Porto Marghera - Sentenza 15 Dicembre 2004 - Lettura (30d)
//: t 1.0
Blocco 1: Processo penale per le morti da cloruro di vinile monomero a Porto Marghera
Caso giudiziario sulle responsabilità datoriali per omicidi colposi e lesioni da esposizione professionale al CVM.
Il procedimento penale, originato da esposti di Gabriele Bortolozzo, verte sulle condotte omissive della Montedison e poi di Enichem nella prevenzione delle patologie da CVM-PVC tra i lavoratori del petrolchimico di Porto Marghera. L’accusa contesta "lesioni e omicidio colposo plurimi anche come conseguenza della omissione dolosa di cautele" e "disastro innominato per la gravità e l'estensione del pericolo per la collettività operaia", ricomprendendo in un unico disastro condotte protratte per trent'anni. Viene affrontato l’accertamento del nesso causale tra l'esposizione a CVM-PVC e l'insorgenza di tumori, con particolare riferimento agli studi di Viola e Maltoni che per primi segnalarono la cancerogenità. Le difenze sottolineano come "l'unico organo bersaglio del CVM è il fegato e l'unico tumore associabile è l'angiosarcoma epatico", contestando la sufficienza degli studi epidemiologici a provare il nesso di causalità per altri tumori e evidenziando gli interventi impiantistici che avrebbero ridotto le concentrazioni "dai 500 ppm degli anni 50-60 sino a raggiungere nel 1975 concentrazioni al di sotto del valore soglia". Vengono analizzate le monografie IARC e gli studi epidemiologici successivi, incluso quello multicentrico europeo di Simonato, che conferma l’associazione con i tumori epatici ma non con polmoni, cervello e sistema emolinfopoietico.
//: t 2.1
Blocco 2: Dibattimento sulla cancerogenicità del CVM e nesso causale in ambito processuale
Analisi giudiziaria delle prove scientifiche e dell'accertamento del nesso di causalità tra esposizione professionale a cloruro di vinile monomero (CVM) e insorgenza di patologie tumorali.
Il sommario affronta la valutazione, in sede processuale, della capacità lesiva del CVM, con particolare riferimento alla relazione dose-risposta e alla dimostrabilità del nesso causale. Viene riportato che "l'idoneità lesiva del c v m si è rivelata ad alte o elevatissime dosi mentre non sussiste la prova di una efficienza lesiva anche a basse dosi", evidenziando come i casi di angiosarcoma e di epatocarcinoma si siano verificati esclusivamente in lavoratori esposti ad alte concentrazioni negli anni '50 e '60. Viene discusso il principio per cui "le incertezze della scienza in proposito o le mere ipotesi o i postulati fondati su preoccupazioni cautelative... non apportano nessun dato di conoscenza utilizzabile in ambito processuale", sottolineando l'obbligo di attenersi a fatti accertati. L'analisi si estende alla critica dell'approccio accusatorio, definito come "la strategia 'della massificazione degli eventi e delle condotte'", e all'esclusione del ricorso alla teoria dell'aumento del rischio nel nesso causale, poiché "non essendo possibili ibride commistioni di elementi di carattere soggettivo". Vengono esaminati i temi minori della plausibilità biologica, della presenza di fattori di rischio confondenti e della concausalità, concludendo che una spiegazione causale è sostenibile solo per gli angiosarcomi, specifiche epatopatie e le sindromi di Raynaud o acrosteolisi, tutte correlate a elevate esposizioni storiche.
//: t 3.2
Blocco 3: Appello contro l'assoluzione per violazione delle norme di sicurezza sul lavoro e omissione di cautele antinfortunistiche
Ricorso per cassazione avverso sentenza di assoluzione: violazione degli obblighi di sicurezza, mancata adozione di cautele e omissioni nella prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Il ricorrente contesta l'assoluzione degli imputati per i reati di cui all'art. 437 c.p. e alle norme speciali in materia di sicurezza sul lavoro. Sostiene che il Tribunale abbia erroneamente escluso la sussistenza del reato, non considerando che "l'interprete non è autorizzato, sia dal dato testuale della norma sia dalla ratio complessiva, ad introdurre elementi restrittivi tali da costituire insidiosi svuotamenti della norma". Afferma che le condotte omissive contestate – tra cui il mancato blocco degli impianti obsoleti, l'omessa installazione di sistemi di sicurezza e l'inosservanza degli obblighi di informazione – erano dirette a "vanificare la sicurezza dei prestatori di lavoro nell'esercizio dell'attività in termini prevenzionistici e antinfortunistici". Il ricorrente evidenzia come il Tribunale abbia trascurato elementi probatori fondamentali, tra cui le conoscenze sulla tossicità e cancerogenicità del CVM-PVC note fin dagli anni '60, documentate da studi internazionali e da un "patto di segretezza tra europei ed americani la volontà di mantenere occulta la notizia". Viene inoltre denunciata l'inadeguatezza del sistema di monitoraggio ambientale, con gascromatografi "del tutto inidonei a garantire la tempestiva rilevazione delle fughe" e violazioni delle normative sui limiti di esposizione. Il ricorso sottolinea infine la mancata considerazione delle specifiche mansioni a rischio, come gli addetti all'insacco del PVC e alla manutenzione, esposti a polveri e gas tossici senza adeguate protezioni.
//: t 4.3
Blocco 4: Responsabilità penale colposa e cooperazione in ambito di sicurezza industriale
Estensione della responsabilità penale colposa e applicazione della continuazione nei reati colposi in un contesto di cooperazione tra imprese.
