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Promessi Sposi - Lettura | 39m


1. Origine e metodo de I promessi sposi: tra manoscritto secentesco e riscrittura manzoniana

Un manoscritto anonimo, un progetto editoriale e la genesi di un capolavoro.

Il blocco descrive la scoperta di un testo secentesco — „un dilavato e graffiato autografo“ — che narra „fatti memorabili, se ben capitarono a gente meccaniche, e di piccol affare“, e la decisione di Manzoni di „prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura“. Emergono due nuclei tematici: la critica allo stile barocco (quella grandine di concettini e di figure, goffaggine ambiziosa, rozzo insieme e affettato) e la giustificazione metodologica della riscrittura, tra fedeltà storica (abbiam ritrovati alcuni personaggi) e rifiuto della „dicitura intollerabile“ dell’originale. Il passaggio dal „tabernacolo“ con le „anime del purgatorio“ alla comparsa dei „bravi“„individui della specie“ descritti nei „squarci autentici“ delle gride spagnole — introduce il contesto socio-storico della Lombardia del Seicento, dove „malvaggità grandiosa“ e „atti tenebrosi“ convivono con „imprese virtuose“. La prosa oscilla tra ironia (un libro impiegato a giustificarne un altro [...] potrebbe parer cosa ridicola) e difesa preventiva delle scelte narrative, mentre la „stradetta“ percorsa da don Abbondio diventa lo scenario in cui storia e finzione si fondono.


Note

2. La minaccia e il sistema di don Abbondio

Un prete tra paura e convenienza, di fronte alla legge dei potenti

Il blocco descrive l’incontro tra don Abbondio e i bravi di don Rodrigo, che gli intimano di impedire il matrimonio tra Renzo e Lucia. Il curato, abituato a una vita di prudente sottomissione, si trova costretto a piegarsi alla volontà del nobile, nonostante le sue proteste di facciata: «ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni» (52). Il dialogo rivela la sua strategia di sopravvivenza, fondata sull’evitare ogni conflitto e sull’allinearsi al più forte, come conferma il suo sistema di «neutralità disarmata» (78) e la massima «a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri» (84). La scena si allarga poi a una riflessione sull’impotenza delle leggi di fronte al potere privato: «le gride [...] non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori» (66), mentre «l’impunità era organizzata» (67) e i bravi agivano come strumenti di un sistema che proteggeva i potenti. Don Abbondio, «vaso di terra cotta» (75) in una società di «vasi di ferro», incarna la resa dell’individuo debole, che preferisce la quiete alla giustizia e scarica la propria frustrazione sui più indifesi, come i confratelli che osano difendere gli oppressi: «un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani» (83).

Il monologo interiore del curato, dopo la minaccia, svela il suo panico e il tentativo di scaricare la colpa su Renzo e Lucia, «ragazzacci [...] che non pensano ad altro» (87), o sul destino, «gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l’occasione» (89). La sua paura non è solo per sé, ma per il crollo di un equilibrio faticosamente costruito, in cui la «pazienza» (80) e la «sommissione» (59) sono gli unici scudi contro un mondo dove «la forza legale non proteggeva [...] l’uomo tranquillo» (65). Il testo chiude con l’immagine di un uomo ridotto all’impotenza, che «rimase un momento a bocca aperta, come incantato» (63), mentre i bravi se ne vanno «cantando una canzonaccia» (62), simbolo della loro impunità e del suo smarrimento.


3. Il terrore e le scuse: don Abbondio tra minacce e rimandi

Un curato alle strette tra prepotenza e codardia, dove la paura diventa strategia.

Il blocco descrive il conflitto interiore e il dialogo serrato tra don Abbondio e Perpetua, seguito dallo scontro con Renzo, in cui il curato, oppresso dalle minacce dei bravi di don Rodrigo, cerca disperatamente di rimandare il matrimonio. Le frasi rivelano un uomo diviso tra il timore per la propria incolumità — „le schioppettate non si dànno via come confetti — e la necessità di giustificare la propria inerzia con pretesti burocratici e falsi rimorsi: „la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente“. La notte insonne, popolata da „bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe“, prefigura la sua decisione di guadagnare tempo sfruttando il „tempo proibito per le nozze“, mentre con Renzo adotta un linguaggio evasivo, mescolando latinismi inutili — „Error, conditio, votum...“ — e falsi paternalismi: „figliuol caro, io non ci ho colpa“. Emergono temi minori come la solitudine della paura (siam qui soli che nessun ci sente), la manipolazione attraverso l’autorità (la mia antica esperienza mi darebbe gran vantaggio), e il contrasto tra la giovialità ingenua di Renzo (con penne di vario colore al cappello) e la malizia calcolatrice del curato, che culmina nel tentativo di scaricare ogni colpa su sé stesso pur di evitare lo scontro: „gettate tutta la colpa addosso a me“.

La tensione narrativa si concentra sull’ipocrisia di don Abbondio, che trasforma la vigliaccheria in una presunta virtù (io penso alla pelle: il più interessato son io), mentre il suo linguaggio, fatto di interruzioni (volete tacere?), esclamazioni (oh questa sì ch’è nuova!) e frasi spezzate, tradisce l’angoscia di chi sa di non avere scampo. Il blocco si chiude con la sua vittoria apparente — „Siamo a buon porto“ — e la promessa di un nuovo rinvio, sigillata dall’ennesima menzogna pietosa.


4. Il consiglio di Agnese e l’incontro con il dottor Azzecca-garbugli

Un piano per sfuggire alla prepotenza e la ricerca di giustizia tra gride e malintesi.

Il blocco descrive la reazione di Lucia, Renzo e Agnese alla minaccia che impedisce il matrimonio, con la proposta di Agnese di rivolgersi al dottor Azzecca-garbugli, figura chiave per risolvere la situazione. Il dialogo rivela la disperazione dei protagonisti, tra pianti e scatti d’ira, e la prudenza di Agnese, che suggerisce di portare doni („pigliate quei quattro capponi, poveretti!“) per ottenere aiuto. Renzo, seguendo il consiglio, si reca dal dottore, ma l’incontro si trasforma in un equivoco: il legale, interpretando male le parole di Renzo, crede che sia lui il minacciatore e non la vittima. La scena culmina con la lettura di una grida che condanna severamente chi ostacola un matrimonio („che quel prete non faccia quello che è obbligato per l’uficio suo“), ma il malinteso persiste finché Renzo non chiarisce la propria posizione. Il dottore, inizialmente scettico, si mostra poi disponibile a trovare una soluzione, pur tra avvertimenti e calcoli di convenienza. Emergono temi minori come la diffidenza verso la giustizia („a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente“) e la rappresentazione della prepotenza dei potenti, qui solo accennata nel nome di don Rodrigo.


5. La conversione di Lodovico: dal sangue al sacco

Un duello, un omicidio involontario e la fuga in convento: come un gesto di violenza diventa espiazione.

Il blocco narra l’episodio cruciale che trasforma Lodovico da uomo di mondo, circondato da bravi e abituato a risolvere le controversie con la spada, in fra Cristoforo, un cappuccino pentito. Il conflitto scaturisce da una disputa apparentemente futile sulla precedenza lungo una strada, dove due consuetudini contrastanti — „la diritta è mia“ (431) e „co’ vostri pari, è sempre mia“ (431) — sfociano in un duello mortale. Lodovico, „più d’una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate“ (424), si trova costretto a uccidere l’avversario per salvarsi, ma l’evento lo segna irreparabilmente: „l’impressione ch’egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto da lui, fu nuova e indicibile“ (454). La fuga nel convento vicino, „asilo impenetrabile“ (453), diventa il preludio a una scelta radicale, dettata dal rimorso e dalla ricerca di espiazione. Il blocco include anche la scena della pubblica umiliazione davanti ai parenti dell’ucciso, dove Lodovico, „io sono l’omicida di suo fratello“ (478), ottiene un perdono che „non se ne parli più“ (480) ma non cancella il peso della colpa. Tematiche minori affiorano: la giustizia privata dei „birboni“ (424) e dei „gentiluomini“ (433), l’ipocrisia sociale che trasforma la vendetta in „bella pagina nella storia della famiglia“ (473), e la strumentalizzazione religiosa, dove „vestendo l’abito di cappuccino, accomodava ogni cosa“ (464).

La risoluzione di Lodovico, „si chiamò implicitamente in colpa, si ritirava da ogni gara“ (465), chiude il cerchio: il nome „fra Cristoforo“ (469) diventa simbolo del debito da saldare, mentre il pane ricevuto in dono „come segno del suo perdono“ (491) sigilla il passaggio da una vita di violenza a una di servizio. La folla, „contento il popolo“ (468), e i parenti dell’ucciso, „ripieni della gioia serena del perdono“ (492), sono testimoni di una conversione che, pur tra „compunzione“ (487) e „sospetto“ (469), si impone come atto di rottura con il passato. Il blocco si chiude con l’immagine di Lodovico che „cominciò il suo pedestre viaggio“ (492), lasciandosi alle spalle „la trista gioia dell’orgoglio“ (492) per abbracciare una penitenza che „paghi almeno il mal fatto“ (468).


6. La disputa cavalleresca e il brindisi al potere: onore, bastonate e politica tra i commensali di don Rodrigo

Un dibattito infuocato su sfide, bastonate e diritto delle genti si intreccia con lodi sperticate al conte duca d’Olivares, tra argomenti giuridici, vanterie politiche e un brindisi che sigilla l’adesione al potere.


Il blocco si apre con una contesa tra il conte Attilio, don Rodrigo e il podestà sul caso di un “cavaliere spagnolo” che sfida un “cavalier milanese”: il messaggero, “senza avergliene chiesta licenza”, viene “bastonato” dal fratello del provocato, scatenando un confronto su “atto proditorio” e “diritto delle genti”. Le citazioni classiche (“i feciali che gli antichi Romani mandavano”) si scontrano con la “cavalleria moderna”, dove “un messo [...] violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo”. Il podestà obietta che “percotere un disarmato è atto proditorio”, ma il conte Attilio ribatte: “appoggiar quattro bastonate a un mascalzone!”. La disputa, apparentemente giuridica, rivela una gerarchia di valori: l’“onore” si misura in “pugni” (che “non isporcano le mani”) e “bastonate” (riservate ai “mascalzoni”), mentre il “punto d’onore” diventa pretesto per “impunità”.

Il conflitto si sposta sulla politica europea: la “successione al ducato di Mantova”, conteso tra “Luigi XIII” (e “Richelieu”) e “Filippo IV” (e “il conte duca”), offre al podestà l’occasione per un’“eloquenza” trionfale. Il “conte duca” è “una volpe vecchia”, “testa” unica al mondo, capace di “far perdere la traccia” ai “politiconi”; il “cardinale di Riciliù” è ridicolizzato come “pover’uomo” che “suda, s’ingegna” invano. Il brindisi al “gran privato del re don Filippo”“Viva mill’anni don Gasparo Guzman!”— trasforma la discussione in “guerra d’ingegni” e “splendidezza”, dove il “vino” diventa “l’Olivares de’ vini” e la “carestia” il nemico comune: “impiccarli!” è il coro unanime contro “incettatori” e “fornai”. Solo fra Cristoforo, con la sua proposta “che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate”, resta isolato: “Oh questa è grossa!”.


