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Zibaldone - Argomenti (13m)

//: 2025-10-19 23:14:41 +0200


//: t 1.0

1. L’arte e la sua crisi: tra regole, natura e artificio nella letteratura moderna

Dalla perfezione classica alla mediocrità contemporanea: il conflitto tra imitazione, spontaneità e decadenza dello stile.

L’argomento ruota attorno alla tensione tra arte come regola e arte come naturalezza, con particolare attenzione alla decadenza della letteratura moderna rispetto ai modelli antichi e cinquecenteschi. Al centro vi è la critica alla mediocrità degli scrittori contemporanei, incapaci di raggiungere l’eccellenza per eccesso di timore o di artificio: „non ci attentiamo di farne delle ottime, e ne facciamo delle mediocri“, „non c’è più Omero Dante l’Ariosto“, „il Parini il Monti sono bellissimi ma non hanno nessun difetto“. La perfezione classica (greca, latina, cinquecentesca) è contrapposta alla povertà moderna, segnata da „aridità“, „affettazione“ e „studio eccessivo“ che distrugge „l’illusione“ e „la grandezza dell’animo“.

La semplice negligenza degli antichi — „pare che voglia raccontare e [...] dipinge squisitamente, e tuttavia non si vede che ci si metta“ — si scontra con la „diligenza“ moderna, che „scopre il poeta che parla“. La chiarezza e la naturalezza sono presentate come „pregi fondamentali“ assenti nella scrittura contemporanea, sostituiti da „lineette, punti ammirativi“ e „tournure“ forzate, tipiche di una „conversazione“ che corrompe lo stile. Emergono temi minori come il ruolo della lingua („aridità moderna colla freschezza [...] antico“), la decadenza dei generi letterari („l’Italia nè crea, nè coltiva per se verun genere di letteratura“) e la differenza tra poesia e prosa („manca di linguaggio poetico distinto dal prosaico“), con riferimenti critici al sentimentalismo romantico („quest’arte psicologica distrugge l’illusione“) e al tecnicismo francese („parole greche [...] danno [...] un’aria indegna di tecnicismo“). La vera arte è quella che „ha più di creazione nell’imitazione“, non la mera copia, e richiede uno „studio“ che non sia „abito“, ma „contrabito“ consapevole.


//: t 2.5

2. L’ostinazione nella sofferenza come forma di autodistruzione e la ricerca di un senso nel vuoto

L’atteggiamento di chi persiste nel dolore per scelta, la dinamica tra disperazione e compiacimento, e i meccanismi con cui l’animo si aggrappa a una sofferenza autoimposta o a un’illusione di controllo su di essa.

L’argomento riguarda la condizione di chi „diviene misantropo di se stesso e il suo maggior nemico, egli vuol soffrire, egli vi si ostina“ e „impiega tutta la forza del suo carattere e della sua età in abbracciare, sopportare e mantenere costantemente la sua morte morale“. La sofferenza non è subìta passivamente, ma „scelta“ come „lo stato più monotono, il più freddo, il più penoso per la noia che reca“, preferito perché „più lontano e men partecipe della vita“. Questo atteggiamento si lega a una „compulsione a rappresentarsi come ridotto in uno estremo di sciagura“, che „piace“ e diventa „un piacere“ in sé, quasi una „vendetta“ contro la vita e se stessi: „l’aspetto di nuove sventure, o l’idea e l’atto del suicidio gli danno una terribile e quasi barbara allegrezza“.

La disperazione non è priva di speranza, ma „contiene la speranza“ di „soffrir meno col non isperare nè desiderare più nulla“ o di „godere della stessa disperazione“. Chi „non teme nè fugge, ma desidera supremamente la morte“ può tuttavia „teme[r] l’aspetto degli uomini“ e „perdere di coraggio nella società“, paralizzato dal „timore di essere ridicolo“. La „confusione dell’anima“ e l’“incapacità di tollerare la calma della riflessione“ spingono a „preferire uno sforzo ancorchè difficile e pericoloso“ piuttosto che „una riposatezza intollerabile“. Anche la „giustizia, l’onestà, l’ordine“ possono essere abbracciati „non per virtù, ma per viltà e povertà di cuore“, come „via del retto“ meno rischiosa, mentre la „debolezza“ e la „rinuncia“ si trasformano in „egoismo“.

Temi minori includono il „piacere“ di „considerare e rappresentarsi minutamente la sua disgrazia“, „esagerandola“ fino a „persuadersi ch’essa è eccessiva, senza fine, senza rimedio“, e il „contrasto di passioni“ che nasce dal „diletto“ per „una tempesta“ interiore piuttosto che per „la calma“. Si accenna inoltre al „vigore“ passeggero che „sublima ogni oggetto“ e stimola „la gloria, l’amor patrio, i sacrifizi generosi“, in opposizione alla „gelata, sterile, ed arida vita“ di chi „s’ostina“ nel „rinunziare a ogni cosa“ per paura. La „gioventù“ stessa, „capace di dar peso a ogni godimento“, può „saziarsi più presto“ e „penare più d’ogni altro“, mentre la „vecchiaia“ si accontenta di „desiderii fievoli“ indirizzati a „luoghi così lontani“ da „non mai“ poterli raggiungere.


