — ma non in Virgilio. Anche la rima, «spiacevolissima agli antichi greci e latini» (10974), è un costrutto culturale: «avrebbero potuto usar la rima meglio di noi [...] e nondimeno la fuggivano» (10976-10977). L’orecchio si forma solo attraverso «lungo uso» (10992), e «il diletto dell’armonia» (10988) dipende dalla «minute corrispondenze [...] e relazioni» (10980) che ogni comunità impara a riconoscere.


20. L’armonia relativa e il vocabolario universale: tra assuefazione, purismo e necessità scientifica

Dall’impossibilità di un bello assoluto alla difesa di una lingua adeguata al secolo.


Sommario

Il blocco affronta due nuclei tematici strettamente intrecciati: l’inesistenza di un’armonia o bellezza assoluta — determinata invece dall’assuefazione e dalla relatività culturale — e la necessità di un lessico filosofico-scientifico condiviso per l’Italia, pena l’esclusione dal progresso europeo. L’autore nega che esista un canone estetico o linguistico universale: „non esiste armonia assoluta“ (11009), poiché „la regola [dell’armonia] sarebbe trovata“ (11010) se esistesse, eppure „nessuno l’ha trovato“ (11007) nemmno nei testi sacri ebraici, nonostante le parole siano „tutte intere e ordinate“ (11010). L’assuefazione altera persino la percezione fisica: „assuefacendoci a vederle [...] ci vengono parendo meno brutte, più sopportabili, più piacevoli, e finalmente bene spesso anche belle“ (11020), fino a rovesciare il giudizio iniziale (ci torneranno forse a parer brutte 11021). Lo stesso vale per „ogni altro genere di oggetti sensibili o no“ (11022), inclusi i metri poetici: „l’orecchio formato all’armonia de’ suoi metri“ (11000) preferisce „qualunque altra armonia forestiera, ancorchè giudicata bellissima“ (11000), e „chi di noi sente l’armonia de’ versi orientali? (11002).

Il secondo tema riguarda l’urgenza di un lessico filosofico-scientifico europeo, senza il quale l’Italia resta „fuori di questo mondo e fuori di questo secolo“ (11037). Le lingue moderne condividono „un buon numero di voci comuni, massime in politica e in filosofia“ (11028), formando „una specie di piccola lingua, o un vocabolario, strettamente universale“ (11033) che „serve all’uso quotidiano di tutte le lingue“ (11035). Rifiutarlo significa „scriver cose da bisavoli“ (11057) e condannare la letteratura italiana a „restare un secolo e mezzo addietro“ (11057). Le obiezioni puristiche — „i nostri antichi non poterono aver quelle idee“ (11052) — sono confutate: „quelle idee non sono meno italiane“ (11048) solo perché „i nostri antichi non le arrivarono a concepire“ (11048), e „quello ch’è puro in tutta l’Europa, è impuro in Italia“ (11036) per mero „scrupolo“ (11053). La scienza, „sempre uguale dappertutto“ (11039), esige „termini stabili e universalmente uniformi“ (11090): „mutando la parola, è tolta via la forza della convenzione“ (11079), e „senza [quei termini] non saremmo bene intesi nè dagli stranieri, nè da’ nostri medesimi“ (11099). L’autore propone quindi un „Vocabolario universale Europeo“ (11104) per „idee chiare, sottili, e precise“ (11104), poiché „la precisione non deriva [...] se non dalla convenzione“ (11078) che lega „quell’idea precisa e netta“ (11079) alla parola usitata.


Note

Testi tratti da appunti datati 23–24 giugno 1821 (11011, 11017, 11026–11027, 11045). Riferimenti interni: pp. 1155 (11014), 1229 (11077), 1233 (11012, 11019). Citazioni in francese o latino tradotte: p.es. verbi latini terminati in itare“ (11015) → „verbi con forza diminutiva“.


21. La precisione filosofica e l’eleganza letteraria: un vocabolario per l’Italia

Tra necessità scientifica e purezza linguistica, il conflitto tra termini esatti e parole poetiche

Il blocco definisce un progetto di “Vocabolario italiano filosofico” (11109) come strumento urgente per colmare una lacuna culturale: l’Italia, pur ricca di tradizioni lessicali, “disprezza e proscrive” (11110) voci “nobilissime” (11113) legate alla filosofia, “la più nobile delle scienze umane” (11113), mentre le altre lingue europee le adottano senza esitazione. L’autore insiste sulla “diligenza” (11107) richiesta per “definire e circoscrivere” (11107) i termini filosofici, citando come modello il Dizionario di Samuel Johnson per l’inglese (11108) e auspicando esempi tratti da “scrittori profondissimi” (11107) di ogni epoca. La lingua italiana, però, deve “adottare le dette voci senza timore” (11111), pur “non volendo” (11112) che un vocabolario europeo “non fosse italiano” (11112), quasi a rivendicare un ruolo centrale nella tradizione filosofica continentale.

Il nucleo del discorso si sposta poi sulla doppia natura delle parole: “alle scienze son buone le voci precise, alla bella letteratura le proprie” (11118). Qui emerge una netta distinzione tra “termini” (11119) — “nudi e precisi” (11122), funzionali alla filosofia e alle scienze — e “parole” (11119), “vaghe” (11123) ed “eleganti” (11131), indispensabili alla poesia e alla prosa letteraria. L’autore condanna la “profusione de’ termini” (11129) nella letteratura, esempio di “corruzione” (11130) che ridurrebbe “tutti i generi di scrivere al genere matematico” (11130), e cita il latino — dove “tribunus militum” (11134) era lecito in prosa ma “ignobile” (11134) in poesia — per dimostrare che “la purità” (11137) di una voce non coincide con la sua “convenienza” (11137). La filosofia, “il cui oggetto è il vero” (11143), e la poesia, “il cui oggetto è il bello, ch’è quanto dire il falso” (11142), sono “incompatibili” (11144): “la poesia quanto è più filosofica, tanto meno è poesia” (11147). Il blocco si chiude con un accenno storico alla “diffusione universale” (11152) dei termini arabi e greci nelle scienze, a sottolineare come l’adozione di lessici specialistici sia un fenomeno ricorrente, non una concessione alla modernità.


22. Lingua, poesia e progresso dello spirito umano: analisi, termini e radici primitive

Dall’etimologia alla filosofia del linguaggio: come la precisione distrugge la bellezza e il volgare nutre la ricchezza espressiva

Il blocco testuale definisce un’analisi critica del rapporto tra lingua, poesia e progresso intellettuale, articolata su tre assi principali: 1. la contrapposizione tra precisione terminologica (filosofica, scientifica) e proprietà espressiva (poetica, letteraria), con la denuncia della «nudità e secchezza» dei termini che «distruggono la poesia» (11211) e «esprimono un’idea più semplice e nuda che si possa» (11210); 2. la difesa della ricchezza linguistica italiana, fondata sulla «immensa facoltà dei derivati» (11251), sull’«adozione del linguaggio popolare» (11295) e sulla «varietà degl’ingegni» degli scrittori (11293), contrapposta alla povertà del francese, «lingua manuale» (11187) ma «incapace di vera poesia» (11348); 3. l’indagine archeologica sulle radici primitive delle lingue, esemplificata dall’analisi di «hulh/silva» (11511-11583), dove si dimostra come «le prime lingue fossero monosillabe» (11507) e come «l’unità d’origine» delle favelle sia oscurata da «infinite alterazioni» (11496).

Il testo insiste sulla «barriera insormontabile» (11176) tra poesia e filosofia, dove «l’analisi delle idee [...] è la morte della bellezza» (11202) e «la precisione toglie la proprietà» (11344), mentre «la proprietà deriva dal volgare» (11345). La lingua italiana è lodata per aver «attinto al popolare» (11314) senza «sottometersi a esso» (11331), evitando così la «pedanteria» (11264) di chi vieta i derivati o «l’abuso dei termini» (11230). L’etimologia di «silva» (11511-11577) diventa paradigma per dimostrare che «tutte le lingue derivano da poche radici primitive» (11436), alterate da «climi, organi, letterature» (11452) e dalla «scrittura, che fissa ma anche corrompe» (11475). La «ricchezza italiana» (11271) è attribuita alla «varietà degli scrittori» (11288) e al «non aver rinunciato alle antiche forme» (11286), a differenza del francese, «pieghevole ma povero» (11187). Infine, si afferma che «il progresso dello spirito umano dipende dai termini» (11228), ma «la poesia muore con l’analisi» (11202), e «la bellezza nasce dal vago, non dal preciso» (11209).


Note e riferimenti minori

Fonti citate
Tematiche minori

23. L’imperfezione originaria degli alfabeti e le sue conseguenze sulla conservazione delle lingue

Le prime scritture tra teoria e pratica: errori, alterazioni e perdite nella trasmissione delle lingue antiche.


Il blocco esamina le difficoltà insite nel passaggio dalla „teorica alla pratica“ (11619) nella creazione dei primi sistemi di scrittura, evidenziando come „lo scrivere una lingua non mai stata scritta“ (11620) abbia generato „difficoltà, inconvenienti, disordini infiniti“ (11621). Gli alfabeti, „come tutte le cose umane, e massime così difficili e sottili, durarono per lunghissimo tempo imperfetti“ (11622), a causa di un’„analisi dei suoni“ (11623) incompleta, che „non arrivò subito ai suoni intieramente elementari“ (11624). Ne derivarono „segni inutili e soprabbondanti“ (11625) accanto a „mancanze di segni necessari“ (11625), con un „sistema peccante di роса semplicità e di troppa semplicità“ (11626).

L’assenza iniziale di segni per le vocali — „i primissimi alfabeto dovettero essere molto più imperfetti“ (11627) — causò confusioni lessicali („quante parole che si distinguevano ottimamente nella pronunzia, si dovettero confondere nella scrittura“ (11628)) e alterazioni semantiche („le proprietà, i significati, le origini delle parole si vennero a poco a poco a confondere“ (11629)). Tale imperfezione, „inevitabilmente“ (11649), „dovè nociuto alla perfetta conservazione delle primitive radici“ (11630), svisandone „forme“ e „significati“ (11630). Gli esempi includono la scrittura ebraica senza vocali, dove „parole di diversissimo significato“ (11691) risultano „perfettamente uguali“ (11691), e la „pronunzia antica“ (11697) delle lingue orientali, „in grandissima parte perduta“ (11697) a causa della „imperfetta maniera di scrivere“ (11681).