Sommario

La scena è dominata da un “groviglio di ragioni” che mescola “diritto cavalleresco”, “politica” e “violenza” come strumenti di affermazione. Il nucleo è la “sfida mal recapitata” e le “bastonate” inflitte al “messo”, atto che scatena un “sillogismo” giuridico: “percotere un disarmato è atto proditorio; atqui il messo [...] era senz’arme; ergo...”. Ma la logica si frantuma in “niente, niente, niente”, perché “un mascalzone” merita “bastonate”, mentre “un galantuomo” avrebbe diritto a “mano alla spada”. L’“onore” è un “carattere” da difendere con “le spalle” (o senza), e il “diritto delle genti” si riduce a “celie” quando fra Cristoforo propone di “abolire sfide e bastonate”: “lei vorrebbe mandare il mondo sottosopra”.

Il dibattito sfocia nella “politica” come “gioco di potere”: il “conte duca” è “una volpe” che “batte a sinistra” quando “accenna a destra”, mentre “Richelieu” è “un pover’uomo” che “trova la contrammina già fatta”. Il “brindisi” al “conte duca”“l’Olivares de’ vini” — è “sentenza” e “festa”, ma anche “dissimulazione”: il “dottore” loda “i pranzi [...] che vincono le cene d’Eliogabalo”, mentre il “podestà” si “maraviglia” della propria “eloquenza” ininterrotta. La “carestia”, evocata “a caso”, diventa “tristo soggetto” unificante: “impiccarli!” è la “giustizia sommaria” che “farà saltar fuori grano”. Fra Cristoforo, “sospeso” e “umile”, resta “l’unico zitto”, con il suo “teschietto di legno” a ricordare “quel Dio, al cui cospetto dobbiam tutti comparire”. La sua “proposta di giustizia”“una parola” per “sollevar [...] due innocenti” — si scontra con il “temerario” che “offende l’onore” di don Rodrigo, “custode” esclusivo di sé stesso. La “politica” e la “cavalleria” si rivelano così “regole” per “soverchiare”, dove “il bastone” e “l’impiccagione” sono “esempi” necessari, e il “vino”“ambrosia” — è “il sigillo” di un’“splendidezza” che “bandisce la carestia” a parole.


7. Un piano audace tra necessità e scrupoli: il matrimonio forzato come via d’uscita

Un espediente disperato per sfuggire a un impiccio, tra calcoli pragmatici e dubbi morali.


Il blocco descrive il momento in cui Agnese, madre di Lucia, propone ai due giovani un piano per celebrare il matrimonio a sorpresa e contro la volontà del curato, sfruttando una scappatoia legale: bastano due testimoni e la dichiarazione pubblica degli sposi perché il vincolo sia valido, anche se il parroco si oppone. Il progetto nasce dalla frustrazione per gli ostacoli incontrati («Se foste maritati, si sarebbe già un pezzo avanti?») e dalla convinzione che «tutto il mondo è paese»: una volta uniti, la coppia potrebbe trasferirsi in Bergamasco, dove Renzo troverebbe lavoro e sicurezza. Agnese giustifica l’azzardo con la necessità («il signor curato... e il birbone che fa nascer tutte le difficoltà») e minimizza gli scrupoli («la legge l’hanno fatta loro... e noi poverelli non possiamo capir tutto»), ma Lucia esita, invocando la retitudine («Finora abbiamo operato sinceramente»). Renzo, invece, abbraccia l’idea con entusiasmo, organizzando i testimoni (Tonio e Gervaso) e promettendo a Tonio di saldare un debito in cambio della complicità. Il piano si delinea tra pragmatismo («Dio dice: aiutati, ch’io t’aiuto») e il timore delle conseguenze («il padre Cristoforo... dirà: "Ah figliuola! è una scappata grossa"»), mentre traspare la tensione tra la fede nei mezzi leciti e la tentazione di forzare la sorte. Tematiche minori includono la miseria contadina (la «piccola luna» di polenta in famiglia Tonio), la diffidenza verso l’autorità ecclesiastica («il curato... scapperà come il diavolo dall’acqua santa») e il conflitto tra tradizione e espedienti («son imbrogli... tiriamo avanti con fede»).


8. Il filo della speranza e la furia della disperazione

Tra promesse, minacce e un patto forzato: la notte prima della rivolta


Sommario

Il blocco descrive un momento di tensione estrema in cui la speranza si intreccia con la rabbia incontrollabile, mentre i personaggi oscillano tra fiducia in un aiuto esterno e la decisione di agire con le proprie mani. Un frate, il “filo” per aiutarvi (791), offre una vaga promessa di intervento divino e umano, esortando alla pazienza: “non vorrai tu concedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la giustizia?” (790). Ma la sua partenza precipita Renzo in una spirale di collera, dove la giustizia diventa sinonimo di vendetta personale: “la farò io, la giustizia” (806), “quanta gente mi benedirà” (808). Il conflitto esplode con Lucia, che lo accusa di aver tradito la sua natura devota — “un giovine che aveva il timor di Dio” (810) — e lo costringe a scegliere tra lei e la violenza. La sua resa apparente, “verrò dal curato, domani” (818), è estorta con minacce velate (“non v’avrò; ma non v’avrà né anche lui” 811), mentre Agnese tenta di mediare tra pragmatismo e paura.

Il giorno successivo, l’attesa si carica di presagi: un mendico “con un non so che d’oscuro e di sinistro” (843) e “altre strane figure” (848) spiano la casa, alimentando un’ansia indefinita. Renzo, pur promettendo di “non fare scandoli” (824), prepara un “affare” (836) che non nomina, delegando a un ragazzo, Menico, il compito di recarsi dal frate per evitare sospetti. Le donne, “senza approvar con parole ciò che non poteva approvare in cuor suo” (832), si aggrappano a un patto fragile, mentre la notte precedente — “buona come può essere quella che succede a un giorno pieno d’agitazione” (831) — ha lasciato spazio a un’“inquietudine” (850) che erode il coraggio accumulato. La tensione tra fede e azione, tra rassegnazione e ribellione, domina ogni scambio, con la violenza che covava sotto le “due forti passioni” (823) di Renzo: l’odio per don Rodrigo e il desiderio di Lucia, “quando schiamazzano insieme nel cuor d’un uomo, nessuno [...] può sempre distinguer chiaramente una voce dall’altra” (823).


9. L’inganno notturno: un matrimonio forzato tra stratagemmi e resistenze

Tra visite inopportune, distrazioni calcolate e un prete colto alla sprovvista: la trama per un rito clandestino si dipana nell’ombra, tra monete, collane e un nome antico che turba la quiete.

Il blocco descrive un episodio notturno in cui l’urgenza e l’inganno si intrecciano per costringere don Abbondio a celebrare un matrimonio non desiderato. La scena si apre con l’arrivo inaspettato di Tonio e Gervaso, che pretendono di saldare un debito con «venticinque belle berlinghe nuove» (939), mentre Agnese distoglie Perpetua con chiacchiere su «Beppe Suolavecchia» e «Anselmo Lunghigna» (957), palesando la sua abilità nel manipolare le apparenze. Il prete, assorbito da una lettura su «Carneade» (945) – nome che lo disorienta – viene interrotto e, malgrado la riluttanza («Sicuro ch’è tardi: tardi in tutte le maniere» (972)), si lascia coinvolgere nella transazione. La tensione culmina quando Renzo e Lucia, nascosti «nelle tenebre» (968), irrompono al momento opportuno, sfruttando il diversivo creato dai fratelli che «stropicciavano co’ piedi il pavimento» (982). Don Abbondio, colto di sorpresa, reagisce con «spavento» e «furia» (986), ma il gesto è ormai compiuto: «quest’è mia moglie» (986). Il testo rivela così un gioco di forze tra volontà individuali e costrizione sociale, dove oggetti (monete, collane, lucerna) e parole («Deo gratias» (966), «Carneade!» (944)) diventano strumenti di una partita più grande.

La scena secondaria della discussione tra Agnese e Perpetua – incentrata su «una donna [...] che non sa le cose» (956) – funge da contraltare comico e grottesco, sottolineando come le «bugie» (958) e le «storie» (960) siano moneta corrente nel mondo descritto. Anche il dettaglio della «vecchia zimarra» e della «lucerna» (969) che illumina il volto «bruno e rugoso» di don Abbondio contribuisce a dipingere un’atmosfera di decadenza e precarietà, dove ogni elemento – dai «cespugli coperti di neve» (969) al «martellar del cuore» di Lucia (968) – concorre a creare un clima di attesa e inevitabilità. Il blocco si chiude con l’immagine del prete che «butta in terra libro, carta, calamaio» (986), simbolo della sua sconfitta di fronte a un piano orchestrato con meticolosità.


10. Il tumulto notturno: violenza, paura e fuga nella casa di don Abbondio

Un assedio rovesciato, grida nel buio e il suono salvifico delle campane

Il blocco descrive una scena caotica e violenta che si svolge nella casa di don Abbondio, dove la paura e la confusione regnano sovrane. L’episodio si apre con l’aggressione del curato verso Lucia, che viene “imbacuccata col tappeto, che quasi la soffocava”, mentre grida disperato “Perpetua! tradimento! aiuto!”, lasciando la giovane “affatto smarrita”, paragonata a “una statua abbozzata in creta”. La luce che muore accentua il senso di smarrimento, mentre Renzo, intrappolato nella stanza interna, tenta invano di fermare don Abbondio, che si barrica gridando “fuori di questa casa!”. Nel frattempo, gli altri personaggi – Tonio, Gervaso, Agnese – agiscono in preda al panico: “carpone, andava spazzando con le mani il pavimento”, “gridava e saltellava, cercando l’uscio di scala”, “chiamava Renzo, con voce fioca, pregando: ‘andiamo, andiamo, per l’amor di Dio’”.

La scena si allarga poi al villaggio, dove il suono “a martello” della campana, azionato dal sagrestano Ambrogio, scatena una reazione a catena: contadini destati di soprassalto, domande concitate (“Cos’è? fuoco? ladri? banditi?”), e una mobilitazione confusa tra curiosi, poltroni e chi corre armato. Parallelamente, i bravi di don Rodrigo, guidati dal Griso, irrompono nella casa di Agnese e Lucia, trovandola vuota grazie all’avviso tempestivo di Menico, mandato da padre Cristoforo. Il rumore della campana, “terribile tocco” che “fece la stessa impressione” sui malandrini, li costringe a una fuga disordinata, nonostante i tentativi del Griso di mantenerli uniti. Il contrasto tra la violenza premeditata dei bravi e il terrore dei protagonisti – “l’oppresso” Renzo, “la vittima” don Abbondio, le donne in fuga – evidenzia un “sopruso” mascherato da legittima difesa, mentre il paesaggio notturno, illuminato dal “più bel chiaro di luna”, diventa scenario di un groviglio di intenti e destini incrociati.


Note

Frasi centrali per la definizione del blocco
Temi minori emersi

11. L’incontro al monastero: protezione, sospetti e un patto ambiguo

Tra le griglie di un convento milanese, una nobildonna enigmatica e una contadina in fuga si fronteggiano: l’una con la curiosità di chi gioca d’astuzia, l’altra con il pudore di chi teme lo scandalo. Un padre cappuccino tesse le fili di un accordo che nasconde più di quanto riveli.