//: t 3.8

3. La contraddizione tra natura e società umana: infelicità, artificio e ordine corrotto

Lo stato sociale come violazione dell’ordine naturale e la presunta perfezione civile come fonte di infelicità.

L’argomento ruota attorno all’idea che «la società stretta» sia «direttamente contraria alla natura e ragione, non pur particolare, ma universale», generando un conflitto irrisolvibile tra l’essere umano e il suo ambiente originario. La civiltà, lungi dall’essere un progresso, viene descritta come uno «stato affatto contro natura», in cui l’uomo, «più s’allontana da lei, più cresce l’infelicità sua», e dove persino la «perfettibilità dello stato sociale» si rivela un’illusione: «tanto più ci fa miseri, quanto più colla pretesa sua perfezione ci allontana dalla natura». La società non solo non garantisce felicità, ma nega la conservazione stessa della specie, poiché «la specie umana in istato di società stretta necessariamente [...] serve quasi quanto è in lei alla propria distruzione e infelicità».

Emergono temi minori correlati: la «morale» non è eterna né preesistente, ma «dipende e consiste del tutto nella volontà e nell’arbitrio di Dio», il quale «era padrone di mutarla» o addirittura «non darne alcuna» a specie diverse; l’«odio verso i simili» è «assai maggiore nell’uomo che negli altri animali», rendendolo «il più insociale di tutti» e facendo della guerra un «male affatto inevitabile» in qualsiasi società umana organizzata. La «ragione», lungi dall’essere uno strumento di perfezionamento, viene accusata di corrompere l’ordine naturale: «io credo la ragione; laddove essi [gli antichi] l’uomo, io gli uomini; [...] credo non sostanzialmente, ma solo accidentalmente imperfetta l’opera di Dio». Infine, la «natura» stessa viene descritta come un sistema armonico in cui «tutte le specie debbono tendere [...] alla propria conservazione e felicità», mentre l’uomo, unico tra gli esseri, «fa evidentissimamente violenza alla natura» fino a «conformare [...] tutto ciò in modo diversissimo da quel piano [...] disposto dalla natura». La contraddizione raggiunge il paradosso quando si afferma che «la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale», poiché l’«uomo disperato della vita futura [...] detesta la presente» fino al suicidio, «cosa snaturata» e «impossibile ne’ bruti».


//: t 4.2

4. La libertà senza uguaglianza: forme di governo, civiltà e conflitto tra nazioni e individui

Nazioni senza autogoverno, gerarchie sociali fisse, conflitti tra civiltà e barbarie, e il paradosso di una libertà che non coincide con l’uguaglianza. Dinamiche di potere tra principi, governi e popolazioni, con riferimenti a modelli antichi e moderni, dall’Italia alla Cina, dalla Grecia all’Impero ottomano.

L’argomento ruota attorno a “una costituzione […] forse la migliore, forse l’unica capace di conservare, quanto è possibile, la libertà senza l’uguaglianza”, dove la libertà individuale è circoscritta da strutture di potere verticali e la partecipazione politica è negata alla “nazione medesima”. In Italia, “la forma del governo è tale che la nazione non v’ha alcuna parte”, mentre “tutto si passa senza pur venire a notizia della nazione”: il controllo è esercitato da “pochissimi e separatissimi dal resto de’ nazionali”, con una “continua influenza straniera” che agisce “per mano italiana”. Questo modello ricorre anche in “popoli dell’Asia”, dove “il figlio è obbligato ad esercitare la professione del padre” e “i ranghi sono con molta precisione distinti”, come tra “gli antichi Persiani”, “gli Ebrei” (con “una sola tribù […] destinata esclusivamente al Sacerdozio”) o “le caste” indiane. La “libertà” qui non è assenza di costrizione, ma “ciascuno è governato veramente da altrui”, “tutti da uno o da pochissimi particolari”, mentre “il pubblico […] da’ privati”.