Il testo sottolinea come „la necessaria imperfezione delle prime scritture“ (11630) abbia „alterato la lingua scritta“ (11627) e „guastato non poche parole“ (11642), con effetti persistenti anche in epoche successive: „quanti errori, quante sviste perpetuate in un’opera“ (11647). La „scrittura quasi stenografica“ (11674) degli alfabeti orientali, priva di vocali, „somigliava“ (11664) a sistemi di notazione rapida, mentre „le vocali“ (11652), „più spirituali“ (11657) e „difficili a separarsi“ (11657) dalle consonanti, furono „considerate come suoni inseparabili“ (11660) e „incapaci d’esser fissate“ (11660). Ciò spiega perché „i più antichi alfabeti orientali mancarono effettivamente de’ segni delle vocali“ (11681), con conseguenze sulla „gramatica“ (11683) e sulla „conservazione dell’antica lingua“ (11695).


Note

24. L’adattabilità della lingua italiana alla filosofia moderna e il ruolo dell’opinione nel giudizio estetico

Dalla carenza di una tradizione filosofica in italiano alle dinamiche soggettive della bellezza: termini dimenticati, assuefazione e grazia come eccezione regolata.


Sommario

Il blocco affronta due nuclei tematici distinti ma connessi da una riflessione sulla lingua e la percezione. Il primo riguarda l’“applicazione della buona lingua italiana” al “genere filosofico moderno e preciso”, evidenziando una presunta lacuna storica: se la lingua si è dimostrata versatile in “tutti gli stili” e “tutti i generi di scrittura”, inclusi “alcuni generi scientifici” grazie a “Galilei” e “Redi” o la “politica” nei “scritti del Machiavelli”, manca un’adeguata traduzione in italiano della “filosofia metafisica”, che “abbraccia la morale, l’ideologia, la psicologia”. La soluzione proposta passa attraverso il recupero dei “termini della filosofia scolastica”, ancora “di universale e precisa e chiara intelligenza” nonostante il disuso, poiché “derivano tutti o quasi tutti dal latino, o dal greco mediante il latino”. Questi termini, “torcendolo un poco senz’alcun danno della chiarezza”, potrebbero colmare il vuoto senza snaturare la “natura” della lingua, “adattata anche a questo” genere. L’argomento si chiude con un riferimento allo “studio del latino-barbaro”, utile per “scoprire” equivalenti precisi ai “termini moderni” che “suonano forestieri e barbari”.

Il secondo nucleo sposta l’attenzione sul “giudizio del bello”, smontandone il carattere assoluto: “non opera tanto l’assuefazione, quanto l’opinione”. La bellezza viene ridefinita come un fenomeno relazionale, dove “una foggia di vestire novissima” può “essere giudicata bella” solo se “sappiamo che quella foggia è d’ultima moda”, mentre “una bellezza mediocre” appare “grande” se “ha gran fama”. L’“opinione” condiziona persino la lettura: “il senso del bello è molto maggiore” in “un poeta già famoso” rispetto a uno “del cui merito abbiamo da giudicare”, anche se quest’ultimo fosse oggettivamente superiore. La “grazia”, a sua volta, nasce dallo “straordinario nel bello”, ovvero da “un piccolo irregolare” che “non distrugge il regolare e il conveniente”, come “il naso della Roxolane di Marmontel”, “irregolare” ma “non sconveniente”. L’“eleganza” nelle scritture segue la stessa logica: “consiste in un piccolo nuovo” che “risalta” senza “disconvenire”, generando “sorpresa” e “piacere”.


Note

Riferimenti cronologici e rimandi interni
Citazioni chiave tradotte o normalizzate

25. La decadenza della proprietà linguistica e la natura dei sinonimi: tra perdita e necessità di rinnovamento

Dall’abbandono della precisione antica alla corruzione moderna: come il tempo e l’uso alterano il significato, impoverendo le lingue figlie rispetto alle madri.

Il blocco testuale analizza la progressiva perdita di proprietà linguistica, attribuendola all’uso indiscriminato dei sinonimi, frutto della negligenza, dell’ignoranza e dell’evoluzione storica. Si evidenzia come le lingue antiche, vicine all’origine delle parole, fossero capaci di esprimere «le menome differenze delle idee» (13178) con una «onnipotenza» (13244) e «aggiustatezza» (13244) irraggiungibile per le moderne, dove «la sinonimia nuoce sommamente» (13232) alla «vera ricchezza» (13237). La lingua latina, modello di «proprietà ammirabile» (13248), si contrappone all’italiano, che, pur attingendo alle sue fonti, «non può significare [...] sensi minutissimi» (13267) a causa della «confusione de’ significati» (13228). Emergono temi minori: la «forza» (13123) come tratto distintivo dello stile antico, la «debolezza della ragione» (13127) come causa di impoverimento, e la «necessità della novità» (13270) come unico rimedio alla decadenza. La riflessione si estende alle lingue romanze, dove «la differenza dei sinonimi latini conservati» (13336) spiega le divergenze tra italiano, spagnolo e francese, quest’ultimo «poverissimo» (13309) per «arte moderna e matematica» (13309), laddove l’italiano, «più latino» (13348), potrebbe ancora «adeguarsi alle antiche» (13271) attraverso un «arricchimento alle fonti latine» (13346). La «perdita dell’indole nazionale» (13425), accelerata dall’influenza francese, aggrava ulteriormente il fenomeno, rendendo «impossibile» (13435) recuperare «il carattere essenziale» (13428) della lingua senza un ritorno ai costumi originari.


26. La contraddizione tra vantaggi individuali e virtù nello stato sociale

Quando la forza corrompe e la debolezza redime: l’ingiustizia naturale della civiltà

Il blocco analizza la paradossale incompatibilità tra i „vantaggi naturali o acquisiti“ (14102) — bellezza, ingegno, ricchezza, potere — e la „bontà de’ costumi“ (14119), dimostrando come la società premi l’abuso dei primi e penalizzi chi ne è privo. „Chi li possiede, non è buono“ (14103): la superiorità individuale genera „insuperbimento“ (14107) e „abuso“ (14111), mentre „il più debole si raccomanda“ (14109) e „più facilmente s’incammina alla virtù“ (14104). La „contraddizione“ (14119) emerge come strutturale: lo „stato sociale“ (14124) esige „virtù e morale“ (14125) per sopravvivere, ma queste „non possono stare“ (14125) con i „beni individuali“ (14125) che pure la società incentiva. La „perfezione“ (14134) dello spirito — razionalità, civiltà — si rivela „noccia“ (14133) al corpo, indebolendolo; viceversa, il „vigore“ (14168) fisico, „salute“ (14397) e „facoltà di vivere“ (14169), è „perfezione essenziale“ (14151) voluta dalla natura, ma erosa dal progresso. Ne consegue che „la civiltà“ (14163) „decresce“ (14163) la salute umana in proporzione al suo avanzare, e che „la morale“ (14534) — „convenienza“ (14535) stabilita da Dio „secondo le circostanze“ (14535) — non è „eterna“ (14534), ma „creata“ (14535) e „mutabile“ (14556). Il „Decalogo“ (14542), unico invariabile, fissa „i primissimi elementi“ (14542) di una legge adattabile a „tutti i possibili stati“ (14544) della società, mentre „l’amor del nemico“ (14552), „nuovo“ (14552) per Gesù, era „sconveniente“ (14561) per Mosè. La „perfezione umana“ (14265), dunque, non è un modello fisso, ma un’„idea relativa“ (14320) dipendente da „assuefazioni“ (14183) e „circostanze“ (14535), dove „tutto è possibile“ (14586) e „nulla è assoluto“ (14343).