Il blocco descrive un dialogo carico di tensione e sottintesi tra la signora illustrissima — figura misteriosa e altera, abituata a destare „quel non so che di strano, che appariva nella sua persona, come nelle sue maniere“ — e Lucia, la giovane contadina costretta a fuggire da „un cavalier prepotente“ che l’ha „perseguitata con indegne lusinghe“ e poi con la violenza. Il padre guardiano, mediatore abile, presenta il caso con prudenza, celando i dettagli più crudi (pericoli... che all'orecchie purissime della reverenda madre devon essere appena leggermente accennati), mentre la signora ostenta una moralità di facciata che si incrina in „rapida espressione di dispetto“ e „rossore“ ambiguo. La sua offerta di asilo — una camera nel monastero in cambio di servizi — si rivela un calcolo: „attesa la scarsezza dell’annate, non si pensava di sostituir nessuno“, ma „una mia parola...“ basta a piegare la badessa. Lucia, „rossa rossa“ e balbettante, difende la propria onestà (vorrei piuttosto morire, che cader nelle sue mani) tra l’ira della madre Agnese (tu sei una ragazzina) e gli ammonimenti del guardiano, che la esorta a „sgranchirsi“ per non „lasciare in secco la povera mamma“. La scena si chiude con la signora che trattiene Lucia „da solo a solo“, mentre il guardiano, soddisfatto, riflette: Chi la sa prendere per il suo verso, le fa far ciò che vuole.

Il tema minore della doppiezza emerge nei gesti e nelle parole: la signora, „studiata“ in presenza del cappuccino, si abbandona poi a „discorsi... strani“ con Lucia; il guardiano, pur criticando „tanto strepito“, agisce con „impegno“ per servire l’amico Cristoforo; Agnese, „mortificata“, lancia occhiate di biasimo alla figlia. Le dinamiche di potere si intrecciano con la paura dello scandalo (per non lasciar pensar male di mia madre) e con la religione come strumento: il monastero diventa rifugio e prigione, luogo di „protezione“ e di „servizi“ imposti, dove anche la carità ha un prezzo (nessuno ardisca venire a disturbarla, quand’anche...). La reticenza di Lucia (balbettò, e non dava segno d’aver altro a dire) contrasta con la loquacità della signora, che alterna „compitezza“ e „atto altero e iracondo“, rivelando un’ironia amara (non siam noi fratelli e sorelle?). Il blocco si chiude con un presagio: la storia della nobildonna, „infelice“ e „misteriosa“, verrà svelata solo „per render ragione dell’insolito“ che la contraddistingue.


12. La supplica e il patto: tra pentimenti, minacce e una resa forzata

Tra le mura di un monastero e la gabbia di una famiglia ostile, una giovane oscilla tra ribellione e sottomissione, in un gioco di forze dove il perdono è merce di scambio e la libertà un’illusione.


Sommario

Il blocco traccia il percorso tortuoso di Gertrude, divisa tra il rifiuto di un destino imposto e la paura delle conseguenze. Inizia con il „pentirsi d’essere pentita“ (1224), un’indecisione che la logora mentre nasconde alle compagne la supplica già firmata, poi rivelata solo per sfogar l’animo, e d’accattar consiglio (1225). La fuga dal monastero, attesa come liberazione (lo scorrere in carrozza per l’aperta campagna 1231), si trasforma in una clausura domestica più opprimente: i parenti la trattano „come una rea“ (1235), isolandola con „uno sguardo distratto, o sprezzante, o severo“ (1236). Ogni tentativo di riconciliazione si scontra con il ricatto morale (c’era un mezzo di riacquistar l’affetto della famiglia 1237), mentre le „ridenti visioni“ (1238) della giovinezza cedono al „terrore dell’avvenire“ (1246).

L’incontro con il paggio — „l’unico somigliante a quell’ordine di cose tanto contemplato“ (1241) — si rivela una trappola: la lettera intercettata scatena „parole [...] terribili“ (1244) e una reclusione umiliante, dove la „vergogna“ (1250) per lo „scandolo“ (1251) divora ogni residuo di orgoglio. La minaccia di un „gastigo oscuro“ (1244) e il „rifugio“ (1252) offerto dal monastero si intrecciano fino alla resa: il „sì“ estorto dal padre (1264), camuffato da „scelta“ (1266), sigilla il patto. Le promesse di „onore“ (1274) e „dignità“ (1275) sono moneta di scambio per una „volontà che non si guarda“ (1259), mentre Gertrude, „come dominata da un sogno“ (1275), accetta il velo come „l’unico castello“ (1252) rimasto. Il cerchio si chiude con la farsa della „pecora smarrita“ (1270) e la data fissata per Monza, dove „tutto il monastero“ (1276) celebrerà una vittoria che è sconfitta.


13. Il giorno della scelta: tra cerimonie e catene

La vocazione imposta, il cerimoniale del consenso e il peso di un destino sigillato tra le mura del chiostro.

Il blocco descrive il culmine di un percorso coercitivo che trasforma Gertrude da figlia ribelle a monaca per obbedienza, attraverso un susseguirsi di riti sociali, pressioni familiari e atti formali che mascherano la violenza psicologica subita. Le frasi tracciano una giornata tipo — tra preparativi, visite, complimenti e istruzioni paterne — dove ogni gesto di Gertrude è scrutato, guidato o imposto, mentre il suo dissenso si riduce a esitazioni soffocate. Il padre, il principe, orchestra ogni fase: dalla “formula della risposta” da recitare alla badessa (“dite quelle poche parole, con un fare sciolto”, 1312) alla scelta della madrina, apparentemente libera ma in realtà pilotata (“come quando il giocator di bussolotti [...] vi dice che ne pensiate una, e lui poi ve la indovinerà”, 1336). Anche l’esame del vicario, momento cruciale per svelare la verità, diventa una farsa: Gertrude mente per paura, confermando una vocazione inesistente con frasi prestabilite (“mi fo monaca, di mio genio, liberamente”, 1351), mentre il prete, prevenuto dal principe, accetta senza sospetti le sue risposte.

Il testo evidenzia il paradosso di una libertà negata attraverso il cerimoniale: i complimenti dei parenti, le acclamazioni delle monache, i dolci offerti come premio celano il meccanismo di una trappola che si stringe. Gertrude oscilla tra ribellione e rassegnazione, consapevole che “a ritirarsene ora ci vorrebbe molta più forza” (1297), ma incapace di opporsi al “cipiglio del padre” (1340) o alla “minaccia” di uno scandalo che ricadrebbe su di lei. Il chiostro, presentato come rifugio dalla corruzione mondana, si rivela una prigione dove persino le suore compiacenti — che “le mostravano col loro esempio come anche là dentro si potesse [...] starci bene” (1373) — diventano bersagli del suo risentimento. La sua rabbia si scaglia contro le educande, vittime surrogate di una vita rubata, e contro se stessa, “rimasticando quell’amaro passato” (1370) in un circolo di autodistruzione.

Il blocco si chiude con l’ombra di una colpa inconfessabile — la fuga della conversa, testimone scomodo dei suoi peccati — e il presentimento di una caduta ulteriore, preannunciata dall’incontro con Lucia. Qui, Gertrude rivela la sua vera natura: non la monaca pentita, ma una donna “che ridesse del gran ribrezzo” altrui (1393), proiettando su Lucia i propri desideri repressi e la propria invidia per una libertà che lei ha perduto. La religione, invocata come “facoltà [...] di far realmente [...] di necessita virtù” (1367), fallisce nel redimerla: Gertrude resta “l’infelice [che] si dibatteva [...] sotto il giogo” (1369), incapace di trasformare la costrizione in accettazione, la menzogna in fede.


Note

14. Il segreto svelato e la caccia all’ombra: intrighi, tradimenti e fughe

Quando la paura si fa strategia e la vendetta un’ossessione che non conosce riposo.

Il blocco descrive il groviglio di congetture e azioni che seguono la fuga di Lucia e Renzo, osservato attraverso gli occhi di don Rodrigo e del suo braccio destro, il Griso. Al centro sta l’“anima del purgatorio” o il “pellegrino birbante”, figura ambigua che alimenta ipotesi contrastanti: “era un’anima dannata [...] che veniva sempre di notte a unirsi con chi facesse di quelle che lui aveva fatte vivendo”, oppure “uno di quegli stessi malandrini travestito”. La verità, nota solo al Griso, si svela come un “colpo tentato dai poveri sposi”, spiegando la casa vuota e il “sonare a martello”. La scoperta della loro fuga a Pescarenico — e poi a Monza per Lucia, a Milano per Renzo — scatena in don Rodrigo una “scellerata allegrezza” mista a rabbia: “Fuggiti insieme! [...] Quel frate me la pagherà”. Il Griso, pur riluttante per le “taglie” che pesano su di lui, viene spedito a Monza con due sicari, mentre don Rodrigo ordisce piani per neutralizzare Renzo, sfruttando “la giustizia” o “le gride” per farlo “sfrattar dallo stato”. Intanto, Renzo avanza verso Milano, lacerato tra “rabbia” e “preghiera”, con lo sguardo fisso al “Resegone” che gli ricorda la terra perduta. Il testo intreccia così il tema della diffusione incontrollata dei segreti“d’amico fidato in amico fidato, il segreto gira”— con quello della caccia all’uomo, dove la paura e l’astuzia si mescolano a una violenza sempre in agguato: “camminava come il lupo [...] con gli occhi sanguigni, da cui traluce insieme l’ardore della preda e il terrore della caccia”.

La narrazione si chiude con Renzo che, giunto “ben vicino alla città”, cerca rifugio presso i cappuccini, mentre don Rodrigo, “svergognato” il Griso, affida a costui l’incarico di “saper dove sono”. Emergono temi minori: la fragilità delle alleanze (il Griso che baratta la propria sicurezza), la corruzione come sistema (i “birri” che “portan rispetto” solo a chi ha potere), e la solitudine del fuggiasco, simboleggiata dalla “gran macchina del duomo” che svetta “come in un deserto”. Le azioni si susseguono in un ritmo serrato, dove ogni mossa — dalle “quattro scudi” promessi al Griso alle “minacce e insidie” ordite contro Renzo — rivela un mondo in cui “la giustizia” è uno strumento piegato ai “capricci de’ padroni”.


15. La rivolta del pane: tumulto, violenza e disordine in una Milano affamata

Una folla inferocita assedia un forno, tra grida di fame e resistenza delle autorità.

Il sommario descrive una scena di caos collettivo in cui la popolazione, spinta dalla carestia, si raduna davanti a una bottega per reclamare pane con urla insistenti: «"pane! pane! aprite! aprite!"» (1571-1572). L’arrivo del capitano di giustizia e degli alabardieri tenta invano di disperdere la calca, tra esortazioni moraleggianti — «"Che dirà il re nostro signore? [...] A casa, a casa"» (1576) — e minacce di repressione. La folla, però, è inarrestabile: «"spinti com'erano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anch'essi da altri, come flutti da flutti"» (1579), resiste agli ordini e reagisce con violenza, scagliando pietre contro le forze dell’ordine. Il capitano, colpito e umiliato, si ritira mentre la bottega viene assaltata: «"la porta fu sfondata, l'inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi"» (1607). Il saccheggio diventa frenetico: «"il pane è messo a ruba"» (1608), tra furti di farina, denaro e attrezzi, in un vortice di «"spinte, rispinte, urli, e un bianco polverìo che per tutto si posa"» (1610). La scena si allarga ad altre botteghe della città, dove i padroni tentano patti o resistenze, mentre la folla si concentra sul forno simbolo della rivolta, attratta dalla promessa di impunità. Emergono voci di sfiducia — «"tutto questo non serve a nulla [...] ci metteranno il veleno"» (1616) — e timori di rappresaglie future, ma il tumulto prosegue inesorabile, tra vittime («"due ragazzi vi rimasero morti"», 1606) e un clima di anarchia dove «"chi va, chi viene"» (1610).