Il conflitto tra nazioni segue logiche analoghe: “una volta le nazioni opprimevano l’altra, oggi tutte sono oppresse”, con “servitù comune” a vinti e vincitori. La “guerre” antiche, “giuste e virtuose verso i proprii”, lasciano spazio a “ingiustizie” esercitate “da gl’individui, o […] dai governi”, dove “chi la muove è ingiusto […] tanto con quella a cui la move, quanto con quella per cui mezzo e forza la muove”. La “civiltà” diventa strumento di dominio: la Grecia, “sola civile nel mondo”, “comunicò la sua civiltà a cento altri popoli”, ma fu poi “ingoia[ta]” da Roma, che a sua volta “stabilì il proprio regno sulle ruine di quello di Semiramide, di Ciro, di Alessandro”. Il “Cristianesimo” non muta questa dinamica, anzi: “non ha migliorato il mondo di un punto”, mentre “l’opinione” di “una legge universale” che obblighi “l’individuo […] verso lo straniero” è “ignota ai filosofi antichi”, “esclusa da tutti gli antichi legislatori” e “dalle più sante religioni”, compresa quella ebraica. La “gelosia” verso lo straniero persiste: gli Ateniesi “erano gelosissimi anche del troppo merito” altrui, e “la superiorità del merito […] perì tutte le democrazie”; i Greci, pur “cittadini romani”, “scrissero sempre in greco”, rifiutando l’assimilazione. La “concordia” tra principi europei contro il “Barbaro” (l’Impero ottomano) è funzionale a “la conservazione della civiltà”, ma la “civiltà” stessa, “mezzana”, “trionfa” solo finché “una nazione che resta, o che nasce” non ne eredita il “dominio universale”, per poi crollare.

Temi minori includono il ruolo della “religione” come “campo di esercizio” politico (il papato “tenne l’Italia in azione”), la “civiltà” come “propagazione” anche verso “bruti” o “scimmie”, e il “terrore” per “una lingua e un popolo Asiatico” (i Turchi) “piantato nell’Europa”. La “gloria” e il “merito” sono premiati solo in “uno stato dove ogni azione pubblica […] è sottoposta al giudizio della moltitudine”, ma “le democrazie perirono” per “eccessiva sproporzione” di onori. La “rivoluzione francese” “spinse indietro l’incivilimento”, “ravvicinando la Francia alla natura”, mentre “l’incivilimento” stesso, “estremo”, “distrugge la nazione e la patria”.


//: t 5.1

5. L’origine volgare delle lingue neolatine e il ruolo della tradizione scritta nella loro formazione

Tra continuità plebee, influssi greci e corruzione della lingua dotta

Le lingue neolatine (italiano, francese, spagnolo) derivano non dal latino letterario, ma da un latino volgare che sopravvisse come substrato orale e plebeo, indipendente dalla tradizione scritta e dalle sue regole. Questo volgare, “la sola ch’esista allora nella nazione”, si conservò attraverso l’uso popolare, trasmettendo radici antichissime persino anteriori al latino classico: “oggi la nostra plebe usa familiarmente una radice ch’era già poetica, e però già divisa dal volgo, sino dal tempo del più antico scrittore profano che si conosca, cioè di Omero”. La lingua scritta, invece, subì l’influsso diretto della letteratura greca, che “diede veramente e principalmente forma alla lingua latina” e ne determinò “il carattere e lo spirito”, rendendola un artefatto colto e separato dal parlato. La tensione tra queste due anime – il volgare come “fonte antichissima” e il latino scritto come “lingua illustre” – spiega perché “gli scrittori latini dell’aureo secolo” appaiano meno vicini all’italiano moderno rispetto agli “antichissimi scrittori latini”, più prossimi al “plebeo da cui le lingue scritte per necessità incominciano”.

La corruzione della lingua dotta è un fenomeno ricorrente: “la lingua e letteratura latina, dipendendo in tutto dall’uso, doveva per necessità cambiar presto di faccia”, come accadde al francese, che “si divise dall’indole, dallo spirito e dalla qualità de’ suoni delle lingue sorelle” a causa di influenze settentrionali. Al contrario, l’italiano e lo spagnolo mantennero “il grosso” del latino volgare, “quantunque inondate ancor esse dalle lingue settentrionali”. Le eccezioni – voci o modi “italianissimi per potenza” ma assenti nei testi classici – dimostrano che “chi cerca l’antico volgar latino ha diritto di considerarle come sue parti”, purché non introdotte artificialmente dagli scrittori. La grecitá, pur essenziale per la formazione del latino letterario, non penetrò direttamente nei volgari moderni: “le parole o modi italiani [...] che non si trovano presso gli scrittori latini, debbono essere stati [...] dal volgare antico latino”. La persistenza di suoni, ortografie e lessemi plebei, anche quando “scritti in modo incostante”, rivela invece una continuità ininterrotta, “antichissima nella pronunzia del volgo”, che la tradizione dotta ha spesso ignorato o respinto come “barbara”.


//: t 6.10

6. Il rapporto tra lingua, pensiero e progresso dello spirito umano: dinamiche di evoluzione, limiti e potenzialità

L’alfabeto come strumento di fissazione delle idee e la lingua come specchio della mente: dalla genesi dei suoni elementari alla corruzione semiotica delle parole.