La „natura“ (14132) — „armonia“ (14132) senza „contraddizione“ (14132) — è corrotta dalla civiltà, che „indebolisce“ (14137) il corpo e „distrugge“ (14226) „la facoltà del movimento“ (14227), „principal distinzione“ (14226) tra vita e morte. „Il vigore“ (14168), „potenza“ (14168) e „salute“ (14397), è „tutto in natura“ (14169), mentre „la delicatezza“ (14174), „bellezza“ (14175) moderna, è „artificiale“ (14182) e „contraria“ (14188) all’ideale primitivo. „L’uomo naturale“ (14181) „grossolano“ (14178) avrebbe „disprezzato“ (14180) la „delicatezza“ (14174) odierna, come „i selvaggi“ (14162) ignorano „nosologia“ (14162) e godono „robustezza“ (14162). „La civiltà“ (14130) incarna „contraddizioni essenziali“ (14130): „l’infinito sviluppo della ragione“ (14139), „perfezione“ (14141) pretesa, „nuoce“ (14135) al corpo e „arriva a distruggere“ (14139) l’individuo, mentre „la natura“ (14145) „ha sempre mirato al ben essere materiale“ (14145). „Nessuna necessità“ (14277) giustifica questo ordine: „la possibilità“ (14583), „infinita“ (14588), è „l’unica cosa assoluta“ (14369), e „Dio“ (14590) — „onnipotenza“ (14589) che „abbraccia tutti i modi possibili“ (14358) — „non è necessario“ (14333), ma „esiste“ (14345) „perchè ha voluto“ (14531). „La religione“ (14410), „vera“ (14410) „relativamente“ (14350), „non si oppone“ (14410) a questo sistema: „i misteri“ (14414) — „Trinità, Eucaristia“ (14412) — „si oppongono“ (14416) „al nostro modo di concepire“ (14417), ma „non sono falsi“ (14417), poiché „il vero“ (14677) „consiste essenzialmente nel dubbio“ (14677). „L’uomo“ (14324) è „perfetto“ (14324) „qual egli è in natura“ (14324), e „ogni altro stato“ (14324) lo rende „imperfetto“ (14324); „la perfezione“ (14325) „non può mai crescere“ (14325), ma solo „dell’individuo“ (14326), „secondo le assuefazioni“ (14473). „Il genio“ (14603) non è „dono naturale“ (14603), ma „figlio dell’esercizio“ (14605): „tutti son capaci“ (14476) „delle stesse cose“ (14476), e „il più sciocco ingegno“ (14477) può „divenire uno de’ primi matematici“ (14477) „con ostinata fatica“ (14477). „L’esercizio“ (14489) „è superiore alla natura“ (14488), e „la forza“ (14489), „corporale o mentale“ (14493), dipende „dalle circostanze“ (14492). „La sensibilità“ (14606), „entusiasmo“ (14606) e „immaginazione“ (14621) — „facoltà di scoprire rapporti“ (14627) — sono „forza“ (14629) del poeta e del filosofo, ma „consumano“ (14615) l’animo se „la vita esteriore“ (14607) „non corrisponde“ (14608). „L’indifferenza“ (14657), „rassegnazione“ (14658) e „immobilità“ (14659) nascono „dall’estrema infelicità“ (14657), mentre „la speranza“ (14642) — „illusione“ (14645) — „torna“ (14644) „al minimo segno di fortuna“ (14643). „Tutto è assuefazione“ (14654): „i desideri“ (14653) del fanciullo, „le passioni“ (14655) dell’adulto, „la memoria“ (14459), „le lingue“ (14440), „le morali“ (14534). „La natura“ (14385) „varia“ (14385) „secondo le nature“ (14385): „un cavallo“ (14386) „giudicherebbe ingiusto“ (14386) il lupo, ma „non così un leone“ (14387). „Il bene e il male“ (14388) sono „relativi“ (14389), e „Dio“ (14533), „padrone delle convenienze“ (14535), „può mutarle“ (14535) „a tenore delle circostanze“ (14535). „La legge naturale“ (14534) è „sogno“ (14557); „l’uomo isolato“ (14558) „non aveva bisogno di morale“ (14558), e „ogni morale“ (14560) „è perfetta“ (14560) „perchè conveniente“ (14560) al suo tempo. „La civiltà“ (14225) „rende immobile“ (14225) „animo e corpo“ (14225), „distruggendo“ (14226) „la distinzione“ (14226) „fra vita e morte“ (14227). „La ragione“ (14577) „è giusta“ (14577) „solo nel nostro ordine di cose“ (14577), e „fuori di esso“ (14342) „ogni facoltà dell’intelletto si spegne“ (14342). „La religione“ (14410) „restain piedi“ (14410) „non come assoluta“ (14580), ma „relativamente“ (14580) „al modo in cui le cose sono“ (14580). „La possibilità“ (14583) è „l’unica necessità“ (14583), e „Dio“ (14590) — „infinita onnipotenza“ (14589) — „esiste in tutti i modi possibili“ (14358), „perfetto“ (14403) „in ciascuno“ (14405). „La perfezione assoluta“ (14404) „abbraccia anche i contrari“ (14404), e „la contraddizione“ (14119) „è solo apparente“ (14564), „perchè Dio“ (14564) „è al di là“ (14564) „di ogni ordine“ (14553). „La fede“ (14566) „fa guerra alla ragione“ (14566), ma „il mio sistema“ (14565) „appoggia il Cristianesimo“ (14565), „perchè nega ogni verità assoluta“ (14569) e „ammette le relative“ (14569), „dove la religione sta“ (14570). „Il fatto“ (14571) „decide“ (14571), e „la ragione“ (14571) „non può opporsi“ (14571). „L’uomo“ (14675) „si addomestica“ (14673) „alla novità“ (14673) come „alla uniformità“ (14673), e „lo scetticismo“ (14675) „è il vero“ (14676), „perchè il dubbio“ (14677) „contiene la conoscenza“ (14677). „Niente è assoluto“ (14343), „tutto è possibile“ (14586), e „Dio“ (14590) „è l’infinita possibilità“ (14588).


27. L’assuefazione come fondamento del talento, del piacere e della percezione: tra natura, arte e ragione

Dall’illusione dell’innato alla plasticità dell’animo: come letture, circostanze e abitudini ridefiniscono capacità, gusti e persino i limiti tra umano e animale.

Il blocco delinea un sistema in cui **talento, bellezza e conoscenza non sono doti innate o assolute, ma prodotti dell’„assuefazione“ (15409, 15456), intesa come capacità di adattamento mentale e sensoriale. L’autore smonta il mito delle attitudini naturali: „io non mancava [...] di forza d’animo, nè di passione; ma non credetti d’essere eloquente, se non dopo letto Cicerone“ (15410), e „non credetti di esser filosofo se non dopo lette alcune opere di Mad. di Staël“ (15414-15). La tesi si estende a ogni facoltà umana — „il gran poeta, può essere anche gran matematico, e viceversa“ (15420) — purché le „circostanze“ (15418, 15422) ne favoriscano lo sviluppo. L’assuefazione spiega persino la percezione estetica: „l’assuefazione ci fa parer passabile ed anche bello, ciò che da principio ci parve brutto“ (15457), come dimostrano gli esempi di persone „bruttissime“ (15468) giudicate belle per abitudine, o di lingue „strane“ (15499) che diventano „bellissime“ con l’uso.

Il meccanismo vale anche per gli animali — „il mulo difficilissimo ad assuefarsi, è tenacissimo dell’assuefazione“ (15561) — e per fenomeni apparentemente opposti, come il „piacere dell’incertezza“ (15438) o la „dimenticanza“ (15687), entrambi legati a „idee indefinite“ (15426) che stimolano l’immaginazione. La ragione stessa è messa in discussione: „ogni sillogismo [...] ha bisogno di più altri sillogismi“ (15635), rivelando come „la nostra superiorità“ (15553) sui bruti sia solo „un maggior grado di assuefabilità“. Il blocco chiude con applicazioni pratiche — dalla „musica“ (15700), dove „la sveltezza“ dei suoni piace „per lo straordinario“, alla „lingua“ (15504), dove ogni individuo „ha una lingua propria“ — confermando che „tutto il progresso [...] dello spirito umano“ (15598) segue la legge dell’„assuefazione accelerata, come il moto de’ gravi“.


###### Note e riferimenti impliciti


28. Lingua, ragione e infelicità: antichi e moderni tra traduzione, natura e progresso

Dall’irriducibilità dei verbi difettivi alla condanna del suicidio, dall’inadeguatezza del latino alla vitalità del greco, dalle verità scoperte nel furore alle lingue come specchio delle nazioni: un percorso tra filologia, antropologia e filosofia della storia.


Il blocco si apre con una riflessione sulla persistenza degli elementi linguistici antichi nei verbi anomali o difettivi, considerati indizio dell’antico costume (16967) e conservati dal volgare, maggior conservatore delle proprietà originarie di una lingua. L’autore esclude subito le congiugazioni passive – assenti nelle lingue moderne – e confuta l’analogia con il latino (16968-16969), per poi passare a un confronto tra greco e latino come lingue morte: mentre il latino, adoperato fino alla formazione delle moderne europee (16972), risulta inadatto a tradurre opere moderne, il greco avrebbe potuto servire molto più alla vita moderna (16975) se fosse prevalso, grazie alla sua flessibilità e vicinanza allo spirito filosofico. Gli eleganti scrittori latini del 500 (16973) sono condannati a servire ai passati in luogo de’ posteri (16974), mentre il greco avrebbe permesso una felicità duratura anche negli usi pratici.

Il discorso virata verso l’infelicità umana come conseguenza della ragione: gli uomini sensibili, di carattere e d’immaginazione profonda (16978) sono irresistibilmente trascinati verso la infelicità (16978), e persino un giovane in circostanze prospere è destinato a soffrire. Qui emerge un tema minore sulla genialità: in stati di quasi ubbriachezza (16981), l’individuo scopre verità che molti secoli non bastano alla pura e fredda ragione (16981), ma queste intuizioni, annunziate da lui, non sono ascoltate (16981) perché lo spirito umano procede per marcia gradata (16984). Gli antichi, pur penetrando nelle terre della verità (16985), non potevano consolidare le loro scoperte per mancanza di una lingua filosofica, uniforme (16986) e di una disposizione generale (16985) che le rendesse condivisibili.

Il suicidio viene poi analizzato come atto contro natura (16989) ma giustificabile dalla ragione: se l’uomo vive contro natura (16990) seguendo la ragione, perché non può morire contro natura? (16995). La medicina, anch’essa non naturale (17006), è paragonata al suicidio come rimedio conveniente per accidente (17013) a uno stato fisico lontanissimo dal naturale (17008). Solo la religione può condannare il suicidio (17015), poiché la ragione, tendendo essenzialmente a distruggere la specie umana (17018), entra in conflitto con la natura. La presente condizione dell’uomo (17002) è così contraddittoria (17002): o il suicidio è morale nonostante sia contro natura, o la vita stessa, essendo contro natura, è immorale.

Chiude il blocco una serie di osservazioni sparse su grazia e contrasto (17022-17024), sull’arte come imitazione delle sensazioni indefinite (17027) che evocano l’infinito, e sulla lingua francese come lingua della mediocrità (17040), adatta alla società (17045) e al secolo della ragione (17045), ma incapace di grandezza. La Francia, sede della società (17034), è condannata a un‘uniformità“ (17036) che nega l’originalità, mentre l’Italia, con una tradizione letteraria dal 300 (17106), conserva un‘indole antica“ (17109) che resiste alla modernità.


Note

Lingua e traduzione

Infelicità e ragione

Società e nazioni


29. L’originalità linguistica e la libertà espressiva: tra uniformità e corruzione

L’indole delle lingue e la loro capacità di adattarsi o resistere alle trasformazioni storiche e sociali.

Il testo analizza la relazione tra la formazione delle lingue, le circostanze politiche e sociali dei popoli che le parlano, e la loro attitudine a conservare libertà espressiva o a cadere in uniformità e servitù. Si confrontano i casi del latino, del greco, del francese, del tedesco e dell’italiano, evidenziando come la „poса libertà“ e la „somma determinazione“ di una lingua siano legate alla „moltitudine e diversità di gente e nazioni“ che la adottano, oppure alla „stretta influenza“ di una capitale o di una società dominante. La „lingua latina, riconosciuta per buona, legittima, e propria della letteratura, non fu mai altro che la romana, cioè quella di una sola città“, mentre „la Grecia era composta come di moltissimi reggimenti, così di moltissime lingue“, il che „non poteva nuocere alla varietà nè introdurre l’uniformità“. La „lingua tedesca non è ancora abbastanza formata“ e per questo „è suscettibile d’ogni figura, d’ogni impronta“, a differenza del „francese, dove Parigi […] le dà quella uniformità medesima, quella circoscrizione, quella limitazione“. L’„italiano, massime dove non è società, è sempre formata e determinata dalla letteratura“, ma „la letteratura antica per grande ch’ella sia, non basta alla lingua moderna“. Si sottolinea inoltre come „la lingua ebraica, se oggi si continuasse a scrivere, sarebbe nel caso della tedesca“, mentre „il latino ricevè una forma certa e determinata, fuor della quale non v’è latinità“.