Il blocco include anche frammenti di dialoghi esterni al saccheggio, come le parole di un uomo ferito che diffonde teorie cospirative («"l'hanno detto nella giunta"», 1617) o la prudenza di chi preferisce fuggire («"io me la batto"», 1620), sottolineando la polarizzazione tra partecipazione attiva e distacco calcolato. La violenza si mescola a gesti di solidarietà apparente («"lascin passare un povero padre di famiglia"», 1619), mentre il disordine si autoalimenta: «"tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bell'impresa, correvan là"» (1612). Il testo si chiude con l’avvicinarsi di Renzo, ignaro, al cuore del tumulto, mentre la città è preda di una rabbia che travalica il bisogno immediato per sfociare in distruzione e paura del dopo.


Note

Frasi in dialetto o espressioni idiomatiche tradotte:


Riferimenti testuali


16. La folla e il vicario: dal saccheggio alla violenza collettiva

La turba in rivolta tra curiosità, orrore e furore cieco.


Il blocco descrive la dinamica di una folla in tumulto, guidata da una curiosità iniziale che si trasforma in violenza collettiva. La scena si apre con la diffusione di una voce — «al Cordusio [...] s'era messo l'assedio a un forno» — che catalizza l’attenzione della moltitudine, spingendola a muoversi come «una processione». Renzo, pur riluttante, si lascia trascinare, mosso da «la curiosità» che prevale sul desiderio di allontanarsi. La folla, però, trova il forno chiuso e armato, e la frustrazione sfocia in una nuova proposta: «c'è qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco». L’idea del saccheggio e dell’omicidio suscita reazioni contrastanti: alcuni approvano, altri — come Renzo — provano «orrore pretto e immediato», pur credendo il vicario «la cagion principale della fame».

La violenza si concretizza nell’assedio alla casa del magistrato, descritto con immagini di caos: «colpi di pietre alla porta», «urli», «pugni» puntati contro il legno come a voler «tenere ferma la porta». La folla, eterogenea e disorganizzata, diventa un organismo indistinto in cui «i fautori più ardenti divengano un impedimento». L’arrivo tardivo dei soldati non placa la situazione, anzi alimenta la sfiducia: «l'irresolutezza del comandante [...] parve paura». Tra le voci che incitano al linciaggio — «assassinare un cristiano?» contro «dàlli, dàlli!»— Renzo tenta invano di opporsi, finendo accusato di essere «un servitore del vicario, travestito da contadino». La sua salvezza arriva solo dal caos successivo, quando una scala trasportata a fatica distoglie l’attenzione. Il blocco si chiude con l’annuncio di un nuovo bersaglio: «Ferrer! Ferrer!», nome che scatena «gioia» e «rabbia» in egual misura, a simboleggiare l’instabilità della folla, pronta a cambiare obiettivo senza logica.


Note

17. L’intervento di Ferrer: giustizia e tumulto in una folla divisa

Il gran cancelliere tra le grida, le promesse e la violenza di una moltitudine in bilico

Il blocco descrive l’arrivo di Antonio Ferrer, gran cancelliere, in mezzo a una folla inferocita che assedia la casa del vicario durante una sommossa. La scena si apre con invocazioni ostili — „in prigione il vicario!“, „venga Ferrer!“— e si sviluppa attorno alla figura di Ferrer, accolto come mediatore tra due fazioni opposte: chi spinge per la violenza e chi cerca di placare gli animi. La sua presenza, inizialmente salutata con scetticismo, diventa il perno attorno a cui si ridefinisce l’equilibrio del tumulto. Ferrer, „senza guardie, senza apparato“, si offre come garante di una „giustizia da cristiani“, promettendo „pane, abbondanza“ e la condanna del vicario „se è colpevole“ („si es culpable“). La folla, „miscuglio accidentale d’uomini“ oscillanti tra „ferocia e misericordia“, si lascia guidare dalle sue parole, trasformando le grida di „viva e moia“ in un coro di „viva Ferrer!“.

Il passaggio chiave è l’ingresso di Ferrer nella casa del vicario, tra „un alzar di mani, di cappelli“ che nasconde la fuga del funzionario, e il successivo tragitto verso il castello, dove il cancelliere mantiene vivo il dialogo con la moltitudine, alternando „parole spagnole“ di rassicurazione al vicario (estamos ya casi fuera“) e proclami pubblici (pane e giustizia). La scena si chiude con lo sbandamento della folla, il ritiro dei sobillatori e l’arrivo dei soldati spagnoli, mentre il vicario, salvato, minaccia di dimettersi. Il blocco evidenzia la fragilità dell’ordine pubblico, la manipolazione delle passioni collettive e il ruolo ambiguo del potere, che usa „una popolarità mal acquistata“ per contenere la rivolta senza eliminarne le cause. Tematiche minori includono la rappresentazione grottesca della violenza (attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento“), la retorica del „pane a buon mercato“ come leva politica, e la contrapposizione tra „due anime nemiche“ che lottano per dominare la folla.


18. Il discorso di Renzo: tra giustizia e rivolta

Un giovane tra la folla, la rabbia e la speranza di un mondo "più da cristiani"

Il blocco descrive un momento di transizione in cui Renzo, dopo aver partecipato a un tumulto popolare, si trova coinvolto in una discussione con un gruppo di sconosciuti. Il suo intervento appassionato denuncia un sistema corrotto in cui le leggi esistono ma non vengono applicate, i potenti agiscono impunemente e la giustizia è negata ai "poveri". Renzo propone di rivolgersi a Ferrer, figura percepita come onesta, per smascherare la "lega" dei prepotenti e imporre il rispetto delle gride. Il discorso, accolto con entusiasmo da alcuni e scetticismo da altri, si chiude con la promessa di un nuovo appuntamento in piazza del Duomo il giorno seguente. Emergono temi minori come la diffidenza verso i "montanari", la stanchezza fisica di Renzo e il suo bisogno di cibo e riposo, nonché l’incontro con uno sconosciuto che lo conduce in un’osteria affollata, dove l’atmosfera è tesa e sospettosa. Il testo si sofferma anche sulla retorica popolare, tra proclami idealistici ("bisogna andar avanti così, fin che non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze") e pragmatismo ("non dico che deva andar lui in giro, in carrozza, ad acchiappar tutti i birboni").

Le reazioni del gruppo oscillano tra adesione entusiasta ("un grido confuso d’applausi") e critiche pragmatiche ("ogni scalzacane vorrà dir la sua"), mentre Renzo, pur stremato, mantiene una fiducia ostinata nella possibilità di un cambiamento. L’episodio si chiude con il suo ingresso in un’osteria, dove l’oste, pur apparentemente cortese, nutre diffidenza verso lo sconosciuto e il suo accompagnatore. La scena finale, caotica e rumorosa, riflette il clima di instabilità sociale: tra giochi d’azzardo, monete rubate e sguardi indagatori, si percepisce la tensione di una comunità in cui la solidarietà si mescola a interessi opachi e paure inconfessate.


19. Il banchetto delle parole e il fiasco della ragione: Renzo tra vino, gride e progetti di giustizia

Un confronto serrato tra la legge scritta e la giustizia sentita, dove il vino scioglie le lingue e i progetti utopici si scontrano con la prudenza di chi "sa come vanno le cose".


Sommario

Il blocco traccia il culmine di una serata in cui Renzo, alterato dal vino e dall’indignazione, sfida apertamente le "gride che parlan male" (1860) e i meccanismi di controllo che pretendono di "fare entrar per tutto carta, penna e calamaio" (1870). Il suo discorso, inizialmente arguto e applaudito — "ha ragione quel giovine: son tutte angherie, trappole, impicci" (1863) —, si trasforma in una satira amara contro chi "mangian l’oche" e usa le penne per "infilzar per aria" le parole dei poveri (1877), mentre i potenti le fanno "volar via, e spariscono" (1877). La beffa contro i "poeti" — intesi come "cervelli bizzarri" che stravolgono il senso delle parole (1876) — e la denuncia delle "parole in latino" usate per confondere (1878) rivelano una diffidenza radicale verso il linguaggio del potere, visto come strumento di oppressione e mistificazione.

Il tema del pane, simbolo di giustizia distribuita, emerge nel progetto dello sconosciuto (un bargello travestito): "pane per tutti, tanto per i poveri, come per i ricchi" (1883), da assegnare tramite "biglietti in proporzion delle bocche" (1887). Renzo, entusiasta, vi aderisce senza cogliere l’ironia di un sistema che, pur promettendo equità, si fonda proprio su "carta, penna e calamaio" (1889) — lo stesso apparato che poco prima aveva disprezzato. Il vino, intanto, offusca la sua lucidità: le frasi si fanno "senza misura né regola" (1903), i pensieri "s’annebbiano e svaniscono" (1904), e il discorso deraglia in invettive contro l’oste, accusato di essere "della lega" (1938), e in ricordi confusi di "ton ton ton" (1922), forse echi di violenza passata. La scena si chiude con Renzo ubriaco, trascinato a letto dall’oste che, tra minacce e ipocrisia ("per celia", 1940), lo spoglia dei soldi e lo consegna al sonno — mentre fuori la città si prepara a reprimere la rivolta con "soldatesca", "travi" e "carri" (1970).

Sfondo minore, ma persistente, è la paura dell’oste: "trecento scudi" di multa (1967) e "cinque anni di galera" (1968) pendono su chi ospita senza registrare i nomi, in un sistema dove "le gride contro gli osti contano" (1966). La sua deposizione al palazzo di giustizia svela il doppio gioco dello sconosciuto (il bargello Ambrogio Fusella) e la trappola tesa a Renzo, "un reo buon uomo, proprio quel che ci voleva" (1972). La giustizia, qui, non è un’astrazione: è "sua eccellenza" che decide "all’arbitrio" (1968), mentre i nobili sorvegliano i fornai e i soldati presidiano le strade. Il contrasto tra il sogno egalitario di Renzo — "giustizia! pane!" (1921) — e la realtà di "leggi nuove" imposte dall’alto (1863) si risolve nel grottesco: un ubriaco che "trincia saluti nell’aria" (1930) e un oste che, "con la coda dell’occhio", osserva i "gastigamatti" (1961) avanzare.


20. L’arresto di Renzo: inganni, resistenza e il gioco delle parti

Un risveglio violento e l’irruzione della giustizia nel privato.


Il blocco descrive il momento in cui Renzo viene strappato dal sonno e arrestato da un notaio e due birri, tra minacce velate e false rassicurazioni. L’azione si apre con un risveglio brusco — «Lorenzo Tramaglino!» (2002) — e la scoperta di «un uomo vestito di nero» (2003) accompagnato da armati, che impongono obbedienza con frasi secche: «Animo dunque; levatevi, e venite con noi» (2005). Renzo reagisce con sdegno, rivendicando la propria innocenza («Io sono un galantuomo: non ho fatto nulla» (2015)), ma ogni protesta viene soffocata da risposte evasive o intimidatorie («Il perché lo sentirete dal signor capitano di giustizia» (2014)). Il notaio, figura ambigua, alterna minacce («si farà così, se non vi levate subito» (2012)) a promesse di rapidità («in due parole sarete spicciato» (2015)), mentre i birri usano la forza («Meno ciarle, e fate presto» (2008)).

