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Zibaldone - Lettura (30d)

//: 2025-10-18 14:01:34 +0200

//: t 1.0

Argomento 1: Sulla traduzione, poesia e ragione

Sulla difficoltà di rendere in traduzione non solo il significato ma l’effetto di novità e impressione che le parole possedevano nell’originale, e sulla necessità di comprendere se un termine sia stato ardito e innovativo nel suo primo utilizzo, come nel caso della parola "contrappersona" in Luciano, la cui efficacia satirica risiede proprio nella sua novità.

Sommario

Il testo affronta il problema della traduzione, sostenendo che "non hai fatto niente se questa parola non è nuova e non fa in noi quell’impressione che facea ne’ greci". Si osserva come spesso si cerchi nei dizionari la spiegazione di una parola classica, rendendola con termini ordinari senza indagare se essa fosse stata un’innovazione ardita del suo autore. Viene portato l’esempio di Luciano, che conia "contrappersona" per un effetto burlesco e satirico, la cui forza risiede nella novità. Il discorso si estende poi ai "modi frasi", affermando che "l’efficacia dell’espressioni bene spesso è il medesimo che la novità". Si critica l’idea che certi passi biblici siano superiori a quelli dei poeti classici per la grandezza materiale delle immagini, sostenendo invece che nella poesia umana "ci vuole il mezzo dappertutto, il mezzo, che è il gran luogo di verità e di natura", mentre la poesia divina, come la Scrittura, "deve veramente subbissare e oltrepassare la capacità umana". Viene poi analizzato il contrasto tra natura e ragione: "la ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola". Si afferma che la grandezza, specialmente nelle arti, è possibile solo attraverso le illusioni, che la ragione condanna. Si osserva come nel secolo della ragione, "pochi ora possono essere e sono gli uomini grandi, segnatamente nelle arti", perché "le illusioni ora si conoscono chiarissimamente esser tali". Si critica la poesia romantica e sentimentale, sostenendo che i veri sentimenti sono destati dalla nuda natura, imitata dagli antichi, e non dall’aggiunta di elementi personali del poeta. Si sottolinea l’importanza dell’arte e dello studio per imitare la natura efficacemente, citando Cicerone come esempio di come lo studio approfondito non impedisca la grandezza. Infine, si osserva che la religione concilia la grandezza ispirata dalla natura con la ragione, proponendo "l’amore delle cose invisibili di Dio" e la speranza nella vita futura, creando un’armonia altrimenti impossibile.


//: t 2.1

Argomento 2: Natura, illusioni e infelicità umana

La natura umana, tra illusioni perdute e la certezza della nullità di tutte le cose, rivela la sua contraddizione fondamentale: l’uomo, destinato alla felicità, ne è reso incapace dalla ragione.

Il sommario esamina come l’uomo, per natura orientato alla felicità attraverso le illusioni, venga reso infelice dalla consapevolezza della vanità delle cose. “Tout homme qui pense est un être corrompu” (Rousseau) sintetizza questa corruzione dovuta al pensiero. L’analisi psicologica moderna, fermandosi a cause secondarie, evita di ricondurre i fenomeni a principi semplici, come l’amor proprio, che “scemerebbe la maraviglia”. La felicità, possibile nello stato naturale come per le bestie, è preclusa all’uomo civilizzato, che “ha conosciuto il voto delle cose e le illusioni e il niente di questi stessi piaceri naturali”. Il suicidio, atto contro natura, emerge dalla disperazione di chi, giunto all’“apice dell’umana felicità”, la trova “vana anzi miserabilissima”. L’amore, sebbene “vita e principio vivificante della natura”, non appaga pienamente, lasciando un desiderio insoddisfatto. La poesia antica, fondata su illusioni vigorose, contrasta con quella moderna, segnata dalla malinconia e dal sentimento del nulla.


//: t 3.2

Argomento 3: Teoria del piacere, illusioni e relatività del bello

Una disamina sulla natura del piacere, le sue illusioni e la relatività delle percezioni estetiche, con riferimenti alla psicologia umana e alle arti.

Il blocco esplora la teoria del piacere come derivante dall’amor proprio e dalla conservazione, sostenendo che "l’amor del piacere è una conseguenza spontanea dell’amor di se e della propria conservazione". Viene analizzato il ruolo delle illusioni, come l’idea dell’infinito, considerate necessarie per la felicità temporale, poiché "la natura l’abbia posta in noi solamente per la nostra felicità temporale, che non poteva stare senza queste illusioni". Si discute la relatività del bello e della grazia, osservando che "non c’è cosa più spirituale del sentimento nè più materiale della ragione", e che gusti e percezioni estetiche dipendono da assuefazioni e circostanze, come evidenziato dalla diversità di apprezzamento per simmetria e varietà in paesaggi e arte. Vengono citati esempi sulle arti, come la monotonia delle poesie francesi, e si affrontano temi minori quali la malinconia in letteratura, l’invidia e la natura relativa della morale, concludendo che "molto ma molto poche verità sono assolute e inerenti al sistema delle cose".


//: t 4.3

Argomento 4: Riflessioni sulla natura umana, la società e l'espressione artistica

Un'indagine sulla condizione umana attraverso il giudizio, le illusioni, il linguaggio e la creazione poetica.

Il blocco esamina la variabilità dei giudizi umani, dove "la diversità dei giudizi in persone ugualmente capaci" viene spesso attribuita a cause erronee, suggerendo un necessario "pirronismo" verso i giudizi altrui e persino propri. L'analisi prosegue con la natura della società, osservando che il desiderio di condividere piaceri e dispiaceri, sebbene sembri naturale, è in realtà "un effetto della società". Il linguaggio e la sua diffusione sono discussi in termini di universalità, dipendente non dalla grandezza di una nazione, ma dalla "regolarità geometrica e facilità della sua struttura", con la lingua francese citata come esempio per la sua "unicità". La creazione artistica e poetica è esplorata attraverso il ruolo dell'entusiasmo, che "nuoce o piuttosto impedisce affatto l'invenzione" ma giova all'esecuzione, e attraverso il potere consolatorio delle opere di genio, che anche quando rappresentano "la nullità delle cose" possono "aprire il cuore e ravviva[re]". Temi minori includono l'effetto della tirannia sui popoli, dove l'incivilimento eccessivo giova al dispotismo poiché i sudditi, passando "all’egoismo, all’oziosità", diventano "incapaci di quelle grandi azioni" che minacciano il potere assoluto, e la riflessione sulla giovinezza, descritta come un'età in cui la mancanza di presente e futuro rende l'individuo "infelicissimo e disperato", incapace di consolazione se non nella morte.


//: t 5.4

Argomento 5: Natura, ragione e felicità umana

La natura come unico fondamento della felicità umana, in opposizione alla ragione e al sapere, fonti di corruzione e infelicità.

Il testo esamina la contrapposizione tra natura e ragione, sostenendo che la felicità umana risiede nello stato naturale, mentre la ragione e il sapere, sviluppati attraverso la società e la civiltà, corrompono l’uomo e lo allontanano dalla sua perfezione originaria. “La ragione è nemica della natura” e “la corruzione e l’infelicità conseguente dell’uomo, è stata operata dalla ragione e dalla cognizione”. Viene analizzato il ruolo delle illusioni e delle credenze naturali, necessarie per l’azione e la vita, in contrasto con la freddezza e l’indifferenza prodotte dalla ragione. “Senza illusioni di cui l’uomo sia persuaso, non c’è vita né azione”. Il Cristianesimo è presentato come un rimedio ragionevole alla corruzione, poiché, pur divinizzando la ragione, richiama l’uomo a uno stato di civiltà media, più vicino alla natura. “La Religione favorisce infinitamente la natura”. Viene inoltre discusso il concetto di perfezione relativa, dove “il bene non è assoluto ma relativo”, e ogni essere è perfetto in conformità alla sua natura specifica.


//: t 6.5

Argomento 6: Filosofia, egoismo e natura della società

Una critica all'egoismo moderno e alla filosofia dell'inazione, con riflessioni sulla natura umana, la società e l'impossibilità di governi perfetti in assenza di virtù naturali.