L’argomento ruota attorno all’interdipendenza tra lingua, pensiero e progresso intellettuale, con particolare attenzione ai meccanismi che ne regolano lo sviluppo, le alterazioni e le potenzialità inespresse. La lingua non è un semplice veicolo di comunicazione, ma la condizione stessa per “l’uomo non pensa se non parlando fra se, e col mezzo di una lingua”: le idee si stabilizzano solo quando “quasi legandola e incastonandola” in “vocaboli nuovi, o nuovamente applicati”, altrimenti restano “oscure”, “indeterminate” o “confuse”. Il progresso dello spirito umano è vincolato all’“arricchimento” linguistico, che deve produrre “parole sempre più precise, distinte, sottili, uniformi ed universali”; senza questo, “il progresso dello spirito umano sarà inevitabilmente ristretto” a singole nazioni o cerchie ristrette. L’alfabeto emerge come tecnologia fondativa: senza “segni con cui significare” i “suoni elementari della favella”, non è possibile “determinare e fermare appo se stesso l’idea di ciascuno di loro”, né “rappresentarli distintamente a se stesso”. I suoni, “così confusi, legati, stretti, incorporati” nella pronuncia, sfuggono alla percezione se non “vinti” attraverso un “salto” concettuale che li “decompone” in “elementi”.

La dinamica evolutiva delle lingue rivela due forze opposte: da un lato, la “fecondazione” lessicale tramite “inflessioni, composizioni, modificazioni” che, a partire da “poche parole radicali”, genera “infinite significazioni” (esemplificato dal latino, che “da un piccolo vocabolario monosillabo” trae “una lingua delle più ricche”); dall’altro, la “corruzione” semiotica, per cui “il popolo”“incapace di troppe sottigliezze”“confonde” i significati, “trascura la minuta esattezza” e “dimentica l’esatto e primo valore” delle parole, moltiplicando “significati” e “voci” per uno stesso concetto. Questo processo è accelerato dall’“uso prepotente” e dall’“abuso” collettivo, che “svisa” le radici primitive fino a renderle “irriconoscibili”. Le “origini remotissime” delle lingue, “annegate” in “derivazioni, inflessioni, composizioni” casuali, sfuggono così all’“etimologista”, pur essendo “la storia della mente umana”: la loro ricostruzione illuminerebbe “la storia delle nazioni” e “darebbe infinita luce” alle “verità filosofiche” in esse celate. Il paradosso sta nel fatto che “le lingue assolutamente primitive”, “povere e rozze”, sono la “base” di tutti gli sviluppi successivi, ma la loro traccia si perde in “differenze degli organi”, “ignoranza dei parlatori”, “corruzione” e “accidenti” storici.

La “chiarezza” del pensiero dipende dalla capacità di “decomporre” le idee in “elementi semplici e universali”, come avviene nelle “scienze” o nella “matematica”, dove “undici” non è un nome “affatto progressivo”, ma “dieci e uno”: solo la “relazione scambievole” tra i concetti permette di “abbracciare” quantità complesse. Al contrario, l’“abuso di gergo”“necessario” per gli specialisti, ma “lontano dall’uso” comune — genera opacità: il “filosofo” che “s’è avvezzato a veder la materia da capo a fondo” “crede che subito sarà inteso”, “preterisce” “premesse” e “legature” dei ragionamenti e “misura l’altrui mente dalla sua”. La “facilità” dei “sistemi” derivati dal “sentimento e immaginazione”“accettati da tutte le nazioni in tutti i tempi” — contrasta con la “discordia infinita” che nasce dal “discorrere per via di semplice ragione”. Le “metafore” sensibili, anche nelle idee “più astratte”, mantengono un “legame doppio” con la realtà, evocando “non la sola concezione ma l’immagine” della cosa; al contrario, i “termini precisi” (filosofici, scientifici, tecnici) esprimono “idee nude”, perdendo questa “forza immaginativa”.

L’“ispirazione”“furore filosofico o poetico” — emerge come momento eccezionale in cui “straordinaria facoltà di generalizzare” permette di “scoprire verità grandi e importanti”, altrimenti “inaccessibili” anche a “filosofi acutissimi” o “secoli di avanzamento”. Tuttavia, affinchè queste “scoperte” (come “la polvere, il vetro”) abbiano “influenza”, devono essere “fissate” in “parole” o “segni” “uniformi”: altrimenti restano “attribuibili al caso”. La “povertà” lessicale delle lingue moderne — Nonostante “tanto maggior numero di radici” rispetto al latino o al greco — deriva dall’“abbandono della derivazione e composizione”: per “rendere una lingua sufficiente” a “qualunque novità d’idee”, occorre “riassumer l’uso di formare nuove parole” dalle “radici proprie”, seguendo il “metodo” degli “elementi” (come in “scrittura, aritmetica, chimica”), dove “un certo tal numero di elementi diversamente combinati” genera “infinità di risultati”. Le “invenzioni” fondamentali — “lingue, alfabeti, metallurgia, nautica, agricoltura” —, “spaventose” nella loro “complessità”, nascono da “scoperte infinite” accumulate “in lunghissimi secoli”, ma il loro “principio” sfugge ancora allo “spirito umano”, che “si smarrisce” nel tentativo di “ricostruirne l’origine”.