Il testo rivela la dinamica del potere: la giustizia agisce con prepotenza («Lo portiam via in camicia?» (2011)), ma cerca anche di mascherare la violenza con formalità ipocrite («son tutte formalità» (2054)). Renzo, pur consapevole del tranello («questa non mi va: voglio la roba mia» (2047)), viene legato con «manichini» (2052), strumenti di tortura camuffati da procedure. Il notaio, pur esperto («un furbo matricolato» (2064)), tradisce la propria ansia: teme la folla («un ronzìo crescente» (2028)) e cerca di evitare scontri, ma le sue parole — «l’onore, figliuolo» (2070) — suonano vuote. Renzo, invece, coglie l’occasione per ribellarsi, usando i cenni della strada («tossire in quel modo» (2070)) per attirare l’attenzione della gente. Il blocco si chiude con la stretta dei «manichini» (2072) e il grido di dolore di Renzo, simbolo della violenza istituzionale che si abbatte sull’individuo.


Note

Il testo si concentra su:


21. L’errore notturno e la fuga: tra paure, preghiere e un fiume salvifico

Frammento di un viaggio forzato, tra il rifiuto degli uomini e la ricerca di un rifugio che si rivela prima nel bosco ostile, poi nell’acqua che separa e insieme promette salvezza.


Sommario

Il blocco descrive un tratto di cammino notturno carico di tensione, dove il protagonista — solo, affaticato e in fuga — si muove tra campagne desolate, cascine ostili e un bosco che assume tratti minacciosi, popolato da «figure strane, deformi, mostruose» e da rumori che amplificano «quell’orrore indefinito» che lo assale. I cani che abbaiano alle porte delle case («un mugolìo [...] lamentevole insieme e minaccioso») e la diffidenza verso chi bussa di notte («Chi sente un rumore la notte, non gli viene in testa altro che ladri, malviventi») lo costringono a evitare ogni contatto umano, spingendolo verso una natura che dapprima lo respinge, poi lo accoglie con ambivalenza. La scoperta dell’Adda — «è l’Adda! [...] Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore» — segna una svolta: il fiume diventa confine da superare, simbolo di una fuga che è insieme fisica e morale, mentre il passaggio in barca verso la riva bergamasca («Terra di san Marco») sancisce un addio doloroso («Sta’ lì, maledetto paese») e un incerto inizio.

Nel rifugio precario di una capanna abbandonata, tra preghiere («disse le sue solite divozioni») e ricordi ossessivi («un andare e venire di gente [...] così affollato, così incessante»), emergono le figure care — «una treccia nera e una barba bianca» — e il peso delle colpe («la vergogna delle proprie scappate»), mentre il freddo e la fame si mescolano alla speranza di un domani meno ostile. L’alba porta con sé la conferma della salvezza («ne son proprio fuori!») e la consapevolezza di una povertà condivisa («incontrava a ogni passo poveri [...] contadini, montanari, artigiani»), ma anche la fiducia in un aiuto umano («Bortolo mi voleva bene») e divino («la Provvidenza m’ha aiutato finora»). Il viaggio si chiude con un gesto di carità («la votò di que’ pochi soldi») che sigilla, più delle parole, la ricerca di un senso in mezzo al caos.


22. La rete di intrighi e il rifugio precario: tra fughe, congetture e strategie di potere

Un groviglio di voci, timori e calcoli dove la sorte di Renzo e Lucia si intreccia con le mire di don Rodrigo, le manovre del conte Attilio e la fragilità di un asilo monacale.


Il blocco traccia due linee narrative parallele: da un lato, la diffusione di notizie frammentarie e deformate su Renzo — „aver nome Tramaglino è una disgrazia, una vergogna, un delitto“ (2352) — e la sua fuga da Milano, interpretata ora come colpa ora come vittima di un complotto „una macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo“ (2353). Le congetture si moltiplicano, ma „la cosa poi non si sa dire, o si racconta in cento maniere“ (2353), mentre il paese si divide tra chi crede alla sua innocenza e chi lo condanna. Intanto, don Rodrigo e il conte Attilio sfruttano l’assenza di Renzo — „bandito, di maniera che ogni cosa diventava lecita contro di lui“ (2358) — per accelerare i loro piani: la rimozione del padre Cristoforo, „sbrigarlo dal frate“ (2356), e l’isolamento di Lucia, „ricoverata nel tal monastero“ (2357), diventano tasselli di una strategia che si scontra però con l’inviolabilità del convento „un osso troppo duro per i denti di don Rodrigo“ (2359).

Dall’altro lato, il rifugio di Lucia e Agnese a Monza si rivela un’illusione di sicurezza. Le notizie sul tumulto milanese e sulla fuga di Renzo — „n’è scappato uno, che è di Lecco, o di quelle parti“ (2372) — giungono frammentarie, amplificate dal passaparola: „due, sei, otto, quattro, sette ne hanno messi in prigione“ (2371). La conferma che „s’era messo in salvo sul bergamasco“ (2377) porta sollievo, ma la scomparsa del padre Cristoforo — „A Rimini“ (2394) — e l’incertezza sui suoi movimenti „non si può prevedere su che ramo potrà andarsi a posare“ (2407) riaprono lo spettro dell’abbandono. Lucia, „compagnata“ dalla signora di Monza (2378), tace sulla sua storia per „non rischiare di spargere una voce così piena di dolore e di scandolo“ (2379), mentre il lavoro manuale — „cucendo, cucendo, ch’era un mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente il suo aspo“ (2383) — diventa sfogo e tormento. La decisione di Agnese di tornare al paese (per saper qualche cosa (2385)) segna un punto di rottura: la ricerca di notizie si trasforma in un viaggio verso l’ignoto, dove anche il convento, „asilo così guardato e sacro“ (2386), non basta a proteggere dalla „smania di saper (2386) e dal „dolore“ (2375) che persiste.


Note

23. Il conflitto tra fra Cristoforo e don Rodrigo: strategie di potere e mediazione ecclesiastica

Un intrigo di onore, autorità e calcoli politici tra nobiltà e clero regolare

Il blocco descrive la escalation del contenzioso tra fra Cristoforo — frate cappuccino dal carattere irrequieto e protettore della contadinotta (e del fuggitivo Lorenzo Tramaglino) — e don Rodrigo, nipote del conte zio, accusato di aver „non so che disegni“ sulla stessa ragazza. Il frate, „che l’ha preso a provocarlo in tutte le maniere“, agisce con „carità… gelosa, sospettosa, permalosa“, arrivando a „parlar di Rodrigo come si farebbe d’un mascalzone“ e „aizzargli contro tutto il paese“. La questione, inizialmente locale, rischia di diventare „un affare comune“ che coinvolgerebbe „mezzo mondo“, minacciando la „riputazione del potere“ del casato e l’onor dell’abito cappuccino.

Il conte zio, figura politica abile e „prudenza incarnata, interviene con una strategia duplice: da un lato neutralizza il frate attraverso il padre provinciale — „un provvedimento prudenziale“ che evita „punizioni“ esplicite ma allontana fra Cristoforo „in qualche posto un po’ lontanetto“ (Rimini) —; dall’altro impone a Rodrigo, „giovine, vivo“, di „non fare né più né meno“ di quanto prescritto, mascherando la mediazione come „cosa ordinaria“. Il dialogo con il provinciale rivela un gioco di „centro relazioni, cento conseguenze“ dove „tutto s’accomoda da sé“: si tratta di „sopire, troncare“ il conflitto prima che „si stuzzichi un vespaio“, usando l’autorità ecclesiastica per „levar ogni occasione“ di scandalo. La soluzione, presentata come „un viaggio e due servizi“, serve sia a „salvar l’onore di Rodrigo“ sia a „non dare ombra“ ai potenti che potrebbero „desiderare“ la rimozione del frate. Il blocco si chiude con l’esecuzione dell’ordine: fra Cristoforo, „senza saperne il perché“, parte „a piedi da Pescarenico a Rimini“, mentre Rodrigo, „intestato più che mai“, cerca alleanze ancora più pericolose. Tematiche minori includono il ruolo della „politica“ come maschera (sulla goffaggine… balenò un raggio di malizia), la „gloria dell’abito come argomento retorico (l’abito non fa il monaco), e la „propensione per i padri cappuccini“ come strumento di controllo sociale (hanno bisogno di pace, di non aver contese).


Note
  1. Le citazioni in corsivo tra virgolette sono tratte dalle frasi con identificativi: 2426 (l’ha con Rodrigo), 2429 (carità… gelosa), 2430 (non so che disegni), 2433 (ci trova più gusto), 2471 (l’abito non fa il monaco), 2480 (buon principiis obsta), 2486 (mezzo mondo), 2499 (una favilla), 2501 (da Pescarenico a Rimini).
  2. Il blocco omogeneo copre le frasi dall’identificativo 2426 al 2506, con un’appendice narrativo-descrittiva (2507-2510) che introduce il nuovo alleato di Rodrigo. La cesura è marcata dal cambio di scenario (capitolo XIX) e dall’abbandono del dialogo diretto.
  3. Il titolo riflette la centralità del conflitto (fra Cristoforo vs. Rodrigo) e dei meccanismi di potere (mediazione ecclesiastica, calcoli nobiliari), evitando riferimenti ai personaggi secondari (es. Tramaglino) o ai temi collaterali (es. la „bella impresa“ di Rodrigo).

24. La supplica e il crollo: un dialogo tra paura e pietà

Tra le mura di una stanza chiusa, una preghiera disperata si scontra con l’ombra di una redenzione inaspettata.


Didascalia

Un grido di madre e una promessa spezzata: la notte in cui la crudeltà trema davanti alla fragilità.


Sommario

Il blocco traccia il culmine di una supplica angosciosa, dove Lucia implora con insistenza „mia madre! mia madre! […] ho veduto i miei monti!“ (2677), invocando una liberazione immediata che si intreccia a offerte di preghiere eterne: „Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola?“ (2679). Le sue parole, cariche di disperazione fisica e spirituale, si alternano ai silenzi e alle esitazioni dell’Innominato, il cui conflitto interiore emerge in frammenti come „d’uno di que’ vili che mi vorrebbero morto!“ (2681) e nel gesto inaspettato di „una dolcezza che fece strasecolar la vecchia“ (2684). La tensione si concentra sulla promessa di una liberazione rinviata — „Domattina ci rivedremo“ (2688) — e sul rifiuto di Lucia, che „non vuole mangiare, non vuole dormire“ (2706), preferendo „morire“ (2691) piuttosto che accettare un sollievo temporaneo.

Accanto alla supplica, affiora il tema della paura come prigione: Lucia, „come sbalordita“ (2708), percepisce il mondo attraverso „un sentimento confuso, simile all’immagini sognate da un febbricitante“ (2708), mentre la vecchia, divisa tra compassione forzata e risentimento, maledice „le giovani, che fanno bel vedere a piangere“ (2702) e si aggrappa al „pensiero della cena“ (2707) come unica certezza. Il dialogo si chiude con la materialità della reclusione„è serrato bene?“ (2718) — e l’ironia amara di un posto buono (2724) offerto invano, mentre Lucia si rannicchia „accucciata come un cane“ (2723), rifiutando ogni consolazione. La scena si carica di un’attesa sospesa, dove anche il cibo „squisito“ (2713) e il „vino che beve il padrone“ (2714) diventano simboli di un potere che non riesce a lenire la ferita aperta della separazione.


25. La notte dell’angoscia e della redenzione

Tra le tenebre di un castello e il tumulto delle coscienze: un patto spezzato, una preghiera, il peso di una vita intera.