Sommario

Il testo analizza la filosofia greca che prescriveva “curam fugere” e l’evitare azioni onorevoli per raggiungere la sicurezza, definendola “filosofia dell’inazione e del nulla” e identificandola con l’egoismo contemporaneo. Cicerone è citato per confutare questa idea, sostenendo che “non ottiene neanche il suo fine, ch’è la felicità dell’individuo” e che anzi “l’impedisce, e la toglie di natura sua”. Viene messa a confronto la felicità degli antichi, dediti a sacrifici e imprese, con quella dei moderni, caratterizzati da sicurezza e noncuranza, chiedendosi: “Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo?”. Si osserva che gli uomini di maggior talento sono i più inclini all’irresolutezza, mentre “uomini di non molto ingegno” mostrano facilità nel non credere, rivelando una lontananza dalla “vera e perfetta sapienza”. La natura è presentata come base della società e dell’amicizia, con Cicerone che nota un amore universale naturale, poiché “tutti gli animali tendono più che ad altro al loro simile”. La superiorità della natura sulla ragione e l’arte è esaminata anche in ambito politico: “la perfezione di un governo umano è cosa totalmente impossibile e disperata”. Si argomenta che la monarchia assoluta era il governo naturale e perfetto nelle società primitive, poiché “alla società è necessaria l’unità”, ma con la corruzione umana e la scomparsa delle illusioni naturali, essa diventa tirannia. La democrazia, se sostenuta da virtù e uguaglianza, può essere felice, ma “la perfetta uguaglianza è la base necessaria della libertà” e la sua instabilità porta al ritorno della monarchia. Si conclude che, senza la natura, “non vi poteva più esser governo perfetto” e che la ragione umana, pur tentando di sostituirla, introduce nuove imperfezioni, poiché “rimediando a un male, ne introducono necessariamente un altro”.


//: t 7.6

Argomento 7: Origine e sviluppo delle lingue classiche e moderne

Sulle ragioni della diversa evoluzione linguistica tra greco e latino e le conseguenze per le lingue moderne.

La lingua greca, ricevendo discipline "informi, instabili, imperfette", le "formò, stabilì, perfezionò, determinò essa medesima", sviluppando un lessico autonomo. I latini, al contrario, importarono "belle e formate" le arti e le scienze dalla Grecia, "non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze, arti, lettere greche nel loro terreno". Questa ricezione passiva portò a un linguaggio filosofico e scientifico già strutturato, limitando la capacità generativa del latino, che "rimase o estinta o indebolita, e si trasformò nella facoltà adottiva". Cicerone, riconoscendo che "alla novità delle cose era necessaria la novità delle parole", introdusse termini greci, ma dopo di lui l'imitazione divenne eccessiva, impoverendo il latino e facendolo "imbarbarire effettivamente per grecismo come oggi l'italiana per francesismo".

Il parallelo si estende alle lingue moderne, dove l'italiano rischia di perdere la sua "facoltà generativa" se impedisce "la giudiziosa novità" di parole e modi. La ricchezza linguistica deriva non da una natura innata, ma dalla "copia e varietà degli scrittori" che la coltivano. Se gli scrittori "lasceranno per trascuraggine o ignoranza, di arricchirla", la lingua "non arricchirà, non crescerà, non monterà più", retrocedendo e diventando "impotente". Per evitare la barbarie, è essenziale "arricchire la lingua del prodotto delle sue proprie sostanze", accogliendo "la giudiziosa novità" e "le nuove voci create dall’uso della nazione", poiché "impedire alle lingue la giudiziosa e conveniente novità" equivale a "condannarle, e strascinarle forzatamente alla barbarie".


//: t 8.7

Argomento 8: Natura dell’amor proprio e società umana

L’amor proprio dell’uomo, e di qualunque individuo di qualunque specie, è un amore di preferenza. L’individuo amandosi naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli in quanto può, dunque effettivamente l’individuo odia l’altro individuo, e l’odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata dell’amore di se stesso, il quale essendo innato, anche l’odio degli altri viene ad essere innato in ogni vivente. Da ciò segue che nessun vivente è destinato precisamente alla società, il cui scopo non può essere se non il ben comune degl’individui che la compongono: cosa opposta all’amore esclusivo e di preferenza, che ciascuno inseparabilmente ed essenzialmente porta a se stesso, ed all’odio degli altri, che ne deriva immediatamente, e che distrugge per essenza la società. Così che la natura non può nel suo primitivo disegno aver considerata, nè ordinata altra società nella specie umana, se non simile più o meno a quella che ha posta in altre specie, vale a dire una società accidentale, e nata e formata dalla passeggera identità d’interessi, e sciolta col mancare di questa; ovvero durevole, ma lassa o vogliamo dir larga e poco ristretta, cioè di tal natura che giovando agli interessi di ciascuno individuo in quello che hanno tutti di comune, non pregiudichi agl’interessi o inclinazioni particolari in quello che si oppongono ai generali. Cosa che accade nelle società de’ bruti, e non può mai accadere in una società, così unita, ristretta, precisa, e determinata da tutte le parti, come è quella degli uomini.

Le società si sono ristrette di mano in mano che veniamo giù discendendo dai tempi naturali; e ristrette per due capi: tra gl’individui di una stessa società e tra le diverse società. Oggi questa ristrettezza è al colmo in tutti due questi capi. Ciascuna società è così vincolata dall’obbedienza che deve per tutti i versi, in tutte le minuzie, con ogni matematica esattezza al suo capo, o governo, dall’esattissimo regolamento, determinazione, precisazione di tutti i doveri e osservanze, morali, politiche, religiose, civili, pubbliche, private, domestiche ec. che legano l’individuo agli altri individui; è, dico, tanto vincolata, e stretta e circoscritta, che maggior precisione e strettezza non si potrebbe forse immaginare per questa parte. Le diverse società poi, sono così strette fra loro (dico le civili massimamente, ma non solamente), che l’Europa forma una sola famiglia, tanto nel fatto, quanto rispetto all’opinione, e ai portamenti rispettivi de’ governi, delle nazioni, e degl’individui delle diverse nazioni. In questo momento poi, l’Europa è piuttosto una nazione governata da una dieta assoluta; o vogliamo dire sottoposta ad una quasi perfetta oligarchia; o vogliamo dire comandati da diversi governatori, la cui potestà e facoltà deriva e risiede nel corpo intero di essi ec. di quello che si possa chiamare composta di diverse nazioni.

Amor patrio e odio verso lo straniero

Dovunque si è trovato amor vero di patria, si è trovato odio dello straniero: dovunque lo straniero non si odia come straniero, la patria non si ama. Lo vediamo anche presentemente in quelle nazioni, dove resta un avanzo dell’antico patriotismo. Ma quest’odio accadeva massimamente nelle nazioni libere. Una nazione serva al di dentro, non ha vero amor di patria, o solamente inattivo e debole, perchè l’individuo non fa parte della nazione se non materialmente. L’opposto succede nelle nazioni libere, dove ciascuno considerandosi come immedesimato e quasi tutt’uno colla patria, odiava personalmente gli stranieri sì in massa, come uno per uno. Con queste osservazioni spiegate la gran differenza che si scorge nella maniera antica di considerare gli stranieri, e di operare verso le altre nazioni, paragonata colla maniera moderna. Lo straniero non aveva nessun diritto sopra l’opinione, l’amore, il favore degli antichi. E parlo degli antichi nelle nazioni più colte e civili, e in queste, degli uomini più grandi, colti, ed anche illuminati e filosofi. Anzi la filosofia di allora (che dava molto più nel segno della presente) insegnava e inculcava l’odio nazionale e individuale dello straniero, come di prima necessità alla conservazione dello stato, della indipendenza, e della grandezza della patria. Lo straniero non era considerato come proprio simile. La sfera dei prossimi, la sfera dei doveri, della giustizia, dell’onesto, delle virtù, dell’onore, della gloria stessa, e dell’ambizione; delle leggi ec. tutto era rinchiuso dentro i limiti della propria patria, e questa sovente non si estendeva più che una città. Il diritto delle genti non esisteva, o in piccolissima parte, e per certi rapporti necessari, e dove il danno sarebbe stato comune se non avesse esistito.