//: t 7.11

7. La formazione del giudizio estetico: assuefazione, convenienza e percezione del bello nelle arti

Come l’abitudine plasma la nozione di bellezza e bruttezza, tra regole arbitrarie, contraddizioni apparenti e differenze tra arti imitative e non imitative.

Sommario

L’argomento tratta del processo con cui gli individui sviluppano un giudizio estetico in assenza di conoscenze teoriche o pratiche pregresse, attraverso l’“assuefazione” a oggetti artistici o naturali. La bellezza non è innata ma si forma “appoco appoco”, come dimostra l’esempio dei “fanciulli” che “giudicano quella cosa bella e quell’altra brutta” senza “averne nell’intelletto o nella immaginazione alcun tipo”. La “convenienza” — intesa come armonia tra parti o adeguatezza al contesto — è il criterio centrale: “i difetti della bassezza della bruttezza deformità [...] si riducono ai difetti [...] di cose poste fuor di luogo”, mentre “rappresentate o impiegate nei loro luoghi non sono difetti giacchè piacciono”. Le arti imitative (pittura, scultura) si basano su “l’imitazione degli oggetti visibili, della quale ognun vede la verità o la falsità”, rendendo il giudizio più immediato; al contrario, “nell’architettura e nella musica, meno imitative”, la valutazione dipende da “assuefazioni” culturali e “leggi arbitrarie”.

La musica, in particolare, illustra come il piacere derivi “da’ puri suoni per se” e da “cento qualità [...] estrinseche”, tra cui “la delicatezza, facilità, rapidità [...] del loro succedersi”, piuttosto che da “convenienze de’ tuoni”. Le “melodie popolari” piacciono perché “il popolo, udendone il principio, ne indovina il mezzo e il fine”, mentre “le nuove armonie [...] a prima vista paiono discordanze”, finché l’“assuefazione generale” non le rende accettabili. Anche la “grazia” nasce da “parti che non sogliono armonizzare [...] benchè in questo tal caso convengano”, generando “una bellezza e convenienza non ordinaria”. Il giudizio estetico è inoltre influenzato da “opinioni, gusti, costumi”: “se noi vediamo una foggia di vestire novissima [...] la giudichiamo bella, e proviamo [...] il senso della bellezza, se sappiamo che quella foggia è d’ultima moda”. Infine, la “significazione” — ad esempio, “l’effetto particolare” prodotto dalla “fisonomia umana” — può prevalere sulla “bellezza astratta”, anche quando “l’interno degli uomini perde il suo stato naturale, e l’esterno [...] lo conserva”, ingannando l’osservatore.


//: t 8.9

8. La variabilità umana tra natura, circostanze e assuefazione

Dalle differenze innate alle trasformazioni indotte: come età, clima, società e accidenti ridefiniscono corpo, spirito e azioni dell’individuo.

L’argomento tratta la natura mutevole e condizionata dell’essere umano, dove le differenze tra individui, età, generi e popolazioni non sono fisse ma plasmate da circostanze fisiche, morali, sociali e accidentali. La variabilità umana si manifesta in disposizioni naturali — come "la potenza [...] alle grandi e generose azioni" o "la memoria" più viva "ne’ fanciulli" che "ne’ vecchi" — ma anche in trasformazioni acquisite, dove "l’assuefazione e le circostanze talora accrescono, talora cancellano" i tratti innati. L’età emerge come fattore chiave: "un uomo in diverse età [...] appena si può dire esser lo stesso", mentre "le facoltà umane crescono coll’età", ma le "disposizioni naturali" — come la "delicatezza" dello spirito o la "forza corporale" — si attenuano o si alterano. Le differenze di genere sono analizzate in relazione a "circostanze" sociali e fisiche: "ponete le donne in altre circostanze" e il loro "spirito" e "arte" appariranno diversi, mentre la "carriera fisica" femminile, "più rapida" di quella maschile, influisce sulla percezione del tempo. Anche professioni, climi e nazioni imprimono segni distintivi: "gli uomini dediti alle varie professioni materiali ricevono [...] differenze di forme" riconoscibili, e "le forme di una nazione selvaggia differiscono da quelle di un’altra" per "varietà di circostanze fisiche o morali". L’eroismo, la compassione e persino la beneficenza non sono tratti stabili, ma dipendono da "età, circostanze morali, fisiche, di fortuna": "di misericordiosi e benefici divengono [...] insensibili agli altrui mali" quando "gli accidenti [...] li renda bisognosi dell’aiuto altrui". Infine, l’infanzia è presentata come età decisiva, dove "le minutissime circostanze" possono determinare "caratteri, inclinazioni, azioni" per tutta la vita, mentre l’adulto civilizzato perde capacità che "i fanciulli son capaci di imparare" e che "gli uomini fatti non possono" acquisire.