Sommario

Il blocco descrive due percorsi paralleli e opposti che si intrecciano nella stessa notte: da un lato, Lucia, ridotta a «prigioniera» in un «cantuccio» oscurato dal terrore, vive un «torbida vicenda di pensieri, d’immaginazioni, di spaventi» (2727) che la conducono a un gesto estremo di consacrazione. Tra «l’oscura e formidabile realtà» (2727) e i «fantasmi nati dall’incertezza» (2727), la sua mente oscilla tra la memoria degli «orrori veduti e sofferti» (2727) e la ricerca disperata di una via d’uscita, fino a quando, nel «sonno perfetto e continuo» (2736), trova un momentaneo sollievo. La preghiera — «o Vergine santissima! [...] fatemi uscire da questo pericolo» (2733-2734) — diventa il suo ultimo ancoraggio, sigillato dal voto di castità «per non esser mai d’altri che vostra» (2734), atto che trasforma la corona del rosario in «un’armatura della nuova milizia» (2734).

Dall’altro lato, l’Innominato è travolto da una crisi che smantella ogni certezza: il suo monologo interiore, frammentato e convulso, rivela il crollo di un sistema di valori fondato sulla violenza. Le domande — «Che diavolo m’è venuto addosso?» (2739), «Non son più uomo, non son più uomo!» (2747) — si susseguono senza risposta, mentre il passato riaffiora come una «successione di scelleratezze» (2756) che ora gli appare «mostruosa» (2756). Il tentativo di suicidio si arresta di fronte al «terrore» (2757) di un «cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto» (2757), e poi davanti al «dubbio» (2760) sull’esistenza di «quell’altra vita» (2760). Solo il ricordo delle parole di Lucia — «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!» (2762) — apre una breccia nella disperazione, trasformando la prigioniera in «chi dispensa grazie e consolazioni» (2764). Ma la redenzione è ancora incerta: l’alba, preannunciata dallo «scampanare a festa» (2770), giunge mentre entrambi, ciascuno a suo modo, attendono «il giorno» (2735) come una promessa o una condanna.


Note

Frasi chiave per la delimitazione tematica
Temi minori emersi

26. Federigo Borromeo: ritratto di un’eccezione tra virtù e azione

Un uomo che fece della coerenza un metodo, della carità un sistema, della cultura un lascito.

Il blocco descrive la figura di Federigo Borromeo (1564–1631) come modello di integrità morale e intellettuale, tracciandone il percorso dalla giovinezza alla maturità attraverso scelte radicali: la rinuncia agli agi, la dedizione al servizio ecclesiastico, la fondazione dell’Ambrosiana, la carità senza compromessi. Emergono temi minori come il conflitto con le convenzioni sociali („non credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero [...] che avvilisse così la dignità della casa“), la critica all’ipocrisia („le parole ch’esprimono quel sentimento [...] saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di disinteresse“), e la tensione tra rigore etico e pragmatismo („quattromila scudi, perché una giovine non fosse fatta monaca“). La narrazione alterna lodi per la sua „bellezza senile“ e la „soavità dei modi“ a note di realismo: le „opinioni [...] che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane“, l’oblio delle sue „cento opere“ nonostante „tanto ingegno, tanto studio“. Il culmine è l’incontro con l’Innominato, dove la „superiorità“ di Federigo si rivela nella capacità di „fare amare“ la virtù senza imporla, „abbattendo“ l’orgoglio „senza prenderlo di fronte“. Il blocco si chiude con un paradosso: un uomo „ammirabile in complesso“ le cui scelte „difficili a trovarsi insieme“ — umiltà e autorità, austerità e liberalità, azione e contemplazione — restano „singolari“ anche nella loro ambiguità storica.


Il sommario si basa su citazioni tratte dalle frasi con identificativi:


27. La redenzione e il timore: l’innominato, Lucia e il viaggio di don Abbondio

Tra pentimento e paura, un incontro di destini nel segno della misericordia.


Sommario

Il blocco narra il momento cruciale in cui l’innominato, dopo aver confessato al cardinale Federigo Borromeo le violenze subite da Lucia, si converte e diventa strumento della sua salvezza. Le frasi tracciano un percorso di trasformazione: dall’ira all’umiltà, con l’innominato che implora perdono („Dio vi benedica!“; „far che possiate diventare strumento di salvezza“) e si prepara a restituire Lucia al suo paese. Il cardinale, figura di guida spirituale e pratica, organizza con sollecitudine la liberazione della giovane, coinvolgendo don Abbondio — riluttante e terrorizzato — e una donna di fiducia incaricata di accompagnarla („una donna di cuore e di testa, da sapersi ben governare“).

Emergono due temi minori: la paura di don Abbondio, che vede nell’innominato un pericolo nonostante la conversione („Bel cilizio, bella disciplina da convertito!“; „Oh che spedizione!“), e il contrasto tra apparenza e realtà, evidenziato dallo stupore del clero („il lupo e l’agnello andranno ad un pascolo“) e dalla diffidenza del curato, incapace di credere al cambiamento („Delle dimostrazioni se ne fanno tante a questo mondo“). La scena si chiude con la partenza verso il castello, dove l’innominato — armato della sua carabina, gesto che angoscia don Abbondio — si appresta a compiere l’atto riparatore. La folla, un tempo terrorizzata, ora accoglie con „mormorìo quasi d’applauso“ la sua figura redenta, mentre il curato, in preda all’ansia, si aggrappa a dettagli pratici („mi dia almeno una bestia quieta“) per distrarsi dal timore.


Note

28. La redenzione e il ritorno: tra misericordia, timori e voti nascosti

Un viaggio di liberazione, un patto con il cielo e le ombre di chi resta intrappolato tra paura e dovere.

Il blocco narra il tragitto di ritorno di Lucia, affiancata dalla donna mandata dal curato e da don Abbondio, dopo la conversione dell’Innominato: un percorso fisico e interiore dove la salvezza si intreccia con lo smarrimento. La lettiga diventa spazio di confidenze e scoperte — la buona donna rivela a Lucia come l’Innominato, „Dio gli ha toccato il cuore“, si sia pentito e abbia orchestrato la sua liberazione su ordine del cardinale, mentre don Abbondio, „più sensibile a tutto il resto“, è tormentato da paure future e dal disagio del viaggio. Lucia, „come estatica“, oscilla tra sollievo (oh misericordia!) e il peso di un voto segreto alla Madonna, „promessa fatta nell’angoscia“, che riaffiora come un debito morale inespugnabile. La scena domestica presso il sarto — „la benedizione del cielo in questa casa“ — offre un rifugio temporaneo, dove la carità concreta (un piatto di vivande… un fiaschetto di vino) e la predica del cardinale (la disgrazia non è il patire, è il far del male) ridisegnano per un istante i confini tra sventura e grazia. Ma il patto con Dio, „confermato con dolcezza e tremore“, e l’assenza di Renzo, „lontano, senza probabilità di ritorno“, proiettano ombre sul futuro: Lucia „si studiava di trovar nella Provvidenza la ragione d’esser contenta“, mentre Agnese, „ah anima nera! ah tizzone d’inferno!, maledice don Rodrigo, e don Abbondio, „come se fosse messo a leva per di dietro“, si abbandona a un monologo di paure (i colpi cascano sempre all’ingiù). La visita del cardinale — „Dio ha permesso che foste messa a una gran prova“ — chiude il cerchio: la misericordia si rivela opera collettiva, ma i nodi irrisolti (il voto, Renzo, la vendetta di don Rodrigo) restano sospesi, „come il vincitore stanco… di sopra il nemico abbattuto“.


29. Separazioni e disegni nascosti: tra speranze materne e progetti altrui

Un intreccio di silenzi, propositi contrastanti e l’ombra di un futuro incerto, dove la pietà si mescola a calcoli non detti e la provvidenza diventa rifugio o pretesto.


Il blocco traccia un momento di transizione in cui le vite di Agnese e Lucia si dividono lungo linee invisibili ma nette: la prima proietta nel futuro la possibilità di un ricongiungimento con Renzo, nutrito da “congetture allegre” e dalla fiducia che “se [egli] stava fermo nelle sue promesse, perché non si potrebbe andare a star con lui?” (3220-3221). La figlia, invece, “s’era abbandonata alla Provvidenza” (3222), celando un “gran segreto” che la lega a un passato di “timore e vergogna” (3222) e a un presente in cui “non rispondere, o risponder secco secco” (3236) diventa scudo contro le domande. Il dialogo tra loro si consuma in “discorsi tanto più tristi, quanto più affettuosi” (3219), dove il pianto “viene opportunamente a troncar le parole” (3223) e la separazione imminente — “la pecora non poteva tornare a star così vicino alla tana del lupo” (3219) — si carica di un’urgenza mai esplicitata.

Sullo sfondo, i disegni di donna Prassede si intrecciano a quelli del cardinale, entrambi mossi da intenti apparentemente benevoli ma segnati da ambiguità. La gentildonna, “molto inclinata a far del bene” (3227), vede in Lucia un’“opera tale” da “raddirizzare un cervello” (3233), persuasa che “tutte le sciagure di Lucia [siano] una punizione del cielo” (3237) per la sua vicinanza a un “poco di buono”. Il suo “studio di secondare i voleri del cielo” (3237) si traduce in un’“superiorità quasi innata” (3232) che mascherà le reali intenzioni dietro “gentilezze e promesse” (3240), mentre il cardinale, pur accogliendo l’offerta, “non era suo costume di disfar le cose che non toccavano a lui” (3247). La lettera di donna Prassede — “distesa da don Ferrante” (3241) con “tutto il suo sapere” (3241) — diventa così strumento di un destino che si scrive altrove, tra “cerimoniale” (3243) e “titoli da dargli” (3243), mentre il paese intero “le condusse a casa, come in trionfo” (3249), ignaro che “il giorno dopo” (3250) Lucia sarebbe partita nuovamente.

Il tema minore della paura come motore di azioni e omissioni emerge sia nei “timori” (3222) di Lucia, sia nella “prudenza” (3258) di don Abbondio, che “tace il nome principale” (3258) pur di “non rimestare” (3257) un passato che lo incrimina. La sua “debolezza” (3281) — “il coraggio, uno non se lo può dare” (3277) — si scontra con la “dottrina” (3263) del cardinale, per cui “soffrire per la giustizia è il nostro vincere” (3272). Qui, il conflitto tra “amore della vita” (3266) e “dovere” (3262) diventa specchio di una tensione più ampia: quella tra “le passioni del secolo” (3277) e un “vangelo” (3266) che, “di superbia e d’odio” (3266) o di carità, pretenderà sempre un conto.


30. La peste, la guerra e il saccheggio: Milano tra epidemia, carestia e invasione dei lanzichenecchi

Dalla chiusura del lazzeretto alla calata dell’esercito alemanno: miseria, violenza e abbandono delle istituzioni.

Il blocco descrive la fine della peste a Milano, segnata dalla riapertura del lazzeretto e dal progressivo esaurirsi dell’epidemia, ma anche dall’emergere di nuovi flagelli: la carestia, la guerra e l’invasione dei lanzichenecchi. Le frasi tracciano un arco che va dalla „gioia furibonda“ dei poveri liberati dal lazzeretto (3521) alla „munizione solita“ di sassi e torsoli scagliata contro don Gonzalo (3538), simbolo dell’odio popolare per un governatore associato a „la carestia“ e „il sangue de’ poveri“. La narrazione si sofferma sulla „smania“ di don Gonzalo „d’acquistarsi un posto nella storia“ (3532), contrastata dall’indifferenza della folla e dall’incapacità delle autorità sanitarie di impedire il passaggio dell’esercito alemanno, nonostante gli avvertimenti sul „spaventoso pericolo“ della peste (3532). Il tema minore della corruzione militare emerge nelle „speranze del saccheggio“ (3541) e nella „licenza“ dei soldati (3542), mentre la descrizione delle „otto giornate“ di devastazione (3544) culmina nelle „astuzie inutili“ dei contadini (3546) e nel „nuovo maledetto batter di cassa“ (3547) che annuncia l’arrivo di nuove squadre. Il blocco si chiude con lo „spavento“ di don Abbondio (3549), paralizzato tra „ostacoli insuperabili“ (3550) e la „burrasca“ del lago (3552), mentre Perpetua, pragmatica, lo accusa di „impedire“ (3556) invece di agire.