Il sommario tratta della responsabilità penale colposa, in particolare della cooperazione colposa tra ENI-ENICHEM e Montedison, per malattie professionali e disastri ambientali. Viene sostenuta l’applicabilità dell’istituto della continuazione ai reati colposi, citando che "non solo qualche isolata ed ‘originale’ voce dottrinale sostiene la piena compatibilità della continuazione con i delitti e i reati colposi, ma neppure la giurisprudenza sarebbe in posizione così monoliticamente negativa" e che "la colpa è senz’altro interna e compatibile con la volontà e consapevolezza dell’agire economico, delle scelte d’impresa". Si affronta la prescrizione, escludendola in base al principio per cui "il ‘dies a quo’ decorre dalla consumazione, quindi dall’ultimo evento", verificatosi nel 2000. Viene contestata l’assoluzione di alcuni imputati per lesioni colpose e omicidio colposo, ribadendo la sussistenza del nesso causale tra esposizione a sostanze pericolose e patologie. Si critica l’errata applicazione del criterio di prevedibilità nella colpa specifica, ricordando che "decisivo, ai fini di una prognosi sulla responsabilità penale, deve ritenersi, in positivo, l’accertamento in ordine alla regola trasgredita, nessuna influenza potendo esplicare il criterio della prevedibilità".
//: t 5.4
Blocco 5: Configurazione del delitto colposo di disastro e strage
La configurabilità giuridica del delitto colposo risultante dal combinato disposto degli articoli 449 e 422 del codice penale, con particolare riferimento alla nozione di disastro e incolumità pubblica.
Il sommario tratta della richiesta di applicazione del "delitto colposo la cui esistenza all’interno dell’ordinamento vigente dev’essere affermata" basata su interpretazioni letterali, sistematiche e della volontà del legislatore. Viene sostenuta la configurabilità di una fattispecie distinta dalla strage dolosa, poiché "strage in senso tecnico non è, e che viene punita a titolo di colpa per espresso rinvio legislativo". L’argomento affronta le obiezioni sul trattamento sanzionatorio, evidenziando incongruenze derivate da modifiche legislative successive, come la parificazione della pena a ergastolo indipendentemente dal numero di vittime, che "risulta essere circostanza del tutto indifferente ai fini della pena". Viene citata la dottrina che qualifica gli eventi mortali come "condizioni di maggiore punibilità", proponendo un concorso con l’omicidio colposo plurimo. Si esamina l’evoluzione del bene "incolumità pubblica", esteso a includere la salubrità ambientale e la salute pubblica, in contesti dove "atti tali da porre in pericolo gli interessi suddetti si accumulino nel corso del tempo". La consolidata giurisprudenza sul disastro, definito come "evento grave e complesso, che colpisca le persone e le cose, e sia altresì suscettibile non solo di mettere in pericolo e realizzare il danno di un certo numero di persone e di una certa quantità di cose, ma anche di diffondere un esteso senso di commozione e di allarme", viene richiamata per giustificare la fattispecie. L’appellante critica la valutazione atomistica degli eventi, sostenendo invece un "contesto generale ed unitario, fortemente strutturato intorno a tutti i reati contro l’incolumità pubblica".
//: t 6.5
Blocco 6: Errori giudiziari nella valutazione dell'inquinamento idrico e del suolo nel Petrolchimico
Contenzioso su modelli idrogeologici, trasferimento di inquinanti e contaminazione da diossine.
Il sommario evidenzia le critiche mosse alla sentenza del Tribunale per errori nella valutazione dei modelli idrogeologici e dei dati sull'inquinamento. Viene contestata la stima del flusso idrico di "4 L/S" dalla falda superficiale verso i canali, ritenuta "solo apparentemente piccolo" poiché corrisponde a "126 milioni di litri all’anno". Il Tribunale avrebbe trascurato i dati di "Aquater Basi 96 e 2000" che mostrano un "andamento centrifugo" delle falde, confondendo la falda superficiale con la prima falda. Viene rilevata la presenza di diossine nelle acque sotterranee, con concentrazioni medie di "circa 112 p g I-TE /litro" e superamenti dei limiti del "DM 471/99" in tre campioni su sei. Questo comporta un "apporto inquinante" stimato in "circa 14 mg I-TE /anno", sufficiente a contaminare "100 tonnellate di sedimento". L'inquinamento del suolo è confermato da superamenti dei limiti in otto siti, con valori fino a "30 volte superiori ai limiti". La sentenza avrebbe omesso le valutazioni di "American Appraisal" e del "prof Nosengo", che giudicava "insufficienti" le indagini sulla permeabilità. Un tema minore riguarda la "enorme diluizione", ritenuta basata su un'errata interpretazione dei dati di apporto idrico.
//: t 7.6
Blocco 7: Inquinamento da scarichi industriali e contaminazione dei sedimenti nell'area industriale di Porto Marghera
Accuse di disastro ambientale e avvelenamento delle acque lagunari per scarichi illeciti e contaminazione da microinquinanti
Il sommario tratta le accuse rivolte al Petrolchimico di Porto Marghera per scarichi inquinanti nei canali industriali e nella laguna. Viene descritta "la contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale" (1220) attribuita al "catabolismo industriale risalente nel tempo" (1221). Le indagini hanno rilevato "alte concentrazioni di mercurio" e "diossine che recano l’impronta del cloro" (1222). L'accusa sostiene che "gli scarichi del Petrolchimico sarebbero stati effettuati in violazione del noto divieto di diluizione" (1214) e che "decine di migliaia di bollettini di analisi interne – dimostrerebbero il superamento dei limiti di legge anche in epoca recente" (1215). Un campione prelevato nel 1998 avrebbe rilevato "un valore di concentrazione – 150 picogrammi/litro – 300 volte superiore al valore limite per gli scarichi industriali" (1213). Viene discusso il tema delle "impronte delle diossine" (1237) come metodo per collegare la contaminazione ai processi produttivi del Petrolchimico, sebbene "il collegamento e l’impronta avvertono però i periti non è comunque paragonabile alla impronta digitale essendo certo meno precisa" (1237). La difesa contesta l'identificazione del Petrolchimico come unica fonte di inquinamento, evidenziando che "il gradiente di contaminazione diminuisce passando dalla prima alla seconda zona industriale" (1264) e che "le due aree sono soggette a fonti di inquinamento da PCDD/F diverse" (1262). Vengono menzionati i "fanghi rossi bauxitici e ceneri di pirite" (1298) come ulteriori fonti di contaminazione estranee al Petrolchimico.