La civiltà stessa è un agente di cambiamento: "ben altri erano [...] i primitivi e selvaggi", e "gl’ingegni umani" moderni, pur "raffinati" e "inventivi", non riescono a "ritrovare" conoscenze perdute, nonostante ne conservino "vestigi". Le differenze individuali"naturali o acquisite" — sono così marcate che "gl’individui di nostra specie sono [...] più vari tra loro che non son quelli di verun’altra", e persino "i craniologi" possono sbagliarsi nel giudicarne gli effetti, confondendo "disposizioni naturali" con "assuefazioni". L’organismo umano risponde a "cause semplicemente naturali" (come lo "sviluppo degli organi") o a "circostanze sociali", ma mentre "le bestie domestiche" acquisiscono solo "assuefazioni particolari", l’uomo subisce mutamenti profondi: "la specie umana è divenuta [...] più diversa da tutte l’altre specie animali". L’argomento include anche paradossi temporali, come giovani "moralmente vecchi" per "ardore" e vecchi "moralmente giovani" per "esperienza", e limiti fisici che condizionano lo spirito: "mancato [...] il subbietto, cioè la disposizione fisica a ritenere", anche le facoltà intellettuali si "perdono e dileguano".


//: t 9.7

9. Morfologia storica dei verbi latini: anomalie, derivazioni e tracciati evolutivi tra forme regolari e irregolari

Dalle desinenze perdute ai prestiti lessicali: come coniugazioni, participi e supini rivelano stratificazioni linguistiche e scambi tra radici, declinazioni e coniugazioni.


Sommario

L’argomento ricostruisce i meccanismi di formazione, alterazione e sovrapposizione delle forme verbali latine — perfetti, supini, participi, continuativi e frequentativi — attraverso l’analisi di anomalie, contratti fonetici e prestiti interni tra coniugazioni. Le desinenze dei perfetti in „evi“ o „vi“ (prima e seconda coniugazione) e in „ii“ (quarta) escludono „quasi sempre“ i verbi della terza, „se non per rara anomalia“, come „crevi da cerno“ o „sevi da sero“, dove „il supino satum“ e „la mutazione in virtù della composizione“ segnalano irregolarità strutturali. Allo stesso modo, „quaero“ e „quaeso“„un solo verbo“ in origine — mostrano come „i lessicografi“ abbiano frainteso „la pronunzia della r“ (conservata) e „l’s“ (perduta), generando „due verbi“ artificiali: uno „anomalo“ (quaero: „sii o sivi, situm“), l’altro „difettivo“ (quaeso: „ii o ivi“).

La derivazione dei verbi in „itare“ (es. „habitare, domitare“) svela la confusione tra „senso continuativo, frequentativo e diminutivo“, mentre forme come „urito“ o „legito“ — apparentemente prive di participi di origine — „dimostrano antichi participii e supini perduti“ (es. „uritus → uritare; quaeritus → quaeritare“). I „continuativi“ (es. „haurivi/haurii“) sostituiscono „hausi/haustu“, con „la pronunzia antica“ che „preferiva la s“, e i „supini in etum“ (es. „docetum → docitum“) passano „in itum“ per „mutazione non comune“ dell’„e in i“. Le alterazioni „frequentissime, ordinarie, regolari“ dei temi greci — „affatto materiali“ e „indipendenti dalla derivazione“ — si riflettono in latino nei „verbi alterati uniformemente“, mentre i „participi contratti“ (es. „vissuto ← vixitus“) o „allungati“ (es. „venduto ← venditus“) seguono „regole di pronunzia“ e „scambi vocali“ (es. „u ↔ i“ in „fuo/fio“).

I „verbi in -sco“ (es. „revivo/revivisco“) attingono „perfetti e supini“ da „verbi originali“ (es. „revixi/revictum“), e i „verbali in -ilis, -bundus, -ivus“ (es. „docilis, errabundus, defectivus“) derivano „da supini regolari o irregolari, noti o ignoti“, confermando „la corrispondenza fra perfetto e supino“ anche quando „il perfetto è perduto“. Le „radici verbali latine“„monosillabiche e trisillabiche“ (es. „par-, doc-, leg-“) — e i „verbi radicali“ si oppongono ai „derivati“ (es. „populo ← populus“), mentre „nomi come dux, ceps, fex“„anteriori ai verbi“ — generano „forme fratelli, non figli“ della terza coniugazione. Infine, i „participi italiani“ (es. „soluto, voluto“) discendono „da supini contratti“ (es. „labitum → labilis“), e „la contrazione di -ato in -to“ (es. „amato → amato“) trasforma „participi in aggettivi“, rivelando „proprietà“ evolutive „della lingua“.