Sommario

Il testo dipinge un quadro di disfacimento sociale e istituzionale, dove la fine della peste non porta sollievo ma rivela altre piaghe: la „mortalità“ che „si prolungò fin nell’autunno“ (3524), la „fame“ attribuita a don Gonzalo (3535) e l’„esercito“ che „aveva desolata la Germania“ (3543) e ora avanza „per otto giornate“ (3544) nel ducato di Milano. Le autorità appaiono impotenti: il tribunale della sanità, pur consapevole del „pericolo“ (3532), non riesce a imporre „severissime pene“ (3533) per evitare il contagio; don Gonzalo, „sbalordito“ (3537), subisce „fischiate“ (3536) e „sassi“ (3538) senza reagire; il suo successore, Spinola, arriva quando „l’esercito alemanno“ (3540) ha già invaso il territorio. La violenza dei lanzichenecchi è metodica: „ciò che c’era da godere o da portar via, spariva“ (3545), „i mobili diventavan legna“ (3545), e „con tortura“ si estorce „il tesoro nascosto“ (3546). Il saccheggio è „un supplimento tacitamente convenuto“ (3542), frutto di „paghe“ „tarde, a conto, a spizzico“ (3542) e di una „disciplina“ inesistente (3541). Sullo sfondo, le „voci“ che „passavan di bocca in bocca“ (3549) — „son diavoli, sono ariani, sono anticristi“ — alimentano il panico collettivo, mentre don Abbondio, „mezzo fuor di sé“ (3553), incarna la paralisi di fronte a „pericoli spaventosi“ (3550). Perpetua, „affannata“ (3553), rappresenta l’istinto di sopravvivenza che contrasta con l’inerzia del curato, il quale invoca aiuto „con una voce mezza di pianto“ (3557) e si aggrappa all’idea del „martirio“ (3560) come a una scusa per la propria inazione. Il blocco si chiude con l’immagine di una „quiete spaventata“ (3547) interrotta dal „suon di trombe“ (3547), preludio a nuove devastazioni.


31. L’incontro al villaggio: rimproveri, rifugio e la redenzione dell’Innominato

Un momento di sosta tra fughe e timori, dove le tensioni personali si intrecciano con la curiosità per un passato violento ora redento.


Sommario

Il blocco descrive un episodio di transito e confronto tra don Abbondio, Perpetua, Agnese e i coniugi sarti, durante una fuga verso il castello dell’Innominato. Le frasi iniziali rivelano un clima di reciproche accuse: don Abbondio rimprovera aspramente Perpetua per le scelte compiute, mentre lei reagisce con risentimento, ricordando come «era lei che me la faceva andar via, la testa, in vece d’aiutarmi e farmi coraggio!». Agnese, oppressa dal dolore per la lontananza di Lucia, piange «un dirotto pianto, che le fu d’un gran sollievo», e il suo dispiacere si acuisce al vedere i luoghi che le rammentano la figlia, «la povera donna era venuta riconducendo, per così poco tempo, a casa la figlia».

La sosta presso il sarto offre un momentaneo rifugio, contraddistinto da gesti di ospitalità spontanea: si «accozz[ano] il pentolino» per un pasto frugale, arricchito da «castagne primaticce» e «quattro [peschi] de’ più maturi», mentre i bambini si radunano intorno ad Agnese. Il dialogo scivola poi sulla figura dell’Innominato, la cui conversione è oggetto di ammirazione e scetticismo: il sarto ne loda «la santa vita», descrivendolo come «l’esempio e il benefattore» di un territorio un tempo terrorizzato, mentre don Abbondio, pur dubbioso, ne riconosce la fama di «bravo signore». Si accenna anche al cardinale, «grand’uomo!», la cui visita ha lasciato traccia in una stampa «in venerazione del personaggio», seppur giudicata poco somigliante.

Il tema minore della paura collettiva emerge nelle battute sul castello, presentato come «sicuri come in chiesa», e nelle riflessioni sull’Innominato, la cui «mansuetudine presente» ha disarmato i rancori: «era quell’uomo che nessuno aveva potuto umiliare, e che s’era umiliato da sé». La sua trasformazione, da «flagello de’ contorni» a penitente inviolato, suscita «un’ammirazione, che gli serviva principalmente di salvaguardia», tanto che «offender poi quell’uomo [...] poteva parere [...] un sacrilegio». Il blocco si chiude con l’avvio del viaggio verso la salita, mentre il sarto conferma la verità sulla redenzione dell’Innominato, «che aveva sempre continuato a far [...] del bene».


32. Il contagio e il delirio: dalla scoperta della peste alle unzioni velenose

La peste entra a Milano tra negazioni, sospetti e violenze collettive.

Il blocco descrive l’irrompere del morbo nel milanese, dapprima negato con ostinazione, poi riconosciuto tra paure e accuse. Si snoda dalla scoperta dei primi casi — segnalati da medici come Lodovico Settala e ignorati dalle autorità — alla diffusione incontrollata del contagio, alimentata da ritardi, inerzia e superstizioni. Il testo mostra come la popolazione, invece di adottare misure razionali, si aggrappi all’idea di un complotto: gli untori, presunti diffusori di veleni, diventano capri espiatori di una calamità che sfugge a ogni controllo. Le istituzioni, divise tra scetticismo e tentativi tardivi, cedono il passo al caos, mentre la folla, accecata dal terrore, si scaglia contro innocenti in una caccia alle streghe che aggrava il disastro. Il blocco culmina con la processione di san Carlo, evento che, lungi dal placare la peste, ne accelera la propagazione e radicalizza la paranoia collettiva.


Il sommario evidenzia due temi minori ma ricorrenti: l’impotenza delle autorità — che oscillano tra negazione (quel che è andato è andato, 3739) e provvedimenti inefficaci (le bullette […] non furono pubblicate che il 29 [novembre]“, 3768) — e la strumentalizzazione del contagio da parte di birboni (3738) e monatti (3888), che sfruttano il disordine per rapine e abusi. Le citazioni chiave sottolineano la progressione del panico:

La narrazione si chiude con l’ironia tragica della processione — la pietà cozzar con l’empietà (3864) — che, invece di salvare Milano, ne precipita la rovina, mentre la folla, persuasione generale (3862), preferisce incolpare gli untori piuttosto che ammettere l’evidenza del contagio.


33. Il ritorno di Renzo: desolazione, incontri e una terra che non c’è più

Un uomo tra le macerie di ciò che fu, dove ogni passo risveglia spettri e assenze.

Il blocco descrive il ritorno di Renzo al suo paese natale durante la peste, un luogo ormai irriconoscibile, svuotato degli affetti e segnato dalla devastazione. L’incontro con figure un tempo familiari — Tonio, ridotto a «un piccolo e velato germe di somiglianza» con il fratello scemo, e don Abbondio, «pallido e smunto», sopravvissuto «per miracolo» — rivela come il morbo abbia cancellato non solo i corpi, ma anche la ragione e la memoria. Le domande di Renzo su Lucia, Agnese e padre Cristoforo («Si sa niente di Lucia?», «È andata a starsene nella Valsassina»; «È andato via che è un pezzo») si scontrano con risposte che sono moniti: «non c’è più nessuno, non c’è più niente», «fate a modo d’un vecchio che è obbligato ad averne più di voi». Il paese è una trappola («in bocca al lupo»), e persino il curato, pur esortandolo a fuggire («legatevi le scarpe bene, e [...] tornate di dove siete venuto»), non può nascondere la propria paura di essere coinvolto in una nuova rovina («volete rovinarvi voi, e rovinarmi me»).

La desolazione culmina nella visita alla vigna e alla casa: la prima è un «guazzabuglio» di «erbacce» e «piante selvatiche» che soffocano «i vestigi dell’antica coltura», simbolo di un ordine perduto; la seconda, ridotta a «sudiciume» e «letto de’ lanzichenecchi», non è più un rifugio ma una tomba. Renzo, che «non si curava d’entrare», si trova di fronte a una terra che «non fa il diavolo come qui» e a una comunità che «non c’è più». Le sue esclamazioni — «poverino! poverina!», «tanto n’avevo a non movermi» — sottolineano l’impotenza davanti a un lutto che non è solo personale, ma collettivo: «la fine del mondo» sembra l’unico esito possibile per chi «non metton giudizio». Il blocco si chiude con la sua decisione di cercare riparo altrove, in una casa di contadini sterminati, dove anche l’amicizia d’infanzia è ormai un ricordo.


34. Milano in tempo di peste: incontri, orrori e una città disumana

Un frammento di desolazione e terrore, dove la paura del contagio cancella ogni traccia di umanità e la morte diventa spettacolo quotidiano.


Sommario

Il blocco descrive un Milano devastato dalla peste, dove la solitudine e la violenza si intrecciano con gesti di pietà isolati. Renzo, forestiero in una città diventata irriconoscibile, si muove tra strade deserte, cadaveri abbandonati e carri funebri che trascinano corpi ammassati come un gruppo di serpi che lentamente si svolgano. La diffidenza regna sovrana: gli abitanti si evitano, le porte sono inchiodate e sigillate, i sospetti si trasformano in accuse (untori), e persino i barbieri diventano nemici dopo l’arresto di „Giacomo Mora, nome che [...] conservò una celebrità municipale d’infamia“. Le misure estremetorture erette nelle piazze, ordini arbitrari, polveri venefiche — si rivelano tanto crudeli quanto inefficaci, mentre la folla, insalvatichita, dimentica ogni cura di pietà, ogni riguardo sociale.

Tra gli orrori, emergono sprazzi di umanità: una madre affamata che supplica aiuto per i suoi figli (questi poveri innocenti moion di fame), Renzo che dona i due pani trovati per caso, un prete che indica una strada pur tenendosi a distanza. Ma la paura domina tutto: si cammina con un bastone o una pistola, si evitano gli svolazzi dei vestiti, si portano pasticche odorose al naso. La città è un labirinto di morte, dove persino il silenzio è rotto solo da rumor di carri funebri, lamenti di poveri, urli di frenetici. L’apice del dolore è una donna che depone una bambina morta, tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, in un gesto che unisce tenerezza e disperazione: „addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme“.

Il testo alternerà rabbia e rassegnazione, sospetto e compassione, in un paesaggio dove la civiltà è crollata e ogni incontro può essere l’ultimo.


35. L’incontro al lazzeretto: tra miseria e ricerca

Un luogo di dolore e speranza, dove la peste cancella ogni ordine e la pietà si scontra con l’abbandono.