//: t 8.7
Blocco 8: Infondatezza degli addebiti di colpa nel caso del Petrolchimico
Analisi giudiziaria delle accuse di disastro ambientale e avvelenamento relative agli scarichi idrici, con confutazione delle tesi accusatorie sulla base di valutazioni normative e tecniche.
Il sommario affronta la dichiarata infondatezza degli addebiti rivolti al Petrolchimico riguardo alla gestione degli scarichi idrici. Viene confutata l'accusa di violazione del divieto di diluizione, poiché "la miscelazione delle correnti era consentita" e le pubbliche amministrazioni ne erano informate, avendo in alcuni casi impartito specifiche prescrizioni rispettate. Si contesta altresì la tesi del superamento sistematico dei parametri di accettabilità, evidenziando come "gli scarichi di provenienza Petrolchimico, nel loro reale andamento, si attestano su valori medi evidentemente inferiori rispetto ai parametri di riferimento", con una percentuale di superamenti diminuita drasticamente nel tempo. Viene rigettata l'ipotesi che i reflui dovessero essere considerati rifiuti tossico-nocivi a causa della presunta presenza di CVM, rilevando che "normalmente il CVM nelle acque di processo [...] era assente" e, ove presente, in concentrazioni ampiamente inferiori ai limiti. Viene infine esaminato il caso specifico della contaminazione storica del Canale Lusore-Brentelle, riconosciuta come preesistente al periodo d'imputazione, sottolineando che "dal catabolismo delle acque in epoca più recente deve invece escludersi che sia potuto derivare alcun apporto, in termini di aumento dello stato di inquinamento preesistente".
//: t 9.8
Blocco 9: Contenzioso sull'inquinamento industriale a Porto Marghera
Ricostruzione delle contestazioni giudiziarie relative all'inquinamento da mercurio, diossine e altre sostanze negli impianti petrolchimici, con particolare riferimento alle tecnologie di produzione, alle metodologie di smaltimento dei rifiuti e alla cronologia della contaminazione ambientale nella laguna di Venezia.
Il sommario affronta le contestazioni relative agli impianti di cloro-soda a celle di mercurio entrati in funzione nel 1971, quando le uniche tecnologie industrialmente applicate erano a diaframma e a catodo di mercurio, mentre le celle a membrana, meno inquinanti, erano ancora a livello progettuale e si perfezionarono solo nei primi anni ottanta. Viene discusso l'impianto di demercurizzazione, la cui realizzazione ha consentito di ridurre le immissioni di mercurio in laguna a un microgrammo/litro, nei limiti della legge speciale, con data di costruzione certa nel 1974 e entrata in funzione nel 1976, circostanza che ha determinato l'infondatezza degli addebiti di colpa pertinenti all'uso del mercurio e alla realizzazione tardiva dell'impianto. L'infondatezza degli addebiti emerge anche dalla mancanza di specificazione, da parte dell'accusa, di norme violate o di concrete azioni preventive che gli imputati avrebbero dovuto intraprendere, nonché dalla inverificabilità di una relazione tra la condotta degli imputati e un eventuale aggravamento dello stato di contaminazione preesistente. Viene esclusa la fondatezza dell'imputazione di disastro, in quanto accertata l'infondatezza delle accuse di avvelenamento e adulterazione di acque e sostanze destinate all'alimentazione, con la prova negativa della pericolosità della ittiofauna che costituisce la fonte immediata del supposto pericolo per la salute pubblica.
Nella parte relativa all'appello del P.M., vengono criticate le ricostruzioni cronologiche e la selezione dei dati di fatto operate dal Tribunale, con particolare riferimento alle impronte di diossine. La tesi difensiva, secondo cui l'inquinamento dei canali industriali sarebbe la conseguenza dell'utilizzo di rifiuti provenienti dalla prima zona industriale per l'imbonimento della seconda zona, viene contestata dall'accusa sulla base di mappe e foto che dimostrano come gran parte della seconda zona fosse già bonificata con spazi agricoli negli anni '40 e '50, e come i canali Brentella e Industriale Nord siano stati dragati attorno al 1960, con deposizione dei sedimenti inquinati in periodo successivo. L'accusa evidenzia che "le barene campionate a S Erasmo e a Fusina hanno la concentrazione massima della asserita impronta della prima zona industriale in strati, che la stessa difesa dice corrispondere agli anni 60-80", il che significa che si trattava di emissioni della seconda zona industriale, arrivate attraverso l'atmosfera. Viene inoltre affermato che "anche attualmente il ciclo di lavorazione DCE – PVC - CVM produce non uno solo ma almeno due se non più, diversi tipi di impronta", a confutazione della teoria delle due impronte diverse prodotte in tempi diversi.