Il testo affronta anche il tema della corruzione linguistica, intesa come „cambiamento inevitabile“ quando „le circostanze avendo portato che gli scrittori che succedettero al secolo di Cicerone e di Augusto non fossero gran cosa“, e come „la lingua scritta, e letteratura latina, dipendendo in tutto da quest’uso, doveva per necessità cambiar presto di faccia“. La „lingua francese è schiava, e la più schiava di quante sono o furono“, mentre „la lingua italiana, essendo fra le lingue moderne formate la più antica di fatto e d’indole, la più libera“, conserva una „grande uniformità“ solo apparentemente contraddittoria con la sua „libertà“. Si nota infine che „la lingua greca, simile alla tedesca, lo fu, e lo sarebbe anche oggi se vivesse“, mentre „la lingua e letteratura inglese al tempo di Anna, sebben ella aveva già da molto tempo uno Shakespeare, scrittore veramente nazionale“, mostra come „l’Inghilterra non è nè può essere così strettamente una, come la francese“. Il testo si chiude con una riflessione sulla „contraddizione essenziale“ delle lingue moderne, „fonte inevitabile d’inconvenienti, di corruzione, d’instabilità“, e sulla „facoltà inventiva“ come „una delle ordinarie, e principali, e caratteristiche qualità e parti dell’immaginazione“, capace di generare „i poemi di Omero e di Dante, e i Principii matematici della filosofia naturale di Newton“.


30. Lingua, civiltà e dinamiche del potere: tra conservazione e corruzione

Dall’uso linguistico come specchio dell’antichità alle leggi che regolano l’ascesa e il declino delle nazioni.


Sommario

Il blocco esplora due temi principali, apparentemente distinti ma uniti da una riflessione sulla conservazione e la trasformazione: da un lato, l’analisi delle lingue (latino, italiano, francese, greco) come depositarie di forme antiche o corrotte, dove l’italiano si distingue per la fedeltà a «usi propri del volgo e dell’antichità» (19385) e per fenomeni fonetici come lo scambio di «u in o» (19386) o la persistenza di «sigma» al posto dello «spirito denso» greco (19415-19422). Si sottolinea come il latino abbia spesso «conservato l’antichità più dei greci» (19422), rovesciando l’assunto comune di un prestito unidirezionale dalla Grecia: «quello che crediamo venuto dalla Grecia nel Lazio, o è tutto al rovescio, o vien da origine comune» (19426). L’attenzione si sposta poi sulla struttura drammatica, dove si contrappongono i «sommi» autori — capaci di «tener vivo l’interesse» con «naturalezza dei discorsi» e «sviluppo delle passioni» (19392) — ai «mediocri», costretti a «sopraccaricare d’intreccio» le opere per «tenere viva la curiosità» (19390, 19396). La «mezzana civiltà» (19443) emerge infine come chiave storica: nazioni come Roma o la Francia rivoluzionaria trionfano quando, «ravvicinandosi alla natura» (19451), si pongono tra «popoli non tocchi da incivilimento» e «popoli pienamente inciviliti» (19445), prima di essere a loro volta corrotte dal potere. La metafora agricola chiude il cerchio: «i bisogni che l’uomo si è fabbricati [...] si contraddicono, si nocciono scambievolmente» (19476-19477), mentre la natura «non ha contraddizione» (19478).


Note

Sui riferimenti linguistici

Sulle dinamiche storiche


31. L’evoluzione dei caratteri composti negli alfabeti: origine, uso e differenziazione tra epoche e lingue

Dalla fretta degli scrivani alle regole ortografiche: come i nessi grafici divennero segni distintivi delle lingue antiche e moderne.

Il blocco analizza la genesi e la diffusione dei caratteri composti negli alfabeti, distinguendo due epoche fondamentali: una primordiale, in cui tali segni nascevano dall’imperfezione degli alfabeti e dalla difficoltà di decomporre i suoni in elementi semplici, e una successiva, in cui furono introdotti per comodità pratica, spesso in contrasto con le regole ortografiche già stabilite. L’autore illustra il processo con esempi concreti, come la nascita del psi greco (questo nesso che da principio dovette conservare parte della forma d’ambedue i caratteri) dalla fusione di p e o, o l’adozione del f latino al posto del ph greco (carattere (originariamente nesso) che non si trova nell’alfabeto fenicio). Si evidenzia come questi segni, „figli d’altri caratteri” e non „figli immediati de’ suoni, abbiano contribuito a differenziare gli alfabeti delle varie lingue pur derivando da un’origine comune, spesso per „bisogni particolari della lingua o per „fretta e comodo degli scrivani.

Il testo approfondisce inoltre le conseguenze culturali di tali innovazioni, sottolineando come gli alfabeti orientali e settentrionali abbiano conservato una „prodigiosa moltiplicità di caratteri composti, mentre quelli europei si siano semplificati grazie a una „maggior perfezione delle idee. Si accenna infine al ruolo della grammatica e delle regole ortografiche nel fissare o respingere questi segni: „venute poi queste [regole], [...] trovato questo nesso già padrone dell’uso comune, [...] lo considerarono come [carattere] proprio, mentre in epoche successive „non davano più luogo nemmeno ai nessi più universalmente adottati. Il tema minore della differenziazione linguistica emerge come effetto collaterale di questo processo, con riferimenti a „alfabeti che si moltiplicarono e diversificarono dall’originale.


32. La scala della perfezione e l’imperfezione umana: tra natura, conformabilità e infelicità

L’uomo come paradosso: perfetto per natura, imperfetto per disposizione.

Il blocco analizza la posizione dell’uomo nella gerarchia degli esseri viventi, definendolo „il più organizzato, sensibile, e conformabile degli esseri terrestri“ (24103) ma anche „il più imperfetto degli esseri terrestri“ (24113) per la sua „somma conformabilità e organizzazione“ (24111), che lo rende „il più mutabile e quindi il più corruttibile“ (24111). La scala della perfezione viene ripiegata su sé stessa: l’uomo, posto all’estremità inferiore, non soffre per una „comparativa imperfezione“ come gli altri esseri, ma per una „grandissima“ infelicità (24105) derivante dalla sua capacità di allontanarsi dallo „stato naturale“ (24109) e dalla „propria perfezione“ (24111). La natura non lo ha reso infelice „per se medesima“ (24108), ma la sua „suprema conformabilità“ lo espone a una „infelicità potenziale“ (24111), paragonabile a „macchine perfettissime“ che, „per la somma delicatezza, più facilmente si guastano“ (24115). Mentre „la natura non ha violato le sue leggi“ (24110), l’uomo, „più d’ogni altro essere“ (24111), ne diventa vittima per la „facilità a perdere il primitivo stato“ (24111), senza possibilità di ritorno: „non si trova mano che ci riponga nel primo stato“ (24116).

Il testo oppone la „felicità naturale“ degli altri esseri, che „si conservano nel loro stato“ (24109), alla condizione umana, dove „difficilmente l’uomo si salva in fatti dalla infelicità“ (24112). La „perfezione naturale“ (24114) diventa così il presupposto della sua „imperfezione acquisita“ (24113), in un circolo vizioso senza rimedio: „né la natura ci ripiglia in mano per riformarci“ (24117). Emergono temi minori come il confronto con „macchine delicate“ (24115) e l’irreversibilità della corruzione, che „non ammette artefici“ (24116) in grado di restaurare l’equilibrio originario.


33. Origini, derivazioni e persistenze linguistiche: tra latino volgare, forme antiche e lingue moderne

Il linguaggio come specchio di stratificazioni storiche: dal recupero di participi perduti alla vitalità delle radici greche, tra regole grammaticali e anomalie lessicali.


Il blocco esamina la persistenza di forme linguistiche antiche — spesso ignorate o considerate irregolari — che sopravvivono nelle lingue romanze o nel latino tardo, rivelando una continuità nascosta tra usi popolari e tradizioni scritte. Al centro vi è l’analisi di participi latini contratti o sostituiti (come «vistus» per «visus», «pistus» per «pinsitus»), che compaiono in italiano e spagnolo in luogo delle forme classiche, suggerendo una trasmissione orale o volgare parallela a quella letteraria. Si evidenzia come «il volgare latino, conservatore dell’antichità più che il latino scritto», mantenga traccia di «un latinissimo vistus anteriore a visus e più regolare» (25190), mentre le lingue moderne — pur seguendo regole proprie — ereditano «irregolarità» che in realtà rispecchiano «l’antico e più regolare» (25194).

Un tema minore riguarda la flessibilità del greco, lingua che «non ha bisogno che di poche radici» (25099) per generare infinite derivazioni grazie a «voce media», «vocipassive» (25100) e distinzioni semanticamente precise tra attivo, medio e passivo, evitando «l’oscurità e ambiguità» (25103) tipica di altre lingue. Si confronta questo sistema con il «passivo latino difettivo» (25105), meno ricco e dipendente dall’ausiliare «sum».

Altro nucleo è la riflessione sulla scrittura e la pronuncia: si nota come «la vera pronunzia e armonia del latino sia perduta» (25125), ma ciò non impedisce ai moderni di imitarne «le pure costruzioni» (25127) trascurando l’aspetto fonetico, mentre il greco — «ancor vivo» (25128) — non poteva ignorare «il suono quotidiano» (25129) della lingua materna. Si critica inoltre l’«ortografia pedantesca» (25377) del francese, che «servilmente copia» (25378) grafie latine o greche senza adattarle alla pronuncia nazionale.

Infine, si accenna alla natura artificiale di alcuni desideri umani, come «la fama superstite alla morte» (25152), frutto di «circostanze» storiche e non di «un desiderio naturale» (25151), e al paradosso del coraggio, che «è tanto minore quanto minori beni si avventurano» (25169), legato alla «miseria della vita» (25171) che rende «più gelosi di essa» (25172). Questi temi, pur marginali, si collegano alla tesi centrale sulla persistenza delle forme: come le lingue conservano tracce di un passato remoto, così «gli antichi vivendo non temevano il morire, e i moderni non vivendo, lo temono» (25173).


34. L’Iliade e la duplicazione dell’interesse: virtù felice e virtù sventurata come fondamento del poema epico

L’arte segreta di Omero e la decadenza dei poemi successivi.