Conseguenze della società moderna

Riconcentrato il potere, tolto agl’individui quasi del tutto il far parte della nazione, di più, spente le illusioni, l’individuo ha trovato e veduto il ben comune come diviso e differente dal ben proprio. Dovendo scegliere, non ha esitato a lasciar quello per questo. E non poteva altrimenti, essendo uomo, e vivendo. Sparite effettivamente le nazioni, e l’amor nazionale, s’è spento anche l’odio nazionale, e l’essere straniero non è più colpa agli occhi dell’uomo. S’è perciò spento l’odio verso altrui, l’amor proprio? allora si spegnerà quando la natura farà un altro ordine di cose e di viventi. La fola dell’amore universale, del bene universale, col qual bene ed interesse, non può mai congiungersi il bene e l’interesse dell’individuo, che travagliando per tutti non travaglierebbe per se, nè per superar nessuno, come la natura vuol ch’ei travagli; ha prodotto l’egoismo universale. Non si odia più lo straniero? ma si odia il compagno, il concittadino, l’amico, il padre, il figlio; ma l’amore è sparito affatto dal mondo, sparita la fede, la giustizia, l’amicizia, l’eroismo, ogni virtù, fuorchè l’amor di se stesso. Non si hanno più nemici nazionali? ma si hanno nemici privati, e tanti quanti son gli uomini; ma non si hanno più amici di sorta alcuna, nè doveri se non verso se stesso. Le nazioni sono in pace al di fuori? ma in guerra al di dentro, e in guerra senza tregua, e in guerra d’ogni giorno, ora, momento, e in guerra di ciascuno contro ciascuno, e senza neppur l’apparenza della giustizia, e senz’ombra di magnanimità, o almeno di valore, insomma senz’una goccia di virtù qualunque, e senz’altro che vizio e viltà; in guerra senza quartiere; in guerra tanto più atroce e terribile, quanto è più sorda, muta, nascosta; in guerra perpetua e senza speranza di pace. Non si odiano, non si opprimono i lontani e gli alieni? ma si odiano, si perseguitano, si sterminano a tutto potere i vicini, gli amici, i parenti; si calpestano i vincoli più sacri; e la guerra essendo fra persone che convivono, non c’è un istante di calma, nè di sicurezza per nessuno. Qual nemicizia dunque è più terribile? Quella che si ha co’ lontani, e che si esercita solo nelle occasioni, certo non giornaliere; o quella ch’essendo co’ vicini si esercita sempre e del continuo, perchè continue sono le occasioni? Quale è più contraria alla natura, alla morale, alla società? Gl’interessi de’ lontani non sono in tanta opposizione coi nostri (e per quanto lo sono, si odia adesso il lontano, come e più che anticamente, bensì meno apertamente e più vilmente). Ma gl’interessi de’ vicini essendo co’ nostri in continuo urto, la guerra più terribile è quella che deriva dall’egoismo, e dall’odio naturale verso altrui, rivolto non più verso lo straniero, ma verso il concittadino, il compagno ec.

Note e riferimenti

(7613) – (7616) – (7622) – (7623) – (7625) – (7627) – (7629) – (7630) – (7633) – (7637) – (7642) – (7644) – (7646) – (7647) – (7655) – (7658) – (7660) – (7662) – (7663) – (7669) – (7670) – (7676) – (7677) – (7680) – (7684) – (7686) – (7687) – (7730) – (7731) – (7772) – (7773) – (7776) – (7779) – (7780) – (7782) – (7784) – (7786) – (7787) – (7791) – (7792) – (7794) – (7796) – (7798) – (7801) – (7805) – (7806) – (7807) – (7809) – (7810) – (7818) – (7824) – (7831) – (7832) – (7834) – (7836) – (7838) – (7840) – (7842) – (7844) – (7846) – (7850) – (7852) – (7853) – (7856) – (7858) – (7860) – (7867) – (7869) – (7870) – (7873) – (7875) – (7879) – (7880) – (7882) – (7883) – (7885) – (7887) – (7889) – (7894) – (7896) – (7899) – (7907) – (7908) – (7910) – (7912) – (7914) – (7916) – (7918) – (7920) – (7921) – (7922) – (7924) – (7926) – (7928) – (7930) – (7932) – (7934) – (7936) – (7938) – (7940) – (7941) – (7942) – (7943) – (7944) – (7946) – (7947) – (7948) – (7949) – (7950) – (7951) – (7952) – (7954) – (7955) – (7956) – (7957) – (7958) – (7960) – (7961) – (7962) – (7963) – (7964) – (7970) – (7973) – (7974) – (7978) – (7980) – (7982) – (7984) – (7986) – (7990) – (7991) – (7992) – (7993) – (7995) – (7996) – (7998) – (7999) – (8000) – (8001) – (8002) – (8003) – (8004) – (8006) – (8007) – (8009) – (8010) – (8011) – (8012) – (8013) – (8014) – (8015) – (8018) – (8020) – (8021) – (8022) – (8023) – (8024) – (8025) – (8026) – (8027) – (8033) – (8034) – (8035) – (8036) – (8037) – (8038) – (8039) – (8040) – (8042) – (8043) – (8044) – (8045) – (8046) – (8047) – (8048) – (8049) – (8050) – (8051) – (8052) – (8053) – (8054) – (8055) – (8056) – (8057) – (8058) – (8059) – (8060) – (8061) – (8062) – (8063) – (8064) – (8065) – (8066) – (8067) – (8068) – (8069) – (8070) – (8071) – (8072) – (8073) – (8074) – (8076) – (8077) – (8078) – (8080) – (8081) – (8082) – (8083) – (8084) – (8085) – (8086) – (8087) – (8088) – (8089) – (8090) – (8091) – (8092) – (8093) – (8094) – (8095) – (8096) – (8097) – (8098) – (8099) – (8100) – (8101) – (8102) – (8103) – (8104) – (8105) – (8106) – (8107) – (8108) – (8109) – (8110) – (8111) – (8112) – (8113) – (8114) – (8115) – (8116) – (8117) – (8118) – (8119) – (8120) – (8121) – (8122) – (8123) – (8124) – (8125) – (8126) – (8127) – (8128) – (8129) – (8130) – (8131) – (8132) – (8133) – (8134) – (8135) – (8136) – (8137) – (8138) – (8139) – (8140) – (8141) – (8142) – (8143) – (8144) – (8145)


//: t 9.8

Argomento 9: Riflessioni sulla lingua, letteratura e società

Un'indagine sulla natura delle lingue, l'influenza della letteratura e il confronto tra antichi e moderni, con particolare attenzione al greco, latino e italiano, e alle trasformazioni sociali e culturali.

Il blocco esamina la natura e l'evoluzione delle lingue, soffermandosi sul confronto tra greco, latino e italiano, e sulla loro capacità di universalità. Si osserva che "la lingua greca benché a noi sembri a prima vista il contrario... è più facile della latina", attribuendo questa caratteristica alla sua maggiore adattabilità e libertà. Viene analizzata l'influenza della letteratura sulla stabilità linguistica, notando che "una lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si spegne", mentre una ricca di scritti, come il sanscrito, resiste nonostante le vicissitudini. Emerge il tema della corruzione linguistica moderna, dove "la soverchia ristrettezza e superstizione e tirannia in ordine alla purità della lingua, ne produce dirittamente la barbarie e licenza". Si affronta anche il declino delle illusioni patriottiche e il trionfo del calcolo razionale nelle relazioni internazionali, per cui "oggi per lo contrario, la resistenza dipende dal calcolo, delle forze, dei mezzi, delle speranze, dei danni, e dei vantaggi, nel cedere o nel resistere". Viene discussa l'imitazione nelle arti, criticando l'eccessivo uso di segni grafici che riducono la scrittura a algebra, e si esplora la relazione tra piacere, desiderio e materialità, affermando che "il diletto è sempre il fine, e di tutte le cose, l’utile non è che il mezzo".


//: t 10.9

Argomento 10: Verbi continuativi e frequentativi latini: distinzioni e osservazioni etimologiche

Verbi latini: continuità e frequenza d'azione, con criteri di formazione e significato distinti.