Vengono esaminate le peci clorurate, i fanghi rossi e le ceneri di pirite come supposte fonti di contaminazione da diossine, con l'accusa che sostiene come le peci solidi continuarono a essere smaltite fuori dallo stabilimento nelle discariche Dogaletto, Moranzani e Macchinon, mentre il CS 28 bruciava solo peci liquide ed era insufficiente. Il documento del magistrato alle acque conferma la possibilità di scarico con camion e bettoline delle peci clorurate, nonché la possibilità che, riscaldate, le peci perdano i clorurati e quindi sia possibile trovare diossine senza i clorurati. Per quanto riguarda i fanghi rossi, l'accusa contesta l'affermazione che contenessero diossine, rilevando che "i valori di alluminio trovati nei campioni da E1 a E6 sono eguali o inferiori ai valori di AL di sedimenti non inquinati dell'adriatico" e che "non esiste alcuna correlazione tra AL (che viene ritenuto indicatore di fanghi rossi) e la tossicità", concludendo che i campioni definiti fanghi rossi contengono PCDD/F e metalli in proporzione così variabile che evidentemente sono stati mescolati con fanghi/rifiuti/peci provenienti dalle produzioni del cloro.
L'analisi statistica delle componenti principali (PCA) dimostra la correlazione tra l'impronta reale esistente all'interno del Petrolchimico e le impronte rilevate nei canali industriali attorno al Petrolchimico e nei sedimenti superficiali lagunari nelle vicinanze dello stesso, con i primi tre fattori che spiegano il 76-77% della variabilità. L'accusa sostiene che la fonte prevalente della contaminazione, per quanto riguarda le diossine, è sicuramente il Petrolchimico e in particolare gli impianti contestati, con rifiuti caratterizzati da impronte molto simili, anche se non del tutto eguali con il passare del tempo. Queste impronte, definite impronte del cloro, presentano evidentissime differenze rispetto alle impronte di altra origine, come depuratori o deiezioni umane.
Per quanto riguarda gli scarichi idrici, l'accusa contesta la sentenza nella parte in cui ritiene infondata la tesi secondo cui gli scarichi del Petrolchimico sarebbero stati effettuati in violazione del divieto di diluizione, rilevando che "le concentrazioni delle sostanze inquinanti – azoto nitrico, solventi organici aromatici, clorurati organici 2° gruppo – superano i valori limiti massimi di legge, in rilevante percentuale" e che "mediamente si mantengono vicino ai valori limite mentre la legge chiede che le concentrazioni siano in ogni momento inferiore al limite". Con la diluizione si ottiene l'effetto opposto al contenimento dell'impatto ambientale, in quanto l'aumento della portata determina la possibilità di scaricare quantità di inquinanti che non sarebbero consentiti se ciascun flusso di acque inquinate fosse scaricato separatamente. Viene inoltre evidenziato che gli scarichi idrici del Petrolchimico hanno presentato e tuttora presentano rilevanti frequenze di casi di superamento dei limiti stabiliti dalla legge per ciascun inquinante, con frequenza decrescente dagli anni '70-'80 agli anni '90, ma rimanente superiore all'1%.
//: t 10.9
Blocco 10: Inquinamento del biota e valutazione del rischio alimentare nella zona industriale
Inquinamento del biota nella zona industriale e valutazione del rischio per il consumo umano
Il sommario tratta della contaminazione del biota, in particolare pesci e molluschi bivalvi, nei canali della zona industriale, e delle conseguenti valutazioni di rischio per la salute umana. Viene evidenziato che "il sedimento dei canali è inquinato e di conseguenza anche il biota sullo stesso vivente", e che la questione rilevante è stabilire "in che misura ciò avvenga e con quali conseguenze". Alcuni studi, come quello di Baldassari, Ziemacki e Di Domenico, "non evidenzia situazioni di contaminazione del biota, nel contesto della conterminazione lagunare, critiche per il consumo umano". Altri, come la consulenza tecnica Sesana Muller, accertano che "le concentrazioni di inquinanti non superano la scala dei valori normali" e sono "compatibili con quelle che, secondo la disciplina normativa relativa alla edibilità del prodotto, sono ammesse per legge ad essere distribuite per il consumo umano diretto". Il riferimento normativo è il D. Lgvo. 530/1992, che per i molluschi bivalvi prescrive che "non devono contenere sostanze tossiche o nocive... in quantità tali che la assunzione di alimenti calcolata superi la D.G.A o sia tale da alterare il gusto dei molluschi". Viene sottolineato che "un modesto superamento della DGA o del CL non significhi avvelenamento punibile", distinguendo tra illeciti amministrativi e delitti colposi.
Le tesi accusatorie, basate su consulenti come Raccanelli e Zapponi, sostengono invece la presenza di rischi, rilevando che "campioni prelevati nella zona industriale risultino ricchi di furani a basso grado di clorurazione e di octaclorofurano", con concentrazioni "anche 135 volte più alte per i PCDD/PCDF" rispetto ad altre zone, e che "basterebbe mangiare 26 grammi edibili di vongole per superare la soglia della dose giornaliera ammissibile". Tuttavia, il Tribunale ha ritenuto non attendibili queste valutazioni perché i consulenti dell'accusa "hanno utilizzato parametri dagli stessi stabiliti facendo riferimento a dati di consumo abnormi e alle concentrazioni massime rilevate", mentre "sia per la concentrazione come per il consumo deve farsi riferimento a dati medi sul lungo periodo". Viene spiegato che la determinazione dei valori limite, come la dose giornaliera tollerabile, si basa su criteri ultraprotettivi, e che "il superamento della dose soglia si può verificare solo quando venga superato il valore medio per un determinato periodo, mentre superamenti sporadici non sono significativi". Infine, si fa riferimento a studi statistici sui consumi, come quelli dell'Istituto superiore della Sanità e del Coses, che indicano consumi medi giornalieri di prodotti ittici, utilizzati per una corretta valutazione del rischio.