Il blocco analizza la struttura dell’Iliade come modello insuperato di poema epico, fondato sulla duplicazione dell’interesse: l’ammirazione per la virtù felice (Achille e i Greci) e la compassione per la virtù sventurata (Ettore e i Troiani). Omero, seguendo la natura umana e non regole astratte, crea un contrasto perpetuo tra questi due poli, moltiplicando l’effetto poetico. I poeti successivi, invece, hanno abbandonato questa duplicazione in nome di un’unità artificiale, impoverendo l’epopea. Il testo dimostra come la compassione — apparentemente opposta all’egoismo — ne sia in realtà la forma più raffinata, e come Omero abbia saputo sfruttare questa dinamica psicologica per coinvolgere il lettore in una tempesta di passioni che persiste anche dopo la lettura.


Sommario

Il blocco si apre con una critica radicale alle regole poetiche derivate dall’Iliade*** ma fraintese: i poeti successivi, credendo di perfezionare Omero, ne hanno in realtà snaturato l’essenza. L’Iliade* si fonda su un **doppio interesse, quello per la virtù trionfante (Achille, i Greci) e quello per la virtù sventurata (Ettore, i Troiani), che si equilibrano e si potenziano vicendevolmente. Omero, «seguendo la natura, molto miglior maestra delle Poetiche», evita sia l’unità monotona della fortuna sia la mera celebrazione del vincitore, introducendo invece un contrasto dinamico che «moltiplica le forze» del poema. La compassione, spesso considerata opposta all’egoismo, è qui svelata come «un piacere» che l’uomo prova «persuadendosi di morire, o d’interrompere le sue funzioni, applicando l’interesse dell’individuo ad altrui»: un «atto d’orgoglio» che «aggrandisce a’ suoi propri occhi» chi compatisce. Questo meccanismo, «più conforme alla natura umana» di quanto non siano le astrazioni dei poeti moderni, permette a Omero di «fare che i greci si contentassero di stimare il nemico» e di «provare il piacere, a quei tempi ignoto, di vantarsi di una vittoria riportata sopra un nemico nobile e valoroso».

I poemi successivi (Eneide, Gerusalemme, Lusiade) abbandonano questa duplicazione per aderire a un’unità rigida, perdendo così «quel divino effetto» dell’Iliade: la capacità di «destare nell’animo de’ lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgoglimento di passioni». Mentre Omero costringe i Greci a «piangere sulla morte di Ettore», i suoi epigoni evitano di far «cadere la compassione sulla parte nemica», limitandosi a «rappresentare virtuosi in molte parti» i vinti senza mai renderli «interessanti sino al fine». Il risultato è un interesse effimero e parziale: l’Eneide vive solo del «fuoco» prestatole dall’Iliade; la Gerusalemme, pur nata in un’epoca di fervore religioso, perde ogni attualità con il mutare dei costumi; i poemi moderni, privi di «interesse pubblico» (scomparso «oggi, come a’ tempi di Virgilio») e di «nazionalità» (dove «non esista quasi nazionalità nelle nazioni)), non possono che «interessare per le sventure», unico sentimento universale in un’«epoca in cui la infelicità individuale è il carattere o il segno del secolo».

La conclusione è netta: «tutti i poemi epici cedono di gran lunga all’Iliade» proprio perché «peccano per quella maggior perfezione di disegno» che li allontana dalla «natura dell’uomo e della poesia». Omero, «non conoscendo l’arte» e seguendo solo «la natura e se stesso», ha creato un modello «più vero, più conforme, più perfetto» di quanto abbiano saputo fare i suoi successori, «ridotta che fu ad arte la facoltà» poetica. La compassione per il nemico, «sommamente poetica», e il «perpetuo contrasto di passioni» che ne deriva sono l’eredità perduta dell’epopea: «un effetto che Omero concepì, disegnò e produsse in tempi feroci, e non saputo concepire né produrre da verun altro epico in tempi civili».


Note

Sulla natura della compassione

La compassione è descritta come «un piacere» che nasce dall’«egoismo raffinato»: l’uomo, «persuadendosi di non essere egoista», «si compiace di se stesso» e «s’insuperbisce» nel credere di «vincere la propria natura». Questo meccanismo, «proprio degli animi colti e sensibili», era «improprio dei tempi d’Omero», dove «poco valeva il cuore, moltissimo l’immaginazione». Nei tempi moderni, invece, «l’immaginazione è agghiacciata» e «il cuore sottentra», rendendo la compassione l’unico sentimento ancora capace di muovere profondamente.

Sull’unità e la duplicazione dell’interesse

L’«unità» dei poemi successivi è definita «metafisica» e «artificiale»: essa esclude la «duplicazione omerica», che invece «raddoppia e moltiplica l’effetto» del poema. Mentre Omero «fece e volle fare in Ettore un eroe sommamente amabile», i suoi successori «evitarono espressamente di fare in modo che la parte nemica riuscisse troppo virtuosa», limitandosi a «rappresentare i nemici lodevoli, ma non interessanti». Questo spiega perché «nell’Iliade oggidì l’interesse è per Ettore e per li troiani», mentre «nell’Eneide manca l’interesse della compassione come finale».

Sulla fortuna e la virtù

Nei «tempi antichissimi», «la virtù consisteva nella forza e nel coraggio», qualità «spesso seguite dalla fortuna». Nei «tempi moderni», invece, «la virtù è pregiudizievole alla fortuna», e «un virtuoso fortunato eccede quasi la credibilità». Questo spiega perché «un Eroe felice non può interessare se non in un soggetto nazionale», mentre «la sventura, e più la virtù sventurata, può esser universale e perpetua».

Sul rapporto tra poesia e natura umana

La poesia deve «muovere e agitare», non «lasciare l’animo in riposo». L’Iliade riesce in questo perché «non teme di far piangere i Greci sui Troiani», mentre i poemi successivi, «temerosi di raddoppiare l’interesse», «evitano il contrasto» e «perdono la tempesta delle passioni». La «vera forma umana» — fisica e morale — è «diversissima in nazioni, secoli, classi»: così, «come non v’è bellezza ideale universale», non v’è «unità poetica immutabile». Omero, «inventore» di un effetto «contrario ai suoi tempi», dimostra che «la poesia deve seguire la natura, non le regole».


35. Linguaggio, etimologia e natura umana: tra disposizioni, assuefazioni e pregiudizi culturali

L’infelicità come marchio sociale e la deriva semantica dei termini; l’analisi filologica dei verbi latini e greci come specchio di una teoria linguistica organica; la distinzione tra disposizioni naturali ad essere e a poter essere come chiave per comprendere la conformabilità umana e animale. Un blocco che intreccia osservazioni lessicali, antropologiche e metafisiche, dove la lingua diventa strumento per decifrare tanto le origini delle parole («medeor non è altro se non il verbo mḗdomai») quanto i meccanismi della percezione («l’assuefazione è seconda natura»).


Il testo si apre con riflessioni sulla valenza sociale dell’infelicità (27176–27178), presentata come «obbrobrio» e «ignominia» nelle società primitive, dove «l’esser tenuto per infelice è come aver mala fama». Il tema si lega a una critica implicita ai pregiudizi culturali, che associano miseria e malvagità («quasi fosse impossibile che il misero non fosse malvagio»), anticipando la sezione finale (27390–27393) dove si analizza la deriva semantica di termini come pēnērós (misero) e ponērós (malvagio), un tempo sinonimi.

Il nucleo centrale è l’analisi etimologica e morfologica (27189–27244), dominata dalla tesi che «medeor» (latino) derivi da «mḗdomai» (greco, "curare"), e non da «médv» ("imperio"), etimologia «misera e forzatissima». La dimostrazione si articola su piani multipli:

La sezione linguistico-antropologica (27294–27327) esplora la diffusione del latino in Europa, attribuendone il successo non alla conquista militare, ma alla «civiltà dei costumi latini e alle lettere» (27319–27321). La Germania, «sempre barbara» (27301), resiste all’assimilazione per «naturale ferocia» e prossimità a popoli ribelli, mentre Spagna e Gallie, «già civili» (27298), adottano il latino come lingua colta. L’Inghilterra, dove il latino «era già corrotto», vede invece il trionfo del sassone (27310–27311), dimostrando che «la lingua latina trionfava [...] come lingua colta e formata» (27315).

Il saggio sulla natura umana (27343–27387) distingue tra disposizioni naturali:

Temi minori affiorano in chiusura:


##### Note

Frasi citate e tradotte

36. L’effetto catartico del dramma e la natura della tragedia

Il poeta esaurisce da solo le passioni che l’uditore avrebbe potuto provare: «l’ira l’odio che l’uditore avrebbe portato seco, il poeta l’ha soddisfatto» (27862). La tragedia, così, non lascia spazio a sentimenti residui, ma li consuma interamente, privando lo spettatore di «odio nè ira nè altra passione alcuna contro i malvagi, il vizio, il delitto» (27865). Questo meccanismo, valido tanto per i malvagi quanto per i buoni, si rivela in un esempio concreto: la rappresentazione dell’Agamennone di Alfieri, dove il pubblico, pur spinto all’odio contro Egisto, esce dal teatro «fremendo perchè il delitto fosse rimaso ancora impunito» (27871), desiderando la vendetta nell’Oreste. La tragedia di «tristo fine» (27870) suscita passioni più vive di quella a lieto fine, dimostrando come «le vere tragedie» (27870) abbiano «maggior forza negli animi» (27874).

Il sommario evidenzia la funzione catartica del dramma, che non si limita a rappresentare le passioni, ma le consuma, lasciando lo spettatore privo di emozioni residue. L’esempio dell’Agamennone e dell’Oreste mostra come la tragedia, soprattutto se a «tristo fine», sia più efficace nel suscitare reazioni intense. Il testo suggerisce inoltre che questo effetto non sia circoscritto ai malvagi, ma si estenda anche ai buoni, e che la tragedia antica, con i suoi «soggetti per lo più lontani di tempo, o di luogo, di costumi» (28033), miri a «destare vivissime immagini» (28036) piuttosto che a coinvolgere emotivamente lo spettatore in modo diretto. La «sensazione delle più vive, delle più poetiche» (28025) è il fine ultimo, raggiunto attraverso «sventure e casi orribili e singolari, delitti atroci, caratteri unici, passioni contro natura» (28027), che lo spettatore contempla «senza pericolo di nocumento» (28038).


37. Osservazioni sulla formazione dei verbi latini e la loro evoluzione: analisi di casi specifici e teorie etimologiche

Dall’ortografia cinquecentesca ai verbi in *-sco: errori, prestiti e regole nascoste.