Il blocco descrive l’ingresso di Renzo nel lazzeretto di Milano, un recinto sovraffollato da sedicimila appestati, dove la morte e la disperazione si mescolano a gesti di carità estrema. Il giovane, guidato da un «tratto speciale della Provvidenza» (4225), vi giunge dopo aver sfuggito ai monatti, e si trova di fronte a una scena «indescrivibile» (4227): corpi accatastati, frenetici in preda al delirio, convalescenti e cadaveri confusi sotto i portici. L’orrore è accentuato dall’atmosfera opprimente — «un calore morto e pesante» (4238) — e dal «brulichìo» (4228) di chi, «uscito di là per disperazione» (4228), non ha più forze per andare oltre. Tra le capanne, Renzo cerca Lucia, ma trova solo «volti abbattuti dal patimento, o contratti dallo spasimo, o immobili nella morte» (4234), finché non scopre un «spedale d’innocenti» (4241) dove bambine e capre allattano i neonati orfani, in un grottesco intreccio di «carità spontanea» (4242) e abbandono. Il culmine è l’incontro con padre Cristoforo, ridotto a «una natura esausta» (4253), ma ancora animato da «un fuoco più ardente» (4257) negli occhi: un confronto che rivela tanto la devastazione fisica del frate quanto la persistenza del suo spirito.

Il testo alterna la descrizione collettiva della sofferenza — «centinaia e centinaia peggiorar precipitosamente» (4240) — a dettagli individuali che umanizzano il caos: la balia «tutta accorata» (4243) che cerca una capra per sostituirsi, il frenetico che «martellando il collo» (4230) al cavallo fugge inseguito dai monatti, il «meschino» (4229) che canta «villanelle» (4229) nel fossato. La tensione tra pietà e indifferenza emerge nei «ministri» (4236) che servono «per un principio [...] opposto», mentre la natura, «immota al di fuori» (4240), sembra partecipare all’oppressione. L’incontro con padre Cristoforo chiude il cerchio: il frate, «richiamato» (4251) per «dar la sua vita per il prossimo» (4250), incarna la resistenza della fede in un luogo dove «il patire e il morire» (4240) sono l’unica legge.


36. Il voto spezzato: tra fede, amore e la prova del dolore

Un giuramento notturno, un amore ostacolato, e la fede che si fa scudo contro il mondo.

Il blocco traccia il conflitto tra Renzo e Lucia, divisi da un voto pronunciato in un momento di terrore e ora interpretato come un ostacolo insormontabile al loro futuro. Lucia, aggrappata alla promessa fatta alla Madonna durante la notte della minaccia («“Se la Madonna avesse parlato, oh, allora!”»), respinge ogni tentazione di venire meno al giuramento, anche di fronte alle suppliche di Renzo, che invoca la ragionevolezza («“Promettetele che la prima figlia che avremo, le metteremo nome Maria: ché questo son cose che fanno ben più onore alla Madonna”»). Il dialogo si fa acceso: lei accusa Renzo di volerla «far peccare», lui la supplica di non «condannarlo a essere arrabbiato per tutta la vita», mentre entrambi si aggrappano a figure di autorità — il padre Cristoforo, la madre Agnese — per legittimare le proprie posizioni. Emergono temi minori: la penitenza e il perdono («“Se io fossi morta quella notte, non gli avrebbe dunque potuto perdonare?”»), la solitudine nel dolore («“Ci rivedremo lassù: già non ci si deve star molto in questo mondo”»), e la ricerca di un senso nel caos della peste, dove anche la fede diventa terreno di scontro. Il blocco si chiude con l’arrivo del padre Cristoforo, invocato come arbitro, mentre la tempesta — naturale e interiore — si addensa.


Note

Il blocco si colloca in un contesto di epidemia (la «peste»), dove la precarietà della vita esacerba le tensioni morali. Le citazioni in corsivo sono tratte dalle frasi con identificativi: 4403, 4405, 4409, 4410, 4433, 4445, 4451. La struttura dialogica domina il testo, con scambi serrati e interruzioni che riflettono l’urgenza emotiva. La «donna del lettuccio» (4458-4461) funge da testimone muta del conflitto, mentre la sua storia personale — perdita della famiglia, accoglienza di Lucia — offre un controcanto alla solitudine dei protagonisti. Il riferimento al «lazzeretto» e alla «capanna» ancorano la scena a uno spazio di isolamento forzato, dove le regole sociali sono sospese e la sopravvivenza si misura anche nella capacità di mantenere o tradire le promesse.


37. Lo scioglimento del voto: fra Cristoforo, Lucia e la grazia della riconciliazione

Tra promessa e redenzione, quando la Chiesa restituisce un futuro

Il blocco narra il dialogo tra fra Cristoforo, Lucia e — indirettamente — Renzo, incentrato sul voto di castità fatto dalla giovane durante una «gran tribolazione» e sulla sua successiva assoluzione. Il frate, invocando l’autorità ecclesiastica, «scioglie» Lucia dall’obbligo «annullando ciò che ci poté essere d’inconsiderato», riaprendo così la strada al matrimonio con Renzo. Emergono temi minori: la tensione tra volontà individuale e doveri morali («non potevate offrirgli la volontà d’un altro»), la paura del peccato («tornare indietro, pentirsi d’una promessa»), e la funzione consolatoria della fede, che trasforma «travagli e miserie» in «allegrezza raccolta». Il frate donerà a Lucia una scatola con «il resto di quel pane... il primo che ho chiesto per carità», simbolo di povertà e carità, mentre la vedova che ha accolto Lucia si offre di «farle io il corredo», siglando un patto di solidarietà femminile. La scena si chiude con la separazione: fra Cristoforo benedice i due promessi sposi, ma declina l’invito a rivedersi («Lassù, spero»), mentre Renzo, «non trovando parole», lascia il lazzeretto tra «un movimento straordinario» di monatti e convalescenti.

Il sommario evidenzia come il voto — «fatto alla Madonna... in una gran tribolazione» — venga ricondotto alla sfera umana attraverso la mediazione del frate, che ne «gradisce l’intenzione» ma ne «libera» Lucia per «maggior bene». La riconciliazione non è solo con Renzo, ma con un disegno divino che «unisce» le vite «per disporvi a una allegrezza tranquilla». Le esitazioni di Lucia («Ho fatto male?») e il rossore improvviso tradiscono un conflitto interiore tra devozione e desiderio, risolto solo quando il frate afferma che «Dio non v’abbia a voler separati». La scatola del pane e l’invito a «perdonare sempre, sempre! tutto, tutto!»— rivolto ai futuri figli — estendono la portata del perdono oltre il personale, proiettandolo in una dimensione collettiva e temporale. La vedova, figura marginale ma decisiva, incarna la «carità» che «sa mostrarsi padre anche ne’ flagelli», mentre il lazzeretto, scenario di «dolori», diventa lo sfondo di una rinascita. L’addio di fra Cristoforo, carico di «tono serio e dolce», suggella il passaggio da una prova individuale a una speranza condivisa, dove «preghin per lui» diventa il legame tra chi parte e chi resta.


38. Progetti e rinascite: il ritorno a una vita possibile

Tra speranze concrete e ferite ancora aperte, il futuro si costruisce con mani operose e parole sospese.


Sommario

Il blocco descrive un momento di transizione in cui i personaggi, sopravvissuti a una crisi collettiva, tracciano piani per ricominciare. Al centro vi è il dialogo tra Renzo e Agnese, seduti „su due panche, l’una in faccia all’altra, che paion messe apposta“, dove si alternano „racconti, domande, spiegazioni, esclamare, condolersi, rallegrarsi“ e progetti concreti: stabilirsi „in quel paese del bergamasco“ non appena la peste lo permetterà, con Renzo che „farebbe spesso qualche altra corsa a Pasturo“ per aggiornare la madre. Il denaro, „cinquanta scudi belli e lampanti“, simbolo di un voto mantenuto e di una promessa di stabilità, viene offerto e rifiutato con pragmatismo: „i vostri, serbateli, che saran buoni per metter su casa“.

Il testo si sofferma poi sulla lenta ripresa del paese, dove „i rimasti vivi cominciavano a uscir fuori, a contarsi tra loro“, e i lavori „si ravviavano“ tra case vuote e prezzi bassi. Renzo, „come morti resuscitati“, evita il suo podere „troppo arruffato“ e si dedica all’orto di Agnese, mentre il bando contro di lui „rimaneva senza effetto“, „come palle di schioppo che, se non fanno colpo, restano in terra“. Le attese si consumano in domande ripetute — „Credete voi che verrà presto?“— e in preparativi: Agnese „lavorando ingannava il tempo“ per il corredo di Lucia, „allestito da un’anima buona“ dopo il saccheggio, e Renzo „non ci metteva neppure i piedi“ nella sua vecchia casa, „desolazione“ da vendere.

Emergono temi minori: la morte di padre Cristoforo, „con più dolore che maraviglia“; la sorte della „sciagurata“ di Monza, il cui „supplizio volontario“ spiega „misteri“ passati; la fine di don Ferrante, „eroe di Metastasio“ che nega il contagio „con ragionamenti“ fino a soccombere, e la cui „famosa libreria“ giace dispersa. Le „furberie“ per „far passare il tempo“ si intrecciano con la certezza che „quel tanto che ne potrebbe ricavare“ servirà „nella nuova patria“, mentre il passato — „don Rodrigo, il cardinale, il corredo portato via“ — si chiude in frasi che oscillano tra rassegnazione e fiducia: „gli angioli“ hanno vegliato „questa volta“.


39. La liberazione e il nuovo inizio: giustizia, perdono e un futuro inaspettato

Dopo la tempesta: un bilancio di colpe, fortune e riparazioni

Il blocco descrive il momento in cui la comunità, e in particolare don Abbondio, Renzo, Lucia e Agnese, fanno i conti con la scomparsa di don Rodrigo, simbolo di un’oppressione finalmente conclusa grazie alla peste, definita come una «scopa» che «ha spazzato via certi soggetti, che [...] non ce ne liberavamo più». La morte del tiranno viene accolta con sollievo, quasi come un atto di «Provvidenza» che «arriva alla fine certa gente», mentre emergono riflessioni amare sulla fragilità umana: «i birboni posson morire; della peste si può guarire; ma agli anni non c’è rimedio». Il dialogo rivela anche tensioni irrisolte, come i rimproveri velati di don Abbondio verso Agnese e Lucia, accusate di «birbonate» e «tiri», e la diffidenza di Renzo verso il «latino birbone [...] che viene addosso a tradimento», memoria dei vecchi inganni. La scena si chiude con l’arrivo inaspettato del marchese, portatore di una proposta di risarcimento economico e di un’intercessione per cancellare la «cattura» che grava su Renzo, segnalando così una svolta concreta: «la carità più fiorita [...] è di cavarli da quest’impiccio, comprando quel poco fatto loro». Il blocco si articola quindi attorno a tre nuclei: la liberazione da un passato di soprusi, la negoziazione di un futuro attraverso atti di carità e perdono, e la persistenza di piccole meschinità umane anche nella gioia.

Il tono oscilla tra l’ironia — «se la peste facesse sempre [...] le cose in questa maniera, sarebbe peccato il dirne male» — e la commozione per gesti come la visita del marchese, che «parlò del cardinale arcivescovo» e offrì aiuto senza condiscendenza. Le dinamiche sociali restano evidenti: don Abbondio, pur gongolante, non manca di calcolare vantaggi personali («acquistare nella mia cura un compadrone come il signor marchese»), mentre Renzo e Lucia, pur grati, avvertono l’assenza di «padre Cristoforo», a sottolineare che la giustizia terrena, pur necessaria, non basta a sanare ogni ferita. Il blocco si chiude con la preparazione delle nozze e la partenza verso una «nuova patria», dove i «quattrini» portati via da Renzo diventano simbolo di una ricchezza guadagnata a caro prezzo, ma anche di «progetti» e «riflessioni» su come farli fruttare: «era come se ci si fossero incontrate due accademie del secolo passato». La peste, insomma, ha spazzato via non solo i malvagi, ma anche le certezze, lasciando spazio a un futuro da ricostruire tra pragmatismo e memoria.