//: t 11.10
Blocco 11: Consumo di prodotti ittici e valutazione dell'esposizione agli inquinanti nella laguna di Venezia
Analisi dei dati di consumo di prodotti ittici e vongole nella popolazione veneziana e valutazione dell'esposizione a metalli pesanti, diossine e altri inquinanti, con particolare riferimento all'area industriale.
Il sommario esamina i dati di consumo di prodotti ittici elaborati dal Coses, che indicano per i forti consumatori nel comune di Venezia un consumo di "11 kg al mese di prodotti ittici equivalente a circa 362 grammi (lordi) al giorno" mentre per i consumatori medi si attesta su "10 grammi al giorno" di vongole. Viene definito forte consumatore "colui che consuma un quantitativo di pesce cinque volte superiore a quello consumato dalla media della popolazione". La relazione evidenzia l'importanza di considerare "la resa del prodotto" distinguendo tra peso lordo e parte edibile, poiché "il rapporto tra peso netto e peso lordo risulta essere molto variabile" per i prodotti ittici. Dai calcoli risulta che "il consumo complessivo netto giornaliero di prodotto ittico di un consumatore medio nel Comune di Venezia è di circa 30 grammi che aumenta a 137 grammi per un forte consumatore".
L'analisi procede confutando le tesi dell'accusa riguardo all'esposizione a metalli e microinquinanti, dimostrando che "le vongole raccolte nei canali industriali hanno una concentrazione di mercurio di 0,05 mg/Kg che è dieci volte inferiore alla C.L. (0,5 mg/kg)" e analoghi risultati valgono per cadmio e piombo. Per quanto riguarda le diossine, "la esposizione alle diossine è di 0,025 e 0,190 p g / kg peso corporeo /giorno rispettivamente per i consumatori medi e per i forti consumatori" con un margine rispetto ai valori limite OMS che "è 40-161 volte inferiore per i consumatori medi e 5-21 volte inferiore per i forti consumatori". Le analisi di Berlino hanno confermato "notevoli differenze tra i risultati ottenuti dal consulente Raccanelli e gli altri consulenti del P.M." ridimensionando ulteriormente i valori di concentrazione degli inquinanti.
//: t 12.11
Blocco 12: Accertamento giudiziario della pericolosità di sostanze inquinanti in biota e acque
Inadeguatezza delle prove accusatorie sulla pericolosità di inquinanti in matrici ambientali e alimentari
Sommario
L’argomento verte sull’analisi giudiziaria della sussistenza di pericolo per la salute pubblica derivante dalla presenza di sostanze inquinanti nel biota lagunare e nelle acque. Il tribunale ha verificato che "le classi di esposizione derivanti dalla assunzione tramite la dieta del biota in questione sono distanti ordini di grandezza da quelle capaci di produrre un qualsivoglia effetto avverso osservato o comunque sperimentato" (1762). Viene ribadito che "la anticipazione di tutela non esenta comunque l’interprete dall’accertamento della intrinseca idoneità delle classi di esposizione rilevanti nel caso particolare a porre in pericolo effettivo l’incolumità delle persone" (1765). L’accusa è criticata per non aver "attribuisce alcun rilievo al problema della definizione del livello di esposizione a cui la ricerca scientifica associa effetti avversi" (1779). Viene esclusa la configurabilità dei reati di avvelenamento e adulterazione pericolosa, poiché "le concentrazioni di sostanze inquinanti rilevate nel biota di provenienza dell’area industriale sono largamente inidonee, sicuramente inidonee pure solo a porre il problema della produzione di effetti avversi" (1835). Il pubblico ministero, in appello, contesta la sentenza affermando che "il pericolo consistente nella lesione apportata al DNA dagli agenti genotossici" (1908) costituisce un pericolo concreto, sostenendo che "la presenza di livelli significativi di addotti del DNA e di micronuclei dimostrano in modo certo la esposizione degli organismi considerati ad agenti genotossici" (1891). Vengono menzionati temi minori quali la distinzione tra pericolo astratto e concreto, il ruolo delle normative speciali sulla potabilità e l’edibilità, e le valutazioni dell’IARC sulla cancerogenicità delle sostanze.
//: t 13.12
Blocco 13: Valutazione del rischio tossicologico da inquinanti in bivalvi della laguna di Venezia
Analisi critica delle determinazioni del Tribunale su esposizione a diossine, PCB e altri inquinanti in molluschi, con particolare riferimento ai parametri tossicologici, al consumo reale e al confronto con i valori di fondo.
Il sommario evidenzia come il Tribunale abbia utilizzato "i valori mediani – ciò che vuol dire eliminare i valori massimi e quelli minimi" nei campioni prelevati nell'area industriale, determinando una sottostima del rischio. Viene contestata l'affermazione che "le quantità di inquinanti rinvenute nei molluschi prelevati nei canali della area industriale sono compatibili con quelle che sono ammesse per legge" poiché si trascura che "per le sostanze non regolate da concentrazioni limite ci si deve riallacciare alla DGA". Emerge che "con le vongole si supera la DGA, senza contare l'effetto tossico sinergico (cumulativo) dato da Cadmio, Piombo, Mercurio, Arsenico, IPA, Diossine, PCB, HCB" valutati separatamente mentre "vengono assunte insieme dal consumatore". Si rileva l'inadeguatezza dei parametri di consumo considerati, poiché "considerando pranzi e cene reali si supererebbe la DGA di sei volte" e "il forte consumatore che mangia 11 grammi al giorno [...] assume solo dalle vongole un quantitativo di inquinanti che, sommato al resto, supera di gran lunga la DGA". Viene criticato il mancato aggiornamento dei "valori limite stabiliti per le dosi giornaliera o settimanale, considerando l'aumento di fondo della esposizione a diossine attraverso la dieta" e si osserva che "date le assunzioni medie di diossine o dioxin-like attraverso la dieta nei paesi europei di 1.2-3.0 pg WHO-TEQ/kg p.c. per giorno, una percentuale considerevole della popolazione europea dovrebbe superare il TWI". Conseguentemente, "risultando già superati i valori di riferimento a seguito dell'inquinamento di fondo per una parte di rilievo della popolazione, ogni esposizione aggiuntiva deve essere considerata alla luce della affermazione che vi è già di fondo una esposizione critica".