Il blocco di testo si concentra su una serie di riflessioni linguistiche, con particolare attenzione alla morfologia verbale latina e alle sue irregolarità. Vengono esaminati casi di ortografia storica, come l’uso di «sanctissimo» per «santissimo» (29463), attribuito a un’eccessiva latinizzazione, e fenomeni di prestito lessicale tra verbi in -sco e le loro forme originali. Si ipotizza, ad esempio, che «nosco» derivi da un verbo perduto «noo» (29535-29536), con «novi» e «notum» come perfetto e supino irregolari, e che «adolesco» attinga il suo perfetto «adolui» da «adoleo» (29703-29704), verbo oggi in disuso. Le osservazioni si estendono ai participi in -tus (29916-29920), ai diminutivi positivati come «sella» (29514-29523), e a fenomeni di contrazione fonetica, come «doctum» per «docitum» (29696-29697).

Un tema minore riguarda la percezione della noia come «desiderio della felicità lasciato puro» (29861), mentre si accenna anche alla ricchezza lessicale degli antichi scrittori italiani, capaci di «arricchire la lingua derivando vocaboli dal latino, dal greco, dallo spagnuolo» (30086) senza cadere in latinismi forzati. Le note etimologiche si intrecciano con considerazioni sulla pronuncia («l’uso latino di mutare il primo n in g» in «agnatus», 30207) e sulla persistenza di forme arcaiche, come «futum» supino di «fuo» (30099), dimostrato da «futurus».


##### Note e riferimenti minori

Frasi citate e tradotte

38. Relatività del giudizio e arbitrio linguistico: tra natura, uso e convenzioni

Dall’illusione dei sensi alle regole delle parole: come l’uomo misura, adatta e tradisce.

Il blocco esamina la relatività dei criteri umani nel giudicare perfezione, gusto o correttezza, sia in ambito naturale che linguistico. Si parte dall’osservazione che «la sorba, la nespola [...] è perfetta quando è corrotta», dove la «perfezione [...] è al tutto relativa» e dipende «dal solo uso del nostro palato» (30281-30283), mentre «per se stessa [...] non [è] meno corrotta» (30284-30285). L’analisi si estende all’«inganno» come principio vitale — «E da l’inganno suo vita riceve» (30287) — applicabile a «ogni genere di viventi», dove le «illusioni» suppliscono alla «felicità reale». Il discorso poi si sposta sulle convenzioni linguistiche: l’uso di «forte» per «molto» (30289), le varianti ortografiche come «dompter» vs «domter» (30304-30305), o «comte» vs «compte» (30306-30308), dove si nota come «il p vi è naturale e non ascitizio» (30307). Emergono domande sulla provenienza e autorità delle forme: «da chi, se da italiani o stranieri» (30322), «a che tempo» (30321), e se «di buona pronunzia o cattiva» (30322). Infine, si tocca la «necessità di nuove o forestiere voci» (30335) per discipline importate, sottolineando «l’impossibilità e danno» di sostituire termini consolidati (30336), anche quando la lingua ne possieda di equivalenti.

Il tema minore delle derivazioni etimologiche (30326-30333) — ad esempio «scitum» da «scio» e non «scisco» (30329-30330) — e delle varianti dialettali (30318-30321) si intreccia con la riflessione sulla casualità vs sistematicità delle forme: «converrà supporre un’assoluta casualità» (30316) là dove manchi una spiegazione razionale. Le annotazioni cronologiche (tutte datate «23. Ott. 1823») suggellano un metodo che accumula esempi disparati — dal «Cod. de republ.» (30320) al «Forcellini» (30301) — per dimostrare come uso, abitudine e autorità sovrastino spesso la «natura» delle cose o delle parole.


39. L’odio naturale e la contraddizione della società stretta: analisi dell’antisocialità umana

L’umana insocievolezza come legge di natura e la società come sua negazione.

Il blocco esamina la tesi secondo cui l’uomo, lungi dall’essere un animale sociale per natura, è invece il più antisociale tra i viventi, con una propensione innata all’odio verso i propri simili che la società stretta non solo non mitiga, ma esacerba fino a renderla autodistruttiva. L’analisi si articola attorno a tre nuclei: l’odio come conseguenza inevitabile dell’amor proprio (l’odio verso altrui [...] nasce necessariamente dall’amor proprio, 30481), la società stretta come moltiplicatore di conflitti (una società stretta pone necessariamente in contrasto gl’interessi degl’individui, 30486), e la guerra come fenomeno intrinseco alle aggregazioni umane (la guerra nasca inevitabilmente da una società stretta qual ch’ella sia, 30509). La contraddizione fondamentale sta nel fatto che la società stretta importa communione d’individui sommamente nocentisi scambievolmente (30501), rendendo impossibile una società perfetta (30438) in cui il bene comune prevalga sul male reciproco.

Il testo confronta sistematicamente il comportamento umano con quello degli altri animali, evidenziando come nelle specie non umane la società naturale (es. api, castori) sia priva di conflitti strutturali (i loro individui cospirano tutti e sempre al ben pubblico, 30424), mentre nell’uomo l’odio verso i suoi simili [...] in atto sia molto maggiore verso i suoi simili, anzi quasi tutti i suoi atti [...] sieno rivolti contro i soli suoi simili (30498). La società umana, stretta e artificiale, inverte la gerarchia naturale dell’odio: da principio [l’uomo] odiava assai più [...] gli altri viventi [...] ora in atto odia senza alcun paragone più i suoi simili (30494). Questo capovolgimento è attribuito alla disuguaglianza di mille generi (30445) generata dalla società, che trasforma l’odio naturale (30473) — altrimenti latente o diretto verso specie diverse — in un odio in atto (30491) distruttivo e sistematico. La guerra, le crudeltà rituali (es. antropofagia, vittime umane immolate non per odio, ma per timore, 30553), e lo spirito di vendetta (30532) sono presentati come prove empiriche di questa tesi, mentre la barbarie (30559) delle società primitive è letta non come uno stadio pre-sociale, ma come effetto diretto della società stretta (30580), contraria affatto alla natura (30564).

La conclusione logica è che il dir società stretta, massime umana, è contraddizione (30499), poiché nega il principio stesso di bene comune (30488) su cui si fonda l’idea di società. L’uomo, il più antisociale di tutti i viventi (30410), sarebbe invece destinato a una società scarsa e larga (30465), in cui il contatto minimo tra individui limiterebbe l’odio a qualche assoluto accidente (30485). La civiltà, lungi dall’essere un progresso, è descritta come un ravvicinamento alla natura (30586) dopo la corruzione (30584) indotta dalla società, senza però poter recuperare lo stato primitivo, mai più ricuperabile (30589). Il paradosso finale sta nel fatto che la natura non ha posto nel vivente l’odio verso gli altri (30481), ma questo emerge come conseguenza necessaria (30483) dell’amor proprio, che la società — invece di contenere — amplifica fino a renderlo il contrario di società (30502).


Note e riferimenti minori

Il blocco include riferimenti a fonti storiche (es. Chronica del Peru di Pedro de Cieça de Leon, 30537-30540) e filosofiche (es. Milton, 30609; Aristotele, 30361) per avvalorare l’argomentazione empirica. Le citazioni in latino (Amongst unequals no society, 30609) e greco (dÝv, 30754) sono tradotte e integrate nel ragionamento. Le annotazioni lessicali (es. 30634-30744) e le datazioni (ottobre-novembre 1823) suggeriscono una stesura frammentaria, ma il nucleo teorico rimane coerente. Il tema minore della lingua come specchio di corruzione sociale (30772-30791) funge da controcanto, sottolineando come anche il linguaggio rifletta la seconda natura (30605) imposta dalla società.


40. La decadenza delle lingue e letterature moderne in Italia e Spagna: cause politiche e riflessioni linguistiche

Un confronto tra le sorti parallele di due nazioni e la perdita della loro identità culturale.

Il blocco di testo si concentra sulla decadenza delle lingue e letterature moderne in Italia e Spagna a partire dal XVII secolo, attribuendone la causa principale alla perdita di autonomia politica e militare. Le frasi selezionate delineano un parallelo tra le due nazioni, sottolineando come la mancanza di una lingua e letteratura moderna propria derivi dalla loro nullità politica: «Come noi (al paro di tutti gli altri stranieri) non dubitiamo che la Spagna non abbia nè lingua nè letteratura moderna propria, e dal 600. in poi non l’abbia mai avuta, così non dobbiamo dubitare che non sia altrettanto in Italia» (30915-30916). La riflessione si estende alla perdita di termini politici e militari, un tempo abbondanti, ora sostituiti da prestiti linguistici stranieri, segnale di una dipendenza culturale: «Mancati gli affari politici e la milizia in Italia, la nostra nazione non ha nè può avere, nè ebbe dal 600 in poi, lingua moderna propria per significar le cose politiche e militari» (31212).

Il testo evidenzia come la decadenza linguistica sia specchio di una più ampia crisi nazionale, dove l’assenza di una vita pubblica attiva ha portato all’atrofia della lingua e della letteratura. Si nota inoltre un confronto con altre nazioni europee, come la Francia, dove la vitalità politica si riflette in una lingua dinamica, mentre in Italia e Spagna «tutto quello ch’e’ possono fare si è di ricevere in elemosina un poco di novità [...] dagli stranieri» (31236). Le frasi includono anche riflessioni grammaticali e filologiche, come l’analisi dei verbi latini in -sco e la formazione dei supini, ma il nucleo tematico resta la correlazione tra declino politico e impoverimento culturale, con un tono che oscilla tra l’analisi storica e la denuncia. «L’Italia e la Spagna dal 600 ne mancano [di milizia], e questa politica condizione [...] ha prodotto e produce i soliti e immancabili effetti: morte e privazione di letteratura, d’industria, di società» (31222-31224).


41. La natura, la civiltà e la condizione umana: contraddizioni tra esistenza e vita interiore

L’equilibrio precario tra materia e spirito, l’infelicità del civile e la felicità dell’ignorante, il primato dell’azione sulla contemplazione.


Il blocco esamina la dicotomia tra “esistenza” — intesa come dimensione materiale, esterna, propria della natura — e “vita” — come sfera interiore, spirituale, amplificata dalla civiltà. Si afferma che «la natura non è vita, ma esistenza, e a questa tende, non a quella» (32099), mentre «la civiltà aumenta a dismisura nell’uomo la somma della vita (s’intende l’interna) scemando a proporzione l’esistenza» (32098). Ne deriva un paradosso: l’uomo civilizzato, pur dotato di maggiore vivacità intellettuale, è «meno infelice del selvaggio» solo in apparenza, poiché la sua infelicità è proporzionale alla consapevolezza; al contrario, «il villano, l’ignorante, l’irriflessivo [...] è [...] inerte di mente, d’immaginazione di cuore» (32097) e per questo «meno infelice senza paragone alcuno» (32096).