//: t 10.12

10. Evoluzione e persistenza di forme linguistiche tra latino volgare, lingue romanze e greco: derivazioni, alterazioni e usi metaforici

Lenti spostamenti di significato, sopravvivenze di radici perdute e trasformazioni morfo-lessicali tra lingue classiche e neolatine.


Il tema riguarda i meccanismi di derivazione, alterazione e persistenza di lemmi, desinenze e costrutti sintattici tra latino (scritto, volgare, tardo), greco antico e lingue romanze (italiano, francese, spagnolo, russo), con attenzione a:

Si segnalano inoltre casi di conservazione in lingue periferiche (russo, spagnolo) di forme scomparse in latino classico, e processi di grammaticalizzazione (es. „altro“ come negativo). Le osservazioni si basano su confronti interlinguistici e ricostruzioni di stadi intermedi (latino basso, volgare) non sempre documentati.


//: t 11.4

11. Le laudi eroiche e la poesia epica popolare nell’antica Roma: forme, trasmissione e oblìo

Dalle nenie funerarie ai canti delle gesta regie: una tradizione orale tra identità plebea e modelli stranieri

L’argomento riguarda una produzione poetica orale e scritta dell’antica Roma, anteriore o coeva alle prime elaborazioni letterarie in versi di autori come Ennio, caratterizzata da composizioni epiche e liriche legate alla memoria collettiva. Queste opere, definite come „lays“ o „nenia“, affondano le radici in „poetry lives in every people, until metrical forms, foreign models [...] stifle it“ e si strutturano sia come „poem on the deeds of ancient times which is preserved by song“ sia come „fragments“ conservati in iscrizioni sepolcrali o citazioni indirette. I temi spaziano dalle „marvellous story of Servius“ e „the truly Homeric battle of Regillus“ alle „traditions about the Origin of the City“, organizzati in „sections, answering to the adventures in the lay of the Niebelungen“ o in „uniform whole“ autonomi, come „the history of Romulus“ o „the story of the Horatii“. La trasmissione avviene „from generation to generation in lays“, con „whole lines and thoughts“ che migrano tra composizioni diverse, mentre la datazione più antica ipotizzata risale „not before the restoration of the city after the Gallic disaster“. Emergono conflitti sociali, con una „plebeian spirit, by hatred toward the oppressors“, e tensioni tra „pontifical annals“ patrizie e „powerful plebeian houses“. La scomparsa di questa poesia è attribuita a „foreign models, the various and multiplying interests of every-day life, general dejection or luxury“, che soffocano „poetical spirits“ autentici, sostituiti da „talents so analogous to it that they may serve as a substitute“. Si accenna anche a paralleli con altre tradizioni, come „the German national epic poem, the Niebelungen lay“ o „the heroic lays of Spain, Scotland, and Scandinavia“, e a fenomeni di ibridazione linguistica, come „the Albanians [...] who have adopted the Romaic by the side of their own language“.

La forma metrica originale, „the old Roman versification“ e i „lyrical metres“ in uso fino al VII secolo della città, viene accantonata da „Ennius, who seriously believed himself to be the first poet of Rome“ e ignorata da „Perizonius“ e „Addison“, che solo tardi riconoscono „the pure gold of poetry“ in ballate popolari come „Chevychase“. Si sottolinea la difficoltà di „form an epic poem out of an argument which has not lived for centuries in popular songs and tales as common national property“, mentre la „nenia“ funeraria, marcata da „lines to separate them“ sulle tombe degli Scipioni, rappresenta una delle rare tracce materiali. Il teatro „praetextata“ e le „three kinds of the Roman national drama“ sono citati come ulteriore espressione di questa cultura, accessibile anche ai „wellborn Romans without risking their franchise“. La consapevolezza della perdita è centrale: „when death was releasing him from the fetters of civil observances, he wished to destroy what [...] he could not but view with melancholy, as the groundwork of a false reputation“.


//: t 12.6

12. Linguaggio, tradizioni orali e trasformazioni culturali tra antichità e modernità

Dalle radici comuni alle divergenze dialettali, tra filologia e reinterpretazioni popolari

Il tema affronta le dinamiche di evoluzione linguistica, le alterazioni subite dai testi antichi e le loro rielaborazioni in contesti culturali diversi. Emergono questioni di pronuncia, ortografia e autenticità nei poemi omerici, dove "la prononciation avait déjà subi des altérations notables qu’il est impossible de déterminer précisément aujourd’hui" e dove "il est difficile de rétablir la véritable orthographe sur de simples conjectures". Si discute il ruolo dei diaskeuastes, critici che "lièrent des parties détachées, levèrent des contradictions, supprimèrent des vers" senza sempre distinguere "ce qui appartenait à Homère d’avec les interpolations de ses successeurs". La traduzione diventa un campo di tensione: l’Iliade di Voss, pur con "mots allemands", conserva "un style grec", mentre l’adattamento danese di miti classici trasforma "l’Âne d’or" in un "bondekard" e "Amour" in "prince Hvidbjaern".