//: t 14.13
Blocco 14: Reati ambientali permanenti e responsabilità per inquinamento idrico industriale
Reati ambientali permanenti, giurisprudenza sulla loro configurabilità e responsabilità penale per inquinamento idrico in ambito industriale.
Il sommario tratta della configurabilità del reato permanente in materia di violazioni ambientali, come "la Cassazione si è pronunciata in senso positivo per quanto riguarda la configurabilità del reato permanente" per la tutela delle acque e "la permanenza dovuta al mantenimento consapevole della alterazione" per opere senza autorizzazione paesistica. Vengono esaminate le norme di riferimento, tra cui "Art 9 u.c 15,21,25,26, L10-5-1976 n319 norme per la tutela delle acque dall’inquinamento" e "DPR 10-9-1982 n915 in attuazione delle direttive europee relative allo smaltimento dei policlorodifenili e policlorotrifenili e dei rifiuti tossico nocivi", sostituito dal decreto sui rifiuti pericolosi. Si affronta la distinzione tra la disciplina degli scarichi idrici e quella dei rifiuti tossico-nocivi, con "la interpretazione che viene ritenuta corretta dall’appellante risulta conforme al contenuto delle direttive comunitarie in materia" e la critica alla sentenza che "aveva ritenuto applicabile agli scarichi delle acque di processo provenienti dai reparti CV22/23 e CV 24/25 la disciplina relativa agli scarichi, invece di quella relativa i rifiuti tossico nocivi o pericolosi". Viene discusso l’onere della prova sulla tossicità dei rifiuti, con "la dimostrazione che anche una sola volta la concentrazione di C.V.M. era superiore al limite stabilito nelle tabelle, comportava la classificazione del rifiuto come tossico nocivo", e le carenze motivazionali del Tribunale, come "il Tribunale non affronta né approfondisce il problema della responsabilità legata alle posizioni di garanzia" e "non ha egualmente affrontato la questione dei rapporti tra società controllata e società controllante". Sono presenti temi minori, quali la presunzione di tossicità dei rifiuti, le contestazioni sull’assoluzione degli imputati nonostante il riconoscimento di violazioni, e le impugnazioni proposte in appello per vizi procedurali e richieste di rinnovazione del dibattimento.
//: t 15.14
Blocco 15: Il nesso causale nel processo penale tra condizione necessaria e criteri probabilistici
La disputa sul concetto di causa penalmente rilevante e la sua applicazione giudiziaria, con particolare riferimento al caso di Porto Marghera.
Il sommario affronta la critica mossa dalla difesa all’accusa per aver sostenuto un concetto di nesso causale basato su "condizione idonea", "serie e apprezzabili possibilità" e "aumento del rischio", criteri definiti estranei al diritto penale italiano. Viene evidenziata la convergenza tra il Tribunale di Venezia e le Sezioni Unite della Corte Suprema nel ritenere che "in tanto sussiste il rapporto causale, in quanto la condotta lesiva (azione od omissione) sia condizione necessaria dell’evento" e nel ripudiare "il criterio dell’aumento o mancata diminuzione del rischio di lesione del bene protetto", considerato "un criterio estraneo al nostro ordinamento". La difesa contesta le affermazioni del P.M., ritenute "contrarie al vero", in merito alla coincidenza delle sue tesi con i principi delle Sezioni Unite, sottolineando invece come l’accusa abbia proposto un "grande buco nero" sul nesso di condizionamento, senza provare che l’esposizione al CVM fosse condizione necessaria delle patologie. Viene inoltre analizzato il rifiuto di "clausole indeterminate e manipolabili, quali quelle relative alle serie o elevate probabilità dell’esistenza del nesso di condizionamento", con le Sezioni Unite che non condividono la soluzione che riconosce "appagante valenza persuasiva a serie ed apprezzabili probabilità di successo (anche se limitate) e con ridotti coefficienti indicati in misura addirittura inferiore al 50%". Il Tribunale di Venezia, anticipando le Sezioni Unite, afferma la necessità di "rifuggire dagli orientamenti che forzano il criterio causale per ragioni di prevenzione generale, collocandolo nell’area dell’aumento del rischio" e mette in guardia dal pericolo di introdurre "il libero convincimento del giudice" attraverso "formule indeterminate e indeterminabili, e quindi manipolabili". La difesa sostiene infine l’assenza di prove sul nesso causale specifico per patologie come l’epatocarcinoma e contesta i tentativi del P.M. di ricondurre asbesto e CVM a un unico meccanismo d’azione, definendo "ennesima dichiarazione non veritiera" l’affermazione che il CVM abbia "accelerato i processi patologici".
//: t 16.15
Blocco 16: Il nesso causale nel processo penale tra modelli scientifici e accertamento giudiziale
La controversia sull'applicazione dei criteri di causalità tra P.M., difesa e giudici in un caso di esposizione al CVM.