Sommario

Il testo analizza la distinzione tra verbi continuativi e frequentativi in latino, evidenziando come i primi "significano continuazione o maggior durata dell’azione espressa da’ loro verbi originari", mentre i secondi "importano frequenza della medesima azione, e hanno al tempo stesso una certa forza diminutiva". Viene criticata l'interpretazione del Monti sull'etimologia di allettare, ritenuta erronea poiché egli "dice e sostiene che il nostro ALLETTARE (e per conseguenza il latino adlectare ch’è lo stesso che il nostro, come afferma lo stesso Monti p.43.) viene da LETTO", mentre l'autore sostiene che "adlectare (e quindi allettare) fu formato da adlectus participio di adlicio". Si osserva che "il Forcellini chiama indifferentemente frequentativi, tanto i verbi in itare o itari, come quelli che io chiamo continuativi", ma "la differenza sì della formazione sì del significato, fa chiara la differenza di queste due sorte di verbi". Vengono citati esempi come raptare, che "ognun vede che quest’azione non è frequente ma continuata", a differenza di raptitare che è il vero frequentativo. Il testo affronta anche la formazione dei frequentativi, notando che "si formano essi pure dal participio in us o dal supino in um, di altri verbi, troncandone la desinenza, ma sostituendo in sua vece non la semplice terminazione infinita are, o ari, bensì quella d’ itare, o itari". Viene discussa l'eccezione per i participi in -itus o supini in -itum, dove "aggiungevano la semplice desinenza are o ari, con che però il frequentativo veniva nè più nè meno a cadere in itare o itari". Si menzionano casi di verbi come agitare e domitare che, pur terminando in -itare, appartengono ai continuativi. L'autore sottolinea che "non solo i gramatici non distinguono ch’io sappia il frequentativo dal continuativo, ma neppur conoscono, per quello ch’io sappia, questo genere di verbi, che è pur così numeroso, e importante". Viene infine esaminata la confusione nell'uso tra i significati primitivi dei verbi, poiché "le significazioni e proprietà primitive de’ verbi continuativi, frequentativi, originarii, furono molte volte confuse nell’uso, non solo della barbara latinità, o delle lingue figlie, ma degli stessi buoni ed ottimi scrittori".


//: t 11.10

Argomento 11: Lingua, poesia e progresso dello spirito umano

Sulla natura della poesia, l'evoluzione delle lingue e l'influenza reciproca tra filosofia e letteratura.

Il blocco esamina la tensione tra poesia e filosofia, l'evoluzione linguistica attraverso l'analisi e la derivazione lessicale, e il ruolo della lingua popolare nella letteratura. Si sostiene che "la filosofia nuoce e distrugge la poesia, e la poesia guasta e pregiudica la filosofia", evidenziando una "barriera insormontabile, una nemicizia giurata e mortale" tra le due discipline. L'analisi delle idee e l'uso di termini precisi sono descritti come "la morte della bellezza o della grandezza loro, e la morte della poesia", poiché i termini "esprimono un’idea più semplice e nuda che si possa", producendo "nudità e secchezza distruttrice e incompatibile colla poesia". Viene discussa la ricchezza della lingua italiana, attribuita alla sua "immensa facoltà dei derivati" e all'uso giudizioso del linguaggio popolare, considerato fonte di "varietà, bellezza, espressione, efficacia, forza, brio, grazia, facilità, mollezza, naturalezza". Si critica l'idea di proibire nuovi derivati, definita "l’ultimo eccesso della pedanteria", poiché "seccare una delle principali e più proprie ed innate sorgenti della ricchezza di nostra lingua". Viene anche affrontata l'evoluzione storica delle lingue, con l'ipotesi che "tutte o quasi tutte le antiche lingue del mondo sieno derivate antichissimamente da una sola, o da pochissime lingue assolutamente primitive", e si esplorano le alterazioni fonetiche e semantiche, come nell'esempio etimologico di "silva" e "hulh".


//: t 12.11

Argomento 12: Imperfezioni degli alfabeti primitivi e loro conseguenze sulle lingue antiche

Le prime scritture, passando dalla teoria alla pratica, dovettero affrontare "difficoltà, inconvenienti, disordini infiniti". Gli alfabeti, "come tutte le cose umane", rimasero a lungo imperfetti, con "segni inutili e soprabbondanti per una parte, mancanze di segni necessarii per l’altra". Questa imperfezione contribuì ad alterare la lingua scritta, confondendo "parole che si distinguevano ottimamente nella pronunzia" e sviando "la perfetta conservazione delle primitive radici". L’analisi dei suoni non poté "arrivar subito ai suoni intieramente elementari", portando a una scrittura "роса semplicità e di troppa semplicità".

Gli alfabeti orientali, primi al mondo, "mancano originariamente de’ segni delle vocali". Ciò rese le scritture simili a "quelle che si fanno in parecchi metodi di stenografia". Le vocali, benché "i primi suoni che l’uomo pronunzia", furono considerate "suoni inseparabili dagli altri suoni articolati", incapaci di "esser fissate nella scrittura". Questa mancanza produsse "confusione de’ significati, delle origini, delle proprietà ec. delle voci", come nell’ebraico, dove parole di diverso significato appaiono "perfettamente uguali fra loro, nè si possono distinguere se non dal senso". La conseguenza fu che "la vera antichissima pronunzia delle loro voci e lingue, in ordine ai suoni vocali, sia in grandissima parte perduta".


//: t 13.12

Argomento 13: Degenerazione linguistica e teologica

La prevalenza di nuove dottrine non per ragione ma per novità, e l'abbandono della vecchia filosofia, hanno portato a trascurare la cernita del buono dal cattivo, specialmente nel linguaggio. In teologia, la situazione è peggiore: "la teologia s’è abbandonata da chiunque ora influisce cogli studi sullo spirito d’Europa ec. non per migliorarla o rinnovarla, ma del tutto, come scienza vecchia, e quasi come l’alchimia". La ricchezza del linguaggio teologico, astratto perché la scienza è tale, è stata dimenticata insieme con essa.

Sommario

Il blocco analizza il declino della teologia e della filosofia antica, sostituite da dottrine nuove non per merito razionale ma per mera novità, con conseguente abbandono della precisione linguistica. Viene discusso come "il formare il nostro Dio degli attributi che a noi paiono buoni, benchè non lo sieno che relativamente" sia un'opinione meno assurda ma della stessa natura di quella antica che attribuiva agli Dei qualità umane, un raffinamento prodotto dallo spirito metafisico. Si esamina la forza e l'efficacia nello stile degli antichi, qualità naturale e caratteristica, dove "la natura è sorgente di forza, e che questa è sua qualità caratteristica, come la debolezza lo è della ragione". Si affrontano temi minori come l'educazione, dove "il gran torto degli educatori è di volere che ai giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o alla maturità", e la natura umana, dove "l’uomo eccessivo in qualunque cosa, è molto più inclinato e proclive all’eccesso contrario che al mezzo". Si approfondisce la comparazione delle lingue romanze, derivanti dal latino volgare, e la teoria dei sinonimi, dove "i sinonimi non sono mai tali da principio, e che la sinonimia non è primitiva", ma risultano dalla corruzione nel tempo, danneggiando la proprietà linguistica. Si conclude che "la sinonimia è maggiore assai negli antichi e ottimi greci", e che le lingue moderne, come l'italiana, sono impoverite dalla confusione dei significati, necessitando di novità lessicali per recuperare ricchezza.


//: t 14.13

Argomento 14: Contraddizioni della società civile e relatività delle idee

La società contraddice la natura umana, rendendo i vantaggi individuali incompatibili con la virtù e generando un conflitto insanabile tra ragione e benessere fisico.