Affiorano paralleli tra lingue: il tedesco, "d’une construction presque aussi savante que le grec", ne ne eredita "le charme", mentre l’italiano e l’inglese si distinguono per "simplicité grammaticale", fondata su "principes de logique". Si ipotizza un’"essence des mots" radicata in un "idiome unique", dove "la forme, et non pas le fond [...] s’est modifiée", e si segnalano sopravvivenze lessicali ("feu, fuoco, fuego") risalenti alla "basse latinité". Le tradizioni popolari – canti serviani, greci moderni, fiabe danesi – testimoniano rielaborazioni locali di miti antichi, mentre si sottolinea come "les lettres [vengano] presque toutes des caractères grecs et syriaques", traccia di scambi culturali. Infine, si critica l’attribuzione di "savantes allégories" a Omero: i poemi ionici riflettono "la vie publique et particulière de leur temps", senza "combinations étudiées".


//: t 13.3

13. L’Iliade come modello irraggiungibile: unità, interesse e ricezione tra antichi e moderni

Tra teoria poetica, polemica filologica e confronto con l’epica successiva: come un poema senza piano prestabilito supera ogni imitazione.

L’argomento ruota attorno all’eccezionalità strutturale e emotiva dell’Iliade, analizzata attraverso tre assi: la sua presunta mancanza di un disegno unitario preordinato („non avendo nessuna idea di quello che fu poi chiamato poema epico, né anche avesse alcun piano o intenzione di comporne uno“), il primato dell’interesse totale su curiosità e unità formale („nell’insieme, nel totale del disegno, nell’idea nello scopo e nell’effettivo risultato del tutto, tutti i poemi epici cedono di gran lunga all’Iliade“), e il paradosso di un’opera che, pur „scritta forse in dialetto non attico“ e „svelando studiosamente l’esito innanzi tempo“, mantiene intatta la sua forza dopo secoli, mentre i poemi derivati ne riproducono solo „qualche immagine, qualche parte o qualità dell’invenzione“. Centrale è la compassione come motore poetico: Omero la concentra sui nemici dei Greci („ha fatto giuocare la compassione [...] quasi unicamente sopra i nemici de’ greci“), strategia evitata dai moderni (es. Tasso, che „non dava scrupolo“ per Clorinda, „cristiana di genitori e di nazione“), e culmina nell’episodio di Priamo ai piedi di Achille, dove „ogni artifizio“ accumula „circostanze [...] a destarci la compassione più viva“, pur mostrando un eroe „tardo a lasciarsi piegare“ fino all’intervento divino. L’Iliade sfugge anche alle categorie filologiche correnti: la sua paternità è attribuita a un „Omero“ collettivo („i popoli greci [...] lo vollero quasi tutti lor cittadino“), frutto di „Rapsodi“ ciechi che „sostentavano la vita cantando“ le storie composte „dai popoli“ stessi lungo quattrocento anni, da Troia a Numa. La duplicazione dell’eroe e dello scopo (Achille/Ettore) – rifiutata dagli epigonici per preservare „l’unità d’interesse“ – diventa così chiave del suo successo, mentre poemi come la Gerusalemme o la Lusiade, pur „strettamente nazionali“ o „modernissimi“, restano inferiori nel „totale“ e nell’„interesse finale e perpetuo“.

Notevoli i riferimenti minori: la fortuna come criterio di lode („lodar principalmente quella donna per li favori della fortuna“), l’uso dei dialetti („non fu stimato vizio lo scrivere in altro dialetto“), e l’ipotesi che gli storici romani „copiassero le favole de’ Greci, mutando i nomi“ (es. Muzio Scevola). Le citazioni lessicali (es. „alipes, armifer, aequinoctium“) e le dispute su termini omerici („teixÛon per teÝxow“) servono a illustrare il contesto filologico, mentre la menzione di autori come „Pletone, Arriano, Ecateo“ o „Frinico“ sottolinea la discontinuità tra antichi e moderni nella valutazione del poema. L’Iliade emerge così come opera „superficialissima“ nei dettagli („non poetico ch’egli è“), ma invincibile nel „complesso“, dove „l’interesse di curiosità“ – trascurato da Omero – diventa secondario rispetto alla „compassione“ e alla „estensione dell’interesse“ che „misura il pregio d’ogni scrittura“.