La natura, dominata dalla materia, predilige «la vita attiva [...] più materiale, abbondante più di esistenza che di vita propria» (32102), mentre la civiltà — e con essa la contemplazione — rappresenta una deviazione innaturale, fonte di sofferenza. Si delinea così una gerarchia: «la vita ricca di sensazioni [...] è naturalmente [...] più felice che la contemplativa» (32102), poiché «la natura avea destinato sì l’uomo, sì gli animali [...] all’azione esterna e materiale» (32114). Il tema si estende a riflessioni minori sulla decadenza fisica e mentale (vecchiaia, 32118; 32197-32200) e sulla correlazione tra forza corporea e ingegno (32206-32210), dove «i gran talenti di rado si trovano in corpi forti» (32206) e «difficilmente si troverà gran furberia in uomo pingue» (32208).


Note

42. Diminutivi positivati e alterazioni morfologiche nelle lingue classiche e moderne: forme, usi e implicazioni lessicali

Dall’analisi di casi latini, greci, italiani, spagnoli e francesi: tra aggettivazione, frequentativi e slittamenti semantici


Sommario

Il blocco esamina il fenomeno dei diminutivi positivati — forme diminutive che perdono la connotazione riduttiva o affettiva per assumere un valore neutro o positivo — attraverso esempi tratti dal latino, greco, italiano, spagnolo e francese. Si evidenzia come termini come „mamma“ e „mammilla“ (33251), „bietola“ (33378) da „beta“, „fragola“ (33321) da „fraga“, o „seggiola“ (33255) da „sedia“ funzionino come sostituti lessicali autonomi, spesso soppiantando il termine base („il diminutivo [...] non potrebbe ragionevolmente aver luogo se non fosse positivato, o non avesse un senso disgiunto da diminuzione“).

Si segnalano meccanismi ricorrenti:

Temi minori correlati:

Il blocco non si limita alla morfologia, ma tocca implicazioni storiche e culturali: la positivazione dei diminutivi è legata a cambiamenti d’uso (es. „figliuolo“ per „figlio“, 33685), mentre la frequentazione di forme iterativo-diminutive (es. „feuilleton“, 33739) risponde a esigenze espressive di precisione o enfasi. La comparazione tra lingue (33244, 33383) rivela come tali processi siano trasversali, pur con specificità cronologiche (es. „propria [...] dell’antico, buono, poetico, elegante“ italiano, 33411).


43. Il clima, la conversazione e l’amor proprio: appunti sulla mediazione culturale e i paradossi del carattere umano

Tra geografia e psicologia: come il clima plasma le nazioni e l’eccesso di sé paralizza l’animo.

Il blocco raccoglie osservazioni sparse su tre temi interconnessi: l’influenza del clima sui costumi nazionali — con la Francia come modello di equilibrio tra Nord e Sud, dove «il clima [...] rende aggradevole il soggiornare al coperto» e favorisce «la vita e carattere e costumi e opinioni» fondati sulla conversazione —; l’analisi linguistica di espressioni greche, latine e romanze (dai «diminutivi positivati» come fiorito per fiorente ai «grecismi dell’italiano» come «in quanto che»), spesso richiamate per tracciare paralleli tra lingue e epoche; infine, una riflessione sul paradosso dell’amor proprio, dove «i timidi per eccesso di amor proprio [...] temendo sempre di sfigurare», si chiudono in una prudenza che li allontana dal mondo, mentre «i franchi e gli sprezzanti [...] per роса cura e poco concetto di se» agiscono con disincanto, quasi indifferenti al giudizio altrui. Emergono così due filoni minori: la circolarità delle influenze culturali (la Francia come ponte tra Italia/Spagna e Inghilterra/Germania, ma anche le somiglianze «tra greco e latino e tra latino e italiano» negli scrittori attenti al «numero del periodo») e la metafora corporea (dall«occhiolino» derisorio di Luciano al «riso che si esprime cogli occhi»), usata per spiegare tanto i meccanismi linguistici quanto quelli psicologici.

Le citazioni classiche (Luciano, Platone) e i riferimenti lessicografici (Forcellini, Scapula) servono a legittimare un metodo comparativo che unisce filologia e antropologia, mentre le annotazioni sulla «sinizesi» o sui «verbi frequentativi» rivelano un interesse per le trasformazioni della lingua come specchio di abitudini mentali. Il nucleo più originale resta però la teoria dell’amor proprio, dove la timidezza non è debolezza ma «eccesso della vita e forza dell’animo», e la spavalderia nasce da «роса cura di se» — un rovesciamento che anticipa, in nuce, le dinamiche del «commercio umano» come campo di battaglia tra immagine di sé e realtà.


44. Diminutivi positivati e forme lessicali derivate: tra latinismi, grecismi e volgarizzamenti

Esempi di trasformazione lessicale attraverso diminutivi assunti come forme positive, con riferimenti a latinismi, grecismi e adattamenti volgarizzati.


Sommario

Il blocco documenta un fenomeno linguistico ricorrente: la positivizzazione dei diminutivi, ovvero l’uso di forme diminutive (latine, greche, romanze) come termini autonomi e non riduttivi, spesso con slittamento semantico o neutralizzazione della connotazione diminutiva originaria. Il nucleo principale ruota attorno a esempi tratti dal lessico zoologico, botanico e d’uso comune, con frequenti rimandi a fonti classiche (Luciano, Forcellini, Scapula) e moderne (Crusca, dizionari spagnoli e francesi). Le occorrenze mostrano come termini come „ouaille“ („pecora“, da ovicula), „vitulus“ („vitello“), „avis“ („uccello“, da „augello“/„oiseau“) o „piscis“ („poisson“) siano derivati da forme diminutive latinizzate o volgarizzate, ora percepite come standard.

Si segnalano inoltre:

Le annotazioni cronologiche (luglio 1824 – marzo 1825) suggeriscono una raccolta sistematica, forse finalizzata a un trattato di lessicologia comparata. Emergono inoltre temi minori:

Le citazioni chiave includono:


Note

Riferimenti lessicografici
Fonti classiche
Datazione

Le annotazioni coprono un arco temporale dal 22 luglio 1824 al 23 marzo 1825, con riferimenti a feste religiose e ricorrenze locali (es. „Vigilia di S. Giacomo Apostolo“, 35778).


45. Note filologiche e riflessioni linguistiche: tra greci, latini e volgarizzamenti (Bologna, novembre-dicembre 1825)

Osservazioni su usi lessicali, costrutti sintattici e fenomeni linguistici tra antichi e moderni, con riferimenti a fonti classiche e riflessioni sulla natura della parola scritta e parlata.

Il blocco raccoglie annotazioni eterogenee ma coerenti nell’intento di indagare meccanismi linguistici, storpiature lessicali e parallelismi tra lingue antiche e volgari. Emergono temi minori come la soppressione delle vocali nella scrittura etrusca, citata dal Ciampi: «una delle maggiori difficoltà [...] consiste nella soppressione delle vocali e nel non essersi scoperta sin ad ora la regola costante per poterle supplire» (37132), problema esteso alle «scritture più antiche e più rozze» (37140). Si alternano glosse (es. «bozzo volg.» per «bozzolo», 37129-37130) a confronti testuali (es. Archiloco in Stobeo, con traduzioni come «“non statim”, come rende il Gesnero», 37123), e osservazioni grammaticali su costrutti greci («¤n toætÄ» per «in questo», 37143) o latini («genitivo per l’accusativo», 37303).

La sezione include riflessioni sulla filosofia pratica («siccome la natura trionfa sempre, accade generalmente che i più filosofi per teoria, sono in pratica i meno filosofi», 37414) e metafore sulla condizione umana («il viaggio di un zoppo [...] con un gravissimo carico [...] per arrivare a un cotal precipizio», 37478). Si notano paralleli lessicali tra lingue romanze («diminutivi positivati» come «chiovo-chiovello», 37603) e citazioni di autori (Demetrio Falereo, Teone Sofista, Erodoto) per illustrare usi retorici o fenomeni di trasferimento semantico («pñliw» per «città» o «regione», 37334-37336).

Le annotazioni, datate e localizzate (Bologna, novembre 1825 – febbraio 1826), oscillano tra erudizione filologica e speculazione antropologica, con frequenti rimandi a dizionari (Crusca, Forcellini) e edizioni critiche (Gesner, Liebel). La dimensione comparativa domina: «tempi simili, costumi simili, e lingua e parole sempre analoghe ai costumi» (37364).


46. Sull’illusione del piacere e la fugacità dell’esistenza: riflessioni tra noia, speranza e caducità

Il piacere non si trova dove lo si cerca, ma solo dove non lo si attende: «il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo». La giovinezza, che insegue con ardore il godimento, ne sperimenta invece «spaventevole e tormentoso disgusto e noia», mentre la maturità, disillusa, «comincia a provar qualche piacere nel mondo» solo quando «ridotto l’uomo a curarsi poco e a disperare omai del piacere». La lettura stessa, se affrontata «non con altro fine che il diletto», diventa «noiosa, anzi fastidiosa» fin dalle prime pagine, mentre «un matematico trova diletto grande a leggere una dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi».

Questa dinamica si estende a ogni occupazione umana: «in qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai», e persino «gli spettacoli e i divertimenti pubblici», privi di altro scopo che il godimento immediato, si rivelano «le più terribilmente noiose cose del mondo». La vita, così, si svela come un susseguirsi di «dolore e noia», tanto che «nessuno» accetterebbe di «tornare a rifare la vita passata, con patto di rifarla nè più nè meno quale la prima volta», pur desiderando «tornare indietro a vivere» nell’ignoranza del futuro. La speranza, «senza la quale illusione e ignoranza non vorremmo più vivere», è l’unico motore che ci spinge avanti, mentre la «caducità umana»«l’ultima volta; ciò non avrà luogo mai più» — si impone come «pensiero dominante» nel dolore per i morti, «non come morti, ma come stati vivi». La natura, «senza ragionare», ci fa «stimarli infelici» per aver «perduto la vita e l’essere», e «questo sentimento intimo» smentisce ogni fede nell’immortalità dell’anima: «noi non crediamo naturalmente all’immortalità dell’animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi». La civiltà, lungi dall’essere un progresso universale, appare come un’«infinita moltitudine di fatti e di vicende» che rende «impossibile l’immortalità» persino ai grandi, condannati a «sopravvivere alla propria fama». Gli uomini, «veramente caduchi: esseri di un giorno», sono «passeggeri e pellegrini sulla terra», e i loro libri, «come gli efimeri», durano «poche ore, una notte, tre o quattro giorni», mentre «tutti i posti dell’immortalità in questo genere, sono già occupati».