Sommario

Il testo analizza come “i vantaggi naturali e acquisiti sieno quasi assolutamente incompatibili colla bontà de’ costumi” nella società, poiché chi possiede forza, bellezza o ingegno tende ad abusarne, mentre “un brutto, un uomo sprovvisto di pregi e di vantaggi, più facilmente s’incammina alla virtù”. Questa dinamica rivela che “lo stato sociale è contraddittorio colla natura, e con se stesso”, in quanto la virtù, necessaria al mantenimento della società, non può coesistere con i beni individuali che pure la favoriscono. Il conflitto si estende al rapporto tra civiltà e natura: “l’infinito sviluppo della ragione costituisce la perfezione propria dell’uomo”, ma al tempo stesso “l’esercizio e lo sviluppo di queste facoltà nuoce estremamente al vigore e al ben essere del corpo”, indebolendo la salute umana e favorendo malattie. Emerge così una contraddizione essenziale, dove “la natura ha stabilita al corpo umano la perfezione del vigore”, mentre la civiltà, con i suoi progressi, lo deteriora. Il testo accenna anche alla relatività delle idee, come quella di bellezza, che “dipende non da modello alcuno invariabile, ma dalle assuefazioni”, e alla negazione di verità assolute, affermando che “nessuna verità nè falsità è assoluta” e che “tutto è relativo”, incluso il bene e il male morale.


//: t 15.14

Argomento 15: Sviluppo delle Facoltà e Natura della Percezione

Sull'evoluzione del talento e l'influenza dell'assuefazione sulla percezione del bello e del piacere.

Sommario

Il testo esplora il concetto che le facoltà umane, incluse quelle intellettuali e artistiche, non sono innate ma prodotte dall'assuefazione e dalle circostanze. "Grandissime e importantissime osservazioni si possono fare intorno alle facoltà le più energiche, attive, e feconde, che paiono affatto innate, e in effetto non son prodotte (gli altri dicono sviluppate) se non dalle letture, e dagli studi, e dalle circostanze diverse". Viene sostenuto che "il gran talento, in qualunque genere splenda, è suscettivo di splendere in tutti i generi" e che la specializzazione in un solo campo è un puro effetto delle circostanze. Questo principio si applica anche alla percezione estetica, dove l'assuefazione determina il giudizio sul bello e sul brutto, come illustrato dall'esempio di persone inizialmente giudicate brutte che, una volta riconosciute, appaiono belle. "Non riconoscendoli vi parranno brutti, e riconoscendoli ritratterete in un punto il vostro giudizio". Viene inoltre analizzato il piacere derivante da sensazioni indeterminate e variate, come la luce che "penetra in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita", contrapposta alla piacevolezza dell'uniformità in contesti come "una vasta e tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità". Il piacere musicale è attribuito non solo all'armonia ma a qualità specifiche della voce e alla varietà dei suoni, indipendenti dal bello. Il testo estende queste osservazioni agli animali, notando che "la natura dell’animo umano, come quella del corpo, è la stessa che quella dell’animo dei bruti", differendo solo nel grado di assuefabilità.


//: t 16.15

Argomento 16: Riflessioni sulla lingua, lo stile e la società

Considerazioni sulla formazione delle lingue, le loro qualità intrinseche e l'influenza delle circostanze sociali e politiche, con particolare attenzione al contrasto tra libertà e uniformità.

Sommario

Il testo esamina come la soppressione di parole o frasi obblighi l'anima all'azione, generando bellezza, ma avverte che tali qualità stilistiche possono divenire eccessive, come nel Seicento, dove l'anima non prova gusto. Si osserva che gli stili che bastano a fare un poeta sono difficili da distinguere dalle cose stesse, richiedendo vivacità d'immaginazione sia nel poeta che nel lettore. L'immaginazione, in gran parte, non si diversifica dalla ragione se non per lo stile, poiché "la ragione non le saprebbe nè potrebbe mai dir così; e solo il poeta vero le esprime in tal modo". Un tema minore riguarda la lingua latina, la cui poca libertà e determinazione derivano dall'essere stata influenzata da una sola città, Roma, come arbitra, il che introdusse uniformità e limitazione, similmente al francese, dove Parigi esercita un'analoga influenza. Ciò rese la lingua latina scritta facilmente corruttibile, dipendendo dall'uso che cambia continuamente. In contrasto, la lingua greca mantenne libertà e varietà per la mancanza di una capitale unica e per la molteplicità di repubbliche e dialetti, dove "la Grecia non aveva una capitale" e "non aveva neppure molto stretto uso di società, se non in Atene". Questa libertà è paragonata a quella della lingua tedesca, che, non essendo ancora ben formata, conserva un'indole antica e onnipotente, adattabile a ogni cosa. Il testo critica l'idea di restringere l'italiano al toscano, sottolineando che "l'Italia non ha capitale" e che imporre tale uniformità in un paese privo di unità politica e sociale è ridicolo, poiché "la lingua dipende in tutto dalle condizioni sociali". Inoltre, si discute come le lingue popolari, come il greco e l'italiano, siano più suscettibili di eleganza e nobiltà, derivando dall'uso ardito e figurato della favella domestica, mentre le lingue modellate sulla conversazione civile, come il francese, sono più limitate.


//: t 17.16

Argomento 17: Scala degli esseri, perfezione e infelicità umana

Indi salendo fino alla sommità, porre gli esseri più organizzati, fino a quelli che tengono il mezzo della organizzazione, della sensibilità, della conformabilità. E di questi farne il sommo grado della scala, cioè della perfezione comparativamente considerata, come quelli che forse sono per natura i più disposti a conseguire la propria particolare e relativa felicità, e conservarla. Da questi in poi sempre discendendo giù giù per gli esseri più organizzati sensibili e conformabili, porre nell’ultimo e più basso grado dell’altra parte della scala l’uomo, come il più organizzato, sensibile, e conformabile degli esseri terrestri.

Discorrendo in questo modo, e raddoppiando o ripiegando così la scala, troveremmo che l’uomo è veramente nella estremità non della perfezione (come ci parrebbe se facessimo una scala sola o semplice e retta), ma della imperfezione; e in una estremità più bassa ancora di quella che è dall’altra parte della scala. Perocchè dalla comparativa imperfezione degli esseri posti in quel grado, non ne segue ai medesimi alcuna infelicità laddove all’uomo grandissima. E veramente io così penso. L’uomo non è per natura infelice. La natura non ha posto in lui nessuna qualità che lo renda tale per se medesima, nessuna che tal qual è naturalmente, si opponga da niuna parte al suo ben essere; e però la natura direttamente non ha prodotto l’uomo nè infelice, nè tale ch’ei debba necessariamente divenirlo. Perocchè l’uomo potrebbe conservarsi nello stato suo primitivo puro, come gli altri esseri si conservano nel loro, e conservandocisi, sarebbe così felice, o così non infelice, come gli altri esseri sono felici o non sono infelici durando nel naturale stato. Sicchè la natura in ordine all’uomo non ha violato per niun conto nè trapassato le sue universali leggi, che ciascuno essere abbia nella sua propria essenza immediatamente quanto abbisogna alla felicità che gli conviene, e nulla che per se lo sforzi alla infelicità.

Ma l’eccessiva, o diciamo meglio, la suprema conformabilità e organizzazione dell’uomo, che lo rende il più mutabile e quindi il più corruttibile di tutti gli esseri terrestri, lo rende eziandio per conseguenza il più infelicitabile, benchè non lo renda per se stessa e naturalmente infelice, cioè lo rende il più disposto a potersi, e più d’ogni altro essere, allontanare dal suo stato naturale, e quindi dalla sua propria perfezione, e quindi dalla sua felicità; perch’essa stessa conformabilità umana è più d’ogni altra disposta e facile a poter perdere il suo primitivo stato, uso, operazioni, applicazioni e simili. Talchè difficilmente l’uomo si conserva in effetto nel suo naturale e primitivo stato, e però difficilmente si salva in fatti dalla infelicità. Stante le quali considerazioni, e stante appunto la somma conformabilità e organizzazione dell’uomo, metafisicamente considerata in ordine alla vera e metafisica perfezione, diremo che l’uomo è il più imperfetto degli esseri terrestri, anche per natura, in quanto però solamente ella è naturale in lui una disposizione maggiore che in qualunqu’altro essere a perdere il suo stato e la sua perfezione naturale. Niuna imperfezione, neppure in ordine all’uomo, si può trovare propriamente nella natura; l’uomo non è imperfetto nè in natura, nè per natura; anzi se volete, in natura e per natura egli è il più perfetto degli esseri; ma in natura e per natura egli è più di tutti disposto a divenire imperfetto; e ciò per ragione appunto della somma sua perfezione naturale; come quelle macchine o quei lavorii compitissimi e perfettissimi, che per esser tali, sono minutamente lavorati, e quindi delicatissimi, e per la somma delicatezza più facilmente degli altri si guastano, e perdono l’essere e l’uso loro. Ma ad essi si trovano forse artefici che possono ripararli, a noi guasti e snaturati una volta, non si trova mano che ci riponga nel primo stato, (nè da noi medesimi siamo atti a farlo). Poichè nè la natura ci ripiglia in mano per riformarci, come l’artefice il suo lavoro sconciato, nè altra potenza v’ha che ci possa restaurare come un nuovo artefice il lavoro altrui.