Il sommario tratta del contrasto tra Pubblico Ministero e difesa degli imputati riguardo all'accertamento del nesso causale in un procedimento penale per esposizione a cloruro di vinile monomero (CVM). Il P.M. sostiene che "mentre per il Tribunale il giudizio finale di probabilità causale in presenza di una legge statistica con coefficiente medio-basso deve essere risolto secondo la regola dell'oltre il ragionevole dubbio, per le Sezioni Unite una legge statistica con coefficiente medio-basso può costituire legge di copertura se corroborata dal positivo riscontro probatorio". La difesa contesta l'asserita coincidenza delle tesi di accusa con i criteri delle Sezioni Unite, osservando che l'approdo al concetto di "condizione necessaria, come condizione dell'aumento del rischio o delle probabilità del verificarsi dell'evento" sarebbe "in insanabile contrasto con gli enunciati delle Sezioni Unite relativi alla condizione necessaria dell'evento lesivo". Emerge la questione dell'utilizzo di leggi scientifiche statistiche nell'accertamento causale, dove "coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica, impongono verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta". Il Tribunale viene criticato per aver "valutato separatamente i contributi offerti dalle discipline e dalle scienze che hanno avuto ingresso in dibattimento", evitando "quel raffronto tra discipline, che pure esso stesso aveva invocato per il conseguimento di un modello ideale di causalità". La Corte infine richiama i principi delle Sezioni Unite secondo cui "l'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio [...] comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio".
//: t 17.16
Blocco 17: Valutazione giudiziaria del nesso causale tra esposizione a cloruro di vinile monomero e patologie professionali
Analisi delle evidenze scientifiche e giuridiche sulla cancerogenicità del CVM e soglie di esposizione
Il sommario esamina la valutazione del Tribunale sul nesso causale tra esposizione professionale a cloruro di vinile monomero (CVM) e insorgenza di patologie, basandosi su studi epidemiologici, tossicologici e considerazioni giuridiche. "Le altre patologie (neoplastiche e non) siano state ritenute o non sussistenti a seguito dell'esame della documentazione medica e dell'anamnesi generale e lavorativa ovvero non correlate all'esposizione" (2523). Viene riconosciuta unicamente l'associazione causale con angiosarcoma epatico, sindrome di Raynaud, acrosteolisi e specifiche epatopatie endoteliali, mentre "non consentono di ritenere sussistente una associazione causale tra cvm-pvc e tumori diversi dall'angiosarcoma" (2568) come tumori polmonari, epatocarcinoma, cirrosi, neoplasie di laringe, sistema linfatico ed encefalo.
Viene approfondito il concetto di soglia di esposizione, evidenziando come "la riduzione delle esposizioni entro il range di 0,5-5 ppm sembra essere stata fino ad ora adeguatamente protettiva" (2530) e che "nessun angiosarcoma del fegato si è manifestato in lavoratori assunti successivamente al 1973" (2529). Il Tribunale rileva che "l'idoneità lesiva del cvm si è rivelata ad alte o elevatissime dosi mentre non sussiste la prova di una efficienza lesiva anche a basse dosi" (2563), sostenuto da studi che "al di sotto di dosi cumulative di 10 ppm non è stata accertata una idoneità lesiva del cvm" (2551). Vengono contestate le posizioni precauzionali sull'assenza di soglia, osservando che "l'evidenza presentata in questo rapporto non suggerisce che l'esposizione lavorativa ai livelli correnti nel rispetto del limite di 3 ppm comporti rischi significativi per la salute" (2539).
//: t 18.17
Blocco 18: Controversie epidemiologiche e giudiziarie sulla cancerogenicità del cloruro di vinile monomero (CVM)
Contraddizioni tra le conclusioni del Pubblico Ministero e le evidenze scientifiche sulla relazione causale tra esposizione a CVM e patologie epatiche, inclusi epatocarcinoma e cirrosi, con particolare riferimento a studi epidemiologici e coorti industriali.
Sommario
Le frasi evidenziano l'assenza di prove epidemiologiche solide a sostegno della tesi accusatoria sulla cancerogenicità del CVM per tumori epatici diversi dall'angiosarcoma. "Contraddittorie con la tesi propugnata dal P.M. sono altresì le conclusioni dei suoi consulenti" (2641) e "non ci sono evidenze epidemiologiche" (2642) per l'epatocarcinoma. Gli studi epidemiologici, come quelli di Wong (1991) e Mundt (1999), "generalmente non sono stati in grado di calcolare un rischio relativo preciso" (2643) e presentano "enormi limiti" (2651), tra cui difficoltà diagnostiche e confondimento con angiosarcomi. L'incertezza scientifica è accentuata dalla natura multifattoriale dell'epatocarcinoma, con fattori di rischio extraprofessionali come "l’infezione cronica da virus B e C, l’abuso di alcol e la cirrosi" (2658). Per la cirrosi, gli studi non mostrano rischi significativi, con "SMR pari a 0,88 e a 0,62" (2664) e "relazione inversa con l'esposizione a CVM" (2664). Ulteriori patologie, come melanoma, tumori alla laringe, cervello e sistema emolinfopoietico, non presentano evidenze epidemiologiche significative, con eccessi basati su "piccoli numeri e limitati ad un solo Paese" (2689). Le ricerche multicentriche coordinate da IARC, come lo studio di Ward (2000), hanno falsificato le ipotesi iniziali, concludendo che "non esistevano prove sull’effetto cancerogeno del CVM sui tre organi bersaglio diversi dal fegato" (2695). L'incertezza scientifica e la presenza di fattori di confondimento legittimano il "ragionevole dubbio" (2700) in sede giudiziaria, portando all'assoluzione per i reati relativi a patologie non angiosarcomatose.