47. L’arte poetica e la sua natura: tra improvvisazione, memoria e tradizioni orali

Dall’analisi dei poemi omerici alla critica delle teorie moderne sulla nascita della poesia epica e lirica.

Il blocco di testo selezionato affronta la questione della genesi e della natura della poesia, con particolare attenzione ai poemi omerici, alla loro trasmissione orale e alla successiva sistematizzazione scritta. Si discute l’ipotesi che Omero non avesse un piano preordinato per i suoi canti, ma li componesse e recitasse in modo spontaneo, senza l’intenzione di creare un’opera unitaria. La memoria, prima della diffusione della scrittura, era lo strumento principale di conservazione, e i rapsodi svolgevano un ruolo chiave nella trasmissione dei versi. Vengono messi in luce i limiti delle teorie che attribuiscono a Omero una consapevole struttura epica, sottolineando come l’unità apparente dell’Iliade e dell’Odissea sia frutto di successive elaborazioni (i diaskeuastaí) piuttosto che di un disegno originario.

Si affronta inoltre il rapporto tra poesia lirica ed epica, evidenziando come la prima sia il genere più autentico e primitivo, mentre la seconda nasca da una successiva sistematizzazione artificiale. La prosa, d’altro canto, emerge solo con l’avvento della scrittura, quando la conservazione dei testi diventa possibile al di là della memoria individuale. Vengono citate le riflessioni di Friedrich August Wolf sui Prolegomena ad Homerum, secondo cui la poesia precedette la prosa perché solo i versi, fissati nella memoria, potevano essere trasmessi prima dell’invenzione di un sistema di scrittura diffuso.

Il testo include anche considerazioni sulla natura dell’ispirazione poetica, contrapposta all’imitazione drammatica, e sulla differenza tra la letteratura greca – nata dal popolo e per il popolo – e quella latina, più artificiosa e meno radicata nella tradizione orale. Si sottolinea come la scrittura, pur avendo permesso lo sviluppo di una letteratura più colta, abbia anche separato i letterati dal pubblico, rendendo la poesia un’arte sempre più elitaria.


Sommario

Il blocco si apre con una riflessione sulla natura improvvisata e non scritta dei canti omerici, privi di un piano preordinato: «Omero, non avendo nessuna idea di quello che fu poi chiamato poema epico, [...] incominciasse le sue narrazioni dove ben gli parve, le continuasse indefinitamente senza proporsi una meta» (41155). La trasmissione orale, affidata alla memoria dei rapsodi, era l’unico mezzo di conservazione prima della scrittura, e i poemi furono raccolti e ordinati solo in epoca successiva, probabilmente sotto Pisistrato. I diaskeuastaí intervennero per dare coerenza metrica e tematica ai canti, ma senza alterarne lo spirito originario, che restava quello di una narrazione spontanea e priva di un disegno unitario: «i diaskeuastaÜ [...] emendarono probabilmente il metro e la dizione in assai luoghi, aggiunsero, tolsero, mutarono quello che parve lor necessario» (41630).

La poesia lirica è presentata come il genere più autentico, mentre l’epica è frutto di una sistematizzazione posteriore, quasi un «falso presupposto» (41639). La prosa, invece, nasce solo con la scrittura, quando diventa possibile conservare testi non ritmici: «scripturam tentare et communi usui aptare plane idem videtur fuisse, atque prosam tentare» (41458). Wolf osserva che «la letteratura poetica ha preceduto la prosaica» (41460) non per una scelta consapevole, ma per necessità: i versi, fissati nella memoria, potevano essere trasmessi anche senza supporto scritto, mentre la prosa, priva di struttura mnemonica, richiedeva la scrittura per sopravvivere.

Si critica inoltre l’idea che Omero avesse un’intenzione epica o allegorica, sottolineando come le interpretazioni moderne proiettino sui suoi testi concetti estranei alla sua epoca: «Quanto pensasse Omero alla conservazione della memoria de’ fatti, e a far le veci di storico [...] vedesi dalle favole di divinità, che egli senza necessità alcuna di superstizione, ma per bellezza, mescola a’ suoi racconti» (41566). La poesia omerica è invece il prodotto di un’epoca in cui «la lingua de’ numi [...] era benissimo posseduta, mentre la lingua degli uomini non si sapeva ancora usare» (41228), e la sua apparente semplicità è in realtà effetto dell’arte, non della rozzezza.

Infine, si confronta la letteratura greca, popolare e radicata nella tradizione orale, con quella latina, più artificiosa e meno accessibile al pubblico. La scrittura, pur avendo reso possibile una letteratura più raffinata, ha anche «depopolarizz[ato] la letteratura» (41503), separando i dotti dal popolo e trasformando la poesia in un’arte elitaria. Si conclude che «la poesia ancora è stata perduta dal popolo per colpa della scrittura» (41507), e che il vero poeta esprime se stesso, non imita: «il poeta immagina [...] creatore, inventore, non imitatore» (41683).


Note e riferimenti minori

Sulla trasmissione orale e i rapsodi
Sulla natura della poesia epica e lirica
Sulla scrittura e la sua influenza

48. Tradizione orale, scrittura e genesi delle opere antiche: tra Erodoto, Omero e le culture nomadi

Dall’uso pubblico della recitazione alle ipotesi sulla composizione dei poemi: fonti scritte, memoria collettiva e dialetti nella trasmissione del sapere antico.

Il blocco delinea un’indagine sulla circolazione e la forma delle opere antiche, con particolare attenzione al passaggio dalla oralità alla scrittura e alle sue implicazioni culturali. Le frasi si concentrano su tre nuclei tematici interconnessi: la recitazione pubblica come metodo di diffusione (properavit ad illud certamen, atque in magno Graecorum consessu recitavit Historias suas), l’ipotesi di una genesi orale e composita dei testi (si citano le Sagas scandinave, i canti calmucchi e i rapsodi greci come paralleli alla tradizione omerica), e la questioni filologica sui dialetti e la terminologia (l’uso di «lógos» in Erodoto per indicare sia „prosa” che „narrazione”, la mescolanza di forme ioniche e comuni nei suoi scritti). Emergono inoltre riflessioni critiche sulla unità dell’Iliade*** (l’Iliade est composée de 3 poèmes*”), sulla **ricezione emotiva dei personaggi (le seul caractère auquel tous nos sentimens délicats et généreux se puissent allier sans mélange) e sulla funzione sociale della memoria in culture pre-letterarie (ils mettaient leur gloire à réciter en vers les exploits de leurs ancêtres).

Un tema minore, ma ricorrente, riguarda l’evoluzione della religione greca: dalla rappresentazione mostruosa degli dèi (di figura mostruosa e spaventevole) alla loro umanizzazione progressiva, legata al timore come origine del culto. Le citazioni da autori moderni (Wolf, Constant, Heeren) servono a sostenere tesi sulla stratificazione delle opere e sulla relazione tra oralità e identità culturale, mentre i riferimenti a edizioni e recensioni (Schweighaeuser, Wesseling) ancorano il discorso a pratiche erudite ottocentesche. La sezione si chiude con note bibliografiche e filologiche (titoli, pagine, date) che inquadrano le fonti come parte di un dibattito in corso, segnalando ad esempio il rigetto delle teorie di Schweighaeuser (oggi però rigettata comunemente dagli eruditi) o la conferma delle ipotesi di Wolf sulla prosa come scrittura.


49. L’illusione delle affinità linguistiche e la fragilità delle etimologie: riflessioni su radici, derivazioni e percezioni errate

L’errore di giudicare l’affinità tra lingue solo dall’apparente somiglianza delle radici, e la facilità con cui l’occhio inganna anche lo studioso più attento.

Il blocco esamina come la mancanza di somiglianza tra radici linguistiche possa indurre a negare erroneamente un’origine comune, anche quando questa è storicamente accertata. Si porta l’esempio del latino dies e del francese jour, derivato da diurnum, per dimostrare che «non hanno comune neppure una lettera» eppure «la francese deriva immediatamente dalla latina». L’autore sottolinea come «se del francese e del latino non si conoscessero se non queste due voci [...] verrebbe egli in mente ad alcuno che quelle due lingue fossero analoghe?», evidenziando la fallacia di conclusioni basate su confronti superficiali. La riflessione si estende alle lingue antiche e remote, dove «chi ardirà di dire con sicurezza che una tal voce [...] non abbia con essa niuna affinità istorica?», nonostante l’evidenza di parentele lontane ma reali. Il tema minore riguarda anche la capacità infantile di astrarre regole linguistiche, come nel caso dei bambini che «dicono io teno, io veno, io poto» per analogia con verbi regolari, «sbagliando per esattezza di raziocinio».


Sommario

Il testo si concentra sulla critica all’approccio superficiale nello studio delle affinità linguistiche, dimostrando come l’assenza di somiglianze apparenti tra radici non implichi necessariamente una diversità di origine. L’esempio cardine è il confronto tra «dies» (latino) e «jour» (francese), dove «la francese deriva immediatamente dalla latina, essendo una semplice corruzione di diurnum», nonostante «non abbiano comune neppure una lettera». L’autore chiede retoricamente «verrebbe egli in mente ad alcuno che quelle due lingue fossero analoghe?» se si conoscessero solo queste voci, sottolineando come «neppure i dotti avrebbero indovinato l’etimologia della parola jour se non si fosse [...] conosciuta la corrispondente parola italiana giorno», che pur «niente ha di comune con dies». La riflessione si allarga alle lingue antiche, dove la distanza temporale e la scarsità di documenti rendono ancora più ardito «dire con sicurezza» che due termini privi di somiglianze non abbiano «affinità istorica».

Un tema minore riguarda la capacità infantile di generalizzare regole linguistiche: i bambini «profferiscono i verbi irregolari [...] con inflessioni che essi avrebbero dovuto avere se fossero stati regolari», come «io teno, io veno, io poto», dimostrando di «aver già trovate da se le regole generali delle inflessioni» attraverso «riflessione, per ragionamento», pur «sbagliando per esattezza di raziocinio». Questo fenomeno rivela una «infinità di confronti» e un «acume di mente» paragonabile a quello «dei primi grammatici».


Note

Citazioni tradotte e delimitate