Sommario

Il testo delinea una scala degli esseri, dove “gli esseri più organizzati, sensibili e conformabili” occupano il grado più alto di perfezione relativa, mentre l’uomo, pur essendo “il più organizzato, sensibile, e conformabile degli esseri terrestri”, si colloca all’estremità opposta, quella dell’imperfezione. Ciò avviene perché, raddoppiando la scala, si scopre che “l’uomo è veramente nella estremità non della perfezione, ma della imperfezione”. La natura non ha reso l’uomo infelice di per sé, poiché “non ha posto in lui nessuna qualità che lo renda tale per se medesima”, ma la sua “suprema conformabilità e organizzazione” lo rende “il più mutabile e quindi il più corruttibile”, predisponendolo a “allontanare dal suo stato naturale, e quindi dalla sua propria perfezione, e quindi dalla sua felicità”. Di conseguenza, l’uomo è “il più imperfetto degli esseri terrestri” non per un difetto intrinseco, ma perché “più di tutti disposto a divenire imperfetto”, analogamente a “quelle macchine o quei lavorii compitissimi e perfettissimi, che per esser tali, sono minutamente lavorati, e quindi delicatissimi, e per la somma delicatezza più facilmente degli altri si guastano”. Tuttavia, a differenza di questi manufatti, per l’uomo “non si trova mano che ci riponga nel primo stato”, né dalla natura né da altra potenza, lasciandolo incapace di recuperare la felicità originaria.


//: t 18.17

Argomento 18: Origini e derivazioni linguistiche latine e romanze

Sulle origini e le trasformazioni delle forme verbali e lessicali dal latino alle lingue romanze, con particolare attenzione ai continuativi e ai participi.

Il testo esamina l’evoluzione di verbi e participi dal latino alle lingue moderne, soffermandosi sui meccanismi di derivazione e contrazione. Si discute come “il continuativo di video che trovasi nel buon latino, non serba questa forma, e non è visare, ma visere, coi composti invisere, revisere ec.” e si osserva che “il franc. viser anche per significato è vero continuativo di videre, ed è fatto da questo, non dal verbo francese che gli risponde, cioè voir il quale non ha mai la sillaba vis.” Viene inoltre analizzato il caso di sedare, derivato da sedeo, di cui si afferma che “per significato n’è un continuativo” e che “si trova ancora in significato neutro come sedeo, e questo dev’essere il suo primitivo.” Un altro esempio è “visto ital. e spagn. participio di vedere, è manifesta contrazione di visitus, come quisto, chiesto ec. di quaesitus”, illustrando come forme perdute in latino classico sopravvivano nelle lingue romanze. Viene menzionata anche la persistenza di “visso” in italiano, che “non è contrazione di vissuto perchè tal contrazione non è dell’indole e uso della nostra lingua”, suggerendo un’origine da un participio latino arcaico.

Vengono toccati temi minori, come l’uso dei dialetti nella poesia greca, dove si sostiene che “il linguaggio poetico greco divenne certo inintelligibile al volgo”, e le qualità stilistiche nella scrittura, per cui “la chiarezza e la semplicità sono parti così fondamentali ed essenziali della bellezza e bontà degli scritti, ch’elle debbono esser continue.” Si accenna inoltre all’ortografia francese, definita “pedantesca e infilosofica” perché “modellata, anzi servilmente copiata dalla latina”, e si citano esempi di voci comuni alle lingue romanze, come “speranza, espérance, esperança, cioè sperantia, verbale di spero”, che dimostrano una derivazione regolare dal latino.


//: t 19.18

Argomento 19: Natura umana, civiltà e bellezza ideale

La natura umana e la sua relazione con la civiltà, la bellezza ideale e la poesia epica, analizzate attraverso la decadenza politica, la concezione del bello e l’arte omerica.

Sommario

Il testo esamina la tendenza delle società a cadere nella monarchia assoluta, che inevitabilmente degenera in despotismo, poiché “chi ha potere assoluto sopra i suoi simili, non ne abusi”. Questa corruzione politica influisce sull’intera società, rendendo impossibile uno stato perfetto o conforme alla natura umana. Parallelamente, viene analizzata la nozione di bellezza ideale: mentre le società civili considerano la delicatezza fisica come essenziale al bello, l’uomo naturale la reputa “brutta nelle forme umane” e contraria alla robustezza richiesta dalla sopravvivenza. Questa opposizione rivela come l’idea del bello non sia universale, ma variabile in base alle circostanze e alle abitudini, come dimostrato dalle differenze tra classi sociali, nazioni e professioni. Viene inoltre discusso il poema epico, con particolare riferimento all’Iliade di Omero, che, a differenza delle opere successive, combina un doppio interesse: l’ammirazione per la virtù fortunata e la compassione per la sventura, creando un contrasto poetico efficace. Omero, seguendo la natura anziché regole artificiose, ottiene un risultato superiore, mentre i poeti successivi, perseguendo un’unità rigida, producono opere meno coinvolgenti.


//: t 20.19

Argomento 20: Etimologia di "medeor" e riflessioni linguistiche

Sull'etimologia del verbo latino "medeor" e considerazioni sulla diffusione delle lingue romanze e sulla natura umana.

Il blocco analizza l'origine del verbo latino "medeor", confutando l'etimologia tradizionale che lo collega a "m¡dv" ("impero") e proponendo invece la derivazione dal greco "m®domai" o "m¡domai" ("curo"). "Medeor non è altro se non il verbo m®domai curo, curam gero". Viene dimostrato come "meditor" rappresenti il continuativo regolare di "medeor", seguendo la formazione standard dai participi in -us. "Da medeor dico io che giusta l'ordinaria e regolare formazione de' continuativi da' participii in us, fu fatto il verbo meditor". Il testo esamina paralleli con altre lingue, osservando come "il medicare è veramente curare" e confrontando l'evoluzione semantica del verbo "curare" in italiano e spagnolo.

Vengono affrontati temi minori come la diffusione della lingua latina in Europa, dove "La lingua latina s'introdusse, si piantò e rimase in quelle parti d'Europa nelle quali entrò anticamente e si stabilì la civilizzazione", contrastando il successo in Gallia e Spagna con il fallimento in Germania. Si discute della natura umana, distinguendo tra disposizioni "ad essere" e "a poter essere", e si riflette sul rapporto tra poesia e filosofia, due facoltà considerate "le più nobili e le più difficili" nonostante la loro sfortunata condizione sociale.


//: t 21.20

Argomento 21: Effetti del dramma e riflessioni sulla natura umana

Sull’efficacia delle tragedie nel plasmare le passioni degli spettatori e sulla variabilità dell’animo umano, con esempi tratti da opere classiche e moderne.

Il sommario esamina come le tragedie, specie quelle a lieto fine, agiscano sugli uditori soddisfacendo e quindi dissolvendo passioni come odio e ira, come illustrato dalla reazione del pubblico all’"Agamennone" dell’Alfieri, dove “la platea gridava furiosamente all’attrice che l’ammazzasse” Egisto, e dal successivo interesse per l’"Oreste", che promise la punizione del malvagio. Si affronta il confronto tra drammi antichi e moderni: i primi, come le tragedie greche, cercavano “lo straordinario e il maraviglioso delle sventure e delle passioni”, agendo sull’immaginazione con casi orribili e caratteri unici, mentre i moderni mirano a mettere gli spettatori “in relazione coi personaggi”, riflettendo il proprio cuore e le proprie circostanze. Viene inoltre discusso il tema della timidezza e del coraggio, dove “la timidità spetta per così dire ai mali dell’animo, il coraggio a quelli del corpo”, e si osserva che “molti sono timidi i quali sono insieme coraggiosissimi”, poiché la paura della vergogna, un male interno, può spingere ad affrontare pericoli esterni. Il blocco include riflessioni sulla felicità umana, descritta come sempre terrena e inconciliabile con le promesse cristiane di beatitudine celeste, poiché “l’uomo desidererà sempre di esser liberato dai dolori e dai mali ch’egli effettivamente prova”, e sulla natura della vecchiezza, che in società corrotte diventa “come il manco male al male”, a differenza dei giovani, più dannosi per ardore e malizia.


//: t 22.21

Argomento 22: Osservazioni linguistiche e grammaticali del 14-22 ottobre 1823

Analisi di fenomeni linguistici latini e italiani, con particolare attenzione alla formazione dei verbi, alle desinenze dei perfetti e supini, e ai rapporti tra lingue classiche e volgari.

Il sommario tratta della teoria dei verbi in -sco, considerati derivati da verbi originali spesso ignoti, poiché "tutti i detti verbi nosco, nascor, adipiscor, sinesco, adolesco, cresco ec. di cui non si conoscono gli originali, significano però divenire, incominciare a essere o a fare quella tal cosa o azione". Viene discusso il caso specifico di nosco, ritenuto derivato da un ipotetico noo, e si afferma che "i perfetti e supini di tali verbi (se e’ gli hanno) non sono regolari" perché "questi non son loro, ma di altri verbi originali". Si esamina la corrispondenza tra perfetti e supini, sostenendo che "la formazione del supino seguisse e fosse determinata e modificata dalla forma del perfetto". Vengono inoltre analizzati i continuativi, i derivati nominali e fenomeni come il g protatico, osservando che "i nomi o verbi o avverbi ec. latini che son fatti immediatamente da qualche nome, son fatti dal genitivo o da’ casi obliqui di questo nome, non mai dal nominativo". Si accenna anche a temi minori come l'intolleranza sociale, poiché "non v’è persona che riesca più intollerabile e che meno sia tollerata nella società, di uno intollerante", e considerazioni sulla noia, definita come "il desiderio della felicità, lasciato, per così dir, puro".


//: t 23.22

Argomento 23: Natura umana, società e linguaggio

Una riflessione sull'antagonismo sociale e le strutture linguistiche, tra crudeltà naturale e ricerca di comunione.

Il blocco analizza la contraddizione tra la presunta natura socievole dell'uomo e la sua effettiva insociabilità, dimostrata attraverso l'odio innato verso i propri simili, acuito dalla convivenza forzata. "L’uomo è odioso all’uomo naturalmente" e "la società stretta pone necessariamente in contrasto gl’interessi degl’individui". Viene esaminato come la società, invece di mitigare gli istinti, moltiplichi le disuguaglianze e renda sistematici i conflitti, al punto che "una società perfetta fra gli uomini, anzi pure una società vera è impossibile". Si osserva che "le nazioni forti e coraggiose sogliono naturalmente essere le più benigne", mentre i deboli sono spesso crudeli, e si citano esempi storici di crudeltà estrema, come l'antropofagia, per sostenere che "la società stretta fra gli uomini" è "contrario affatto alla natura". Parallelamente, il testo include osservazioni linguistiche su verbi, participi e diminutivi, come "crepolare da crepare" e "falsare in questi sensi è quasi un continuativo di fallere", illustrando meccanismi di derivazione e contrazione che rivelano una continuità tra latino e lingue volgari.


//: t 24.23

Argomento 24: Osservazioni linguistiche, letterarie e filosofiche del novembre 1823

Analisi di questioni grammaticali latine, riflessioni sulla condizione delle letterature italiana e spagnola, e considerazioni filosofiche sulla natura umana e la società.

Il blocco di testo, datato prevalentemente novembre 1823, affronta tre nuclei tematici principali. Il primo verte su dettagliate osservazioni grammaticali e filologiche relative alla lingua latina, con particolare attenzione alla formazione e all'evoluzione di verbi, participi, supini e diminutivi. "Da ciascun verbo in asco si può sicuramente dire che viene da un verbo della prima, e non d’altra coniugazione" e "i supini vengono dai perfetti" sono principi guida per spiegare anomalie e ricostruire forme antiche, come nel caso di "nectus è da necui, e necatus da necavi". Viene inoltre analizzato il fenomeno dei "diminutivi positivati", come "anellus(anello ec.) è diminutivo di anulus". Il secondo nucleo consiste in una riflessione comparativa sulla decadenza delle letterature italiana e spagnola a partire dal Seicento, attribuita alla "nullità politica e militare" delle due nazioni. "Lo stato della letteratura spagnuola oggidì (e dal principio del 600 in poi), è lo stesso affatto che quello dell’italiana" e "noi manchiamo oggi affatto di voci moderne proprie italiane e spagnuole, politiche e militari, ciò viene perchè gl’italiani e spagnuoli non hanno più, dal 600 in poi, nè affari politici propri, nè milizia propria" sintetizzano questa diagnosi. Il terzo nucleo comprende una serie di pensieri filosofici sulla natura umana, esplorando il legame inscindibile tra pensiero, desiderio e infelicità. "Sempre che l’uomo pensa, ei desidera, perchè tantoquanto pensa ei si ama" e "non v’è dunque pel vivente altra felicità possibile, e questa solamente negativa, cioè mancanza d’infelicità" delineano una visione pessimistica, secondo cui la felicità è assenza di desiderio, raggiungibile solo attraverso la distrazione o il "letargo". Viene inoltre analizzata la psicologia del giovane deluso dalla vita, che "trasporta e rivolge bene spesso tutto l’ardore e la morale e fisica forza... a proccurarsi l’infelicità, l’inattività, la morte morale". Temi minori includono considerazioni sullo "spirito" come manifestazione di vita, osservazioni sulle lingue francese e tedesca in relazione alla loro capacità poetica e alla tolleranza sociale della singolarità, e brevi note su termini e costumi di popoli antichi.


//: t 25.24

Argomento 25: Partecipi passati in senso attivo o neutro e diminutivi positivati

Osservazioni linguistiche su participi passati usati attivamente e diminutivi divenuti forme principali, con esempi dal latino, greco e lingue romanze.

Sommario

Il testo analizza l’uso di participi passati in senso attivo o neutro, come "consultus", "cautus" e "errato", che assumono significati propri di aggettivi o verbi attivi, ad esempio "entendido per intendente" o "mirado per mirante". Vengono citati esempi da lingue moderne, tra cui spagnolo e italiano, come "bien hablado" per indicare "buon parlante" e "errato per errante". Si menzionano anche casi di participi con significato presente o abituale, come "pesado per pesante". Parallelamente, il blocco tratta i diminutivi greci e latini divenuti forme positive, come "titthìon" e "mammilla" usati senza intenzione diminutiva, e "kraníon" per "capo". Vengono riportati esempi da autori classici, tra cui Omero e Luciano, e si osserva che tale fenomeno è "massimamente proprio de’ nostri antichi e trecentisti". Ulteriori temi minori includono verbi frequentativi italiani, come "sputacchiare" e "aggrumolare", e grecismi nell’uso di avverbi e pronomi, ad esempio "altro per niuno" e la ridondanza di "állos" in greco.


//: t 26.25

Argomento 26: Formazione e positivazione di diminutivi in italiano e altre lingue

Esempi di diminutivi divenuti forme lessicali autonome in italiano, francese, spagnolo e greco, con riferimenti a fonti lessicografiche e letterarie.

Il blocco esamina la trasformazione di forme diminutive latine e greche in termini lessicali indipendenti in italiano e altre lingue romanze, con esempi tratti dal mondo animale, vegetale e oggetti quotidiani. Vengono citati casi come "vitello" da vitulus, "agnello" da agnus, "uccello" da avis e "muletto" da mulus, dove "Così ouaille ec.", "Così agnello, agneau per agnus" e "Così noi muletto, muletta" illustrano il processo. Si menzionano anche esempi greci, come kálathos-kaláthion e púgōn-pugṓnion, con riferimenti a Luciano e lessici. Vengono segnalati verbi derivati da forme diminutive o frequentative, come "raschiare" da rado-rasum e "trembloter" in francese. Il testo include osservazioni su participi con significato attivo, come "dissimulatus" per chi dissimula, e casi di ridondanza linguistica, come "altro" usato per nessuno. Sono presenti riferimenti a opere lessicografiche come la Crusca, il Forcellini e lo Scapula, nonché a autori classici e moderni per confermare gli usi linguistici.


//: t 27.26

Argomento 27: Note filologiche e riflessioni linguistiche del novembre 1825 - marzo 1826

Raccolta di annotazioni su etimologie, traduzioni e osservazioni grammaticali.

Il blocco raccoglie appunti filologici e lessicali, con riferimenti a opere classiche e moderne. Si segnalano studi sulla soppressione delle vocali nella scrittura etrusca, dove si osserva che "le vocali spesso son tralasciate" e ci si interroga se ciò avvenisse "a capriccio degli scarpellini, o per seguitare la pronunzia, ovvero per qualche regola stenografica od ortografica". Emerge il tema della difficoltà interpretativa, poiché "nulla ne sappiamo; e molto meno sappiamo in qual modo si abbiano da supplire". Vengono analizzati parallelismi storici, come il fatto che "Roma, la prima e più potente città che sia stata al mondo, è stata anche l’unica destinata e quasi condannata a ubbidire a signori stranieri regolarmente". Si esaminano espressioni greche e latine, come "più tempo per del tempo come più anni per parecchi anni (plures anni) frase di classici" e l'uso di "pólis" per indicare regioni, osservando che "gli antichi greci diedero spesso il nome di pólis a regioni e paesi". Sono presenti riflessioni filosofiche, tra cui una sulla vita paragonata a "il viaggio di un zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri […] cammina senza mai riposarsi", e un'altra sul rapporto tra teoria e pratica filosofica, notando che "i più filosofi per teoria, sono in pratica i meno filosofi". Si menzionano anche temi minori come l'analisi di participi sostantivati in italiano e spagnolo (es. "curato, curè ec. per che cura") e lo studio di diminutivi greci positivati.


//: t 28.27

Argomento 28: Riflessioni sulla civiltà, lo stile letterario e la condizione umana

Sulla natura della civiltà, l'arte dello scrivere e l'esperienza del piacere e del dolore nell'esistenza umana.

Sommario

Il testo esamina la natura della civiltà, osservando che "se era intenzione della natura, facendo l’uomo così debole e disarmato, che egli provvedendo alla vita ed al ben essere suo coll’ingegno, arrivasse allo stato di civiltà; perchè tante centinaia di nazioni selvagge e barbare dell’America, dell’Africa, dell’Asia dell’Oceanica, non vi sono arrivate ancora". Viene messa in discussione l'idea di un progresso universale, notando che queste popolazioni "non hanno fatto alcun passo per arrivarvi, e certo non vi arriveranno mai, nè saranno mai civili in niun modo, se noi non ve li ridurremo". Parallelamente, il testo affronta il tema dello stile letterario e dell'immortalità delle opere, citando Buffon: "Les ouvrages bien écrits seront les seuls qui passeront à la postérité; la quantité des connaissances, la singularité des faits, la nouveauté même des découvertes ne sont pas de sûrs garants de l’immortalité". Viene espresso scetticismo sulla possibilità per gli autori moderni di raggiungere l'immortalità, poiché "troppa è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi; sian pure eccellenti". La sorte dei libri contemporanei è paragonata a quella degli "insetti chiamati efimeri: alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o 4 giorni; ma sempre si tratta di giorni".

Il testo esplora anche la natura del piacere e del dolore nell'esistenza umana, affermando che "in qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto". Viene sottolineato che "bisogna, per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche altro fine che il piacere stesso", come dimostrato dall'esempio della lettura: "chi legge un libro non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta, alla seconda pagina". Viene inoltre affrontato il tema della mortalità e del lutto, osservando che "noi piangono i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perchè ha cessato di vivere, perchè ora non vive e non è". Il testo si chiude con una riflessione sulla condizione umana, dove "noi siamo veramente oggidì passeggeri e pellegrini sulla terra: veramente caduchi: esseri di un giorno: la mattina in fiore, la sera appassiti, o secchi".


//: t 29.28

Argomento 29: Riflessioni su Omero, poesia epica e tradizione orale

Un'indagine sulla composizione omerica, la natura della poesia primitiva e il confronto tra tradizione orale e scrittura, con riferimenti a studi filologici moderni e antichi.

Il sommario esamina l'ipotesi che i poemi omerici non siano nati come opere unitarie, ma come "canti lirici dettagliati" tramandati oralmente e solo in seguito raccolti e organizzati. Si discute la teoria di Wolf e Müller, secondo cui Omero "non avendo nessuna idea di quello che fu poi chiamato poema epico" compose senza un piano prestabilito, e si analizza il ruolo dei "diaskeuastaí" nel dare forma ai testi. Viene affrontato il problema della trasmissione orale, con l'osservazione che "la memoria semplice, sapeva ben conservarli a perpetuità", a differenza della scrittura moderna che, moltiplicando gli scritti, rende difficile l'immortalità. Si mette in luce come "la poesia precedè la prosa" nelle letterature primitive proprio per l'assenza di scrittura, e si critica l'attribuzione ad Omero di un'arte epica consapevole, notando che "il poema epico è contro la natura della poesia" perché richiede un lavoro prolungato contrario all'impeto poetico. Vengono citati esempi di tradizioni orali parallele, come i "chants populaires des Serviens" e le "chansons des îles Foeroeer", per sostenere la plausibilità della trasmissione mnemonica.


//: t 30.29

Argomento 30: Riflessioni linguistiche, storiche e filosofiche

Osservazioni sulla linguistica comparata, l'evoluzione delle lingue e le tradizioni antiche, con esempi tratti dal latino, greco e volgare, e considerazioni sulla natura umana e la società.

Il sommario inizia con la critica alla conclusione errata sull'assenza di affinità storica tra lingue basata sulla mancanza di somiglianza tra radici, come nel caso di "jour" francese derivato da "diurnus" latino, nonostante l'assenza di lettere comuni con "dies". Si evidenzia come "la francese deriva immediatamente dalla latina, essendo una semplice corruzione di diurnus o diurnum" e come l'ignoranza del digamma porti a fraintendimenti etimologici, ad esempio in "Maleventum o Maloentum". Il testo prosegue con esempi di evoluzione linguistica, come i bambini che generalizzano forme verbali irregolari, "dire io teno, io veno, io poto, per tengo, vengo, posso", dimostrando una riflessione autonoma sulle regole grammaticali. Viene discusso il ruolo dei "diascheuasti" nel modificare testi antichi per adattarli a forme moderne, alterando opere come quelle di Erodoto e Ippocrate, e si citano frammenti di Democrito come esempi di prosa primitiva, "non vi è quasi sintassi, parole necessarie, ed intere frasi o periodi, si omettono e sottintendono". Si affrontano temi minori come l'umanità degli antichi, evidenziata nel "gius d’asilo che avevano presso loro non pure i templi o altri luoghi pubblici, ma eziandio il focolare d’ogni casa privata", e le tradizioni epiche romane, dove "i primi libri in prosa, sono ordinariamente storici, cioè cronache e simili" e si menzionano "canti epici de’ Romani in lode de’ loro eroi". Il testo include riflessioni filosofiche sulla natura, sostenendo che "dal vedere che da certe disposizioni poste dalla natura in certi esseri, facilmente e frequentemente nascono certe qualità; non si può dedurre che ciò segua naturalmente; che quelle qualità sieno volute dalla natura", e osservazioni sociali, come "il sentimento per altrui non è veramente altro che un superfluo, un eccesso delle proprie facoltà misurate coi bisogni e colle occorrenze propie".