//: t 19.18
Blocco 19: Questioni giuridiche sulla responsabilità penale in materia di sicurezza sul lavoro
Esclusione della continuazione nei reati colposi e della cooperazione colposa in un contesto di esposizione a sostanze pericolose
Il sommario affronta l’esclusione della continuazione tra reati colposi, poiché "l’unicità del disegno criminoso nella perpetrazione delle condotte che realizzano più reati, andrebbe provata, sia nella originaria progettazione (ideazione) che nella deliberazione (volizione) che nello scopo prefisso da realizzare attraverso quei comportamenti pur genericamente preordinati, in capo al soggetto agente che i diversi reati infine ha commesso". Viene altresì esclusa la cooperazione colposa ex art. 113 c.p., in quanto "la cooperazione colposa nella ricostruzione dell’oggettiva e psicologica consumazione di un determinato reato, non possa concettualmente prescindere dall’elemento della consapevolezza, da parte di ciascun partecipe, dell’esistenza dell’azione altrui in concomitanza con la propria". L’analisi si concentra sui reati di omicidio colposo derivanti da esposizione a cloruro di vinile monomero (CVM), con riferimento a decessi per angiosarcoma epatico, e valuta la prescrizione dei reati, escludendo aggravanti come la colpa cosciente poiché "i termini stessi in cui è stata riconosciuta la colpa […] non consentono poi di ritenere altresì in capo agli imputati la previsione dell’evento morte". Vengono inoltre concesse attenuanti generiche, considerando che "in un contesto di rilevante attività d’impresa in epoca immediatamente susseguente al grande sforzo economico di ripresa nel secondo dopoguerra […] gli imputati non agivano in disarmonia con tale scarsa sensibilità" verso la sicurezza. L’argomento include anche l’esclusione del reato di strage colposa, poiché "la previsione di cui all’art. 449 cp non riguarda ogni delitto di cui al capo primo, titolo VI, libro II c.p. bensì solo i delitti di danno […] e nello specifico appunto le ipotesi, e solo, di ‘disastro’", e analizza il reato di omissione dolosa di cautele ex art. 437 c.p., sottolineando che "vi rientrano solo quelle concernenti specificamente la collocazione di apparecchiature prevenzionali" e che "sul piano soggettivo, la responsabilità è ancorata al dolo (la colpa non basta)".
//: t 20.19
Blocco 20: Processo per omissione dolosa di cautele contro gli infortuni nello stabilimento Petrolchimico di Porto Marghera
Accusa di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni per esposizione a cloruro di vinile monomero (CVM) e assoluzione degli imputati per insufficienza probatoria e interventi di sicurezza post-1973.
Il processo verte sull’accusa di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni, ex art. 437 c.p., per non aver collocato impianti, apparecchi o segnali prevenzionali contro i rischi da esposizione a CVM nello stabilimento Petrolchimico di Porto Marghera. L’accusa sosteneva che gli imputati, consapevoli della tossicità e cancerogenicità del CVM fin dal 1969 e dell’esistenza di norme che imponevano comportamenti prevenzionali, avrebbero dovuto attivarsi per eliminare le situazioni lesive e predisporre mezzi di protezione, ma “tutto questo non è stato fatto”. La Corte osserva che, per configurare il dolo, non basta la conoscenza del pericolo o la doverosità dell’intervento, ma occorre individuare in capo a ciascun imputato “la rappresentazione del dovere di attivarsi collocando i mezzi di protezione che specificamente si impongono e di converso la volontà di astenersi da tale condotta”. Viene analizzato il c.d. “patto di segretezza” sulle conoscenze degli effetti cancerogeni del CVM, ritenuto dagli appellanti prova della volontarietà delle omissioni. La Corte contesta questa ricostruzione, osservando che non di un vero patto si trattava, ma di “sollecitazioni e risoluzioni, certo determinate da preoccupazioni produttive e di mercato, di non allarmare, o pur se si vuole benevolmente, di non allarmismo, dopo le ricerche ed esperimenti Viola ed i primi dati Maltoni sui possibili effetti cancerogeni dell’esposizione a CVM”. Sottolinea che i dati Viola erano già di dominio pubblico e gli studi Maltoni, commissionati da Montedison, non erano definitivi e non erano soggetti a vincoli di segretezza, essendo lo studioso libero di renderli pubblici. Conclude che “difettano dunque idonei indici rivelatori esterni dai quali dedurre che, non solo conosciuta una situazione di pericolo, e non solo rappresentata la necessità di specifico intervento precauzionale consistente in collocazione di impianti, apparecchi o segnali, vi sia stata poi cosciente volontà da parte di ciascun imputato di omettere un tale intervento”. Le omissioni appaiono invece frutto di “colpevole atteggiarsi dei vertici industriali in quei tempi” dove “la sicurezza non era primario obbiettivo e neppure veniva rivendicata con decisione dalle stesse organizzazioni sindacali dei lavoratori”. Gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte vengono assoluti per il periodo fino al 1973 perché “il fatto non costituisce reato”.
Per il periodo successivo al 1973, la Corte rileva che, con la confermata cancerogenicità del CVM, si intervenne tempestivamente con impianti di monitoraggio delle concentrazioni di CVM nell’aria, a partire dal 1974 con il sistema a pipettoni e dal 1975 con il sistema di monitoraggio sequenziale mediante gascromatografi. Il sistema installato era “del tutto coerente con la disciplina di cui al DPR 962/1982” e “rispondente a quanto prescritto dalla normativa anche in termini di copertura sia spaziale (le sonde coprivano l’intero reparto produttivo) sia temporale”. La Corte respinge le censure del P.M. sull’inadeguatezza del sistema, ritenendo che la conformità alla legge non consenta di addebitare “presunte, e peraltro tecnicamente non convincenti, manchevolezze del sistema stesso rispetto ad altri che si ritengono migliori”. Viene confermata l’affidabilità del sistema dal confronto con i dati dei campionatori personali, che mostravano valori “pressoché, e generalmente, sovrapponibili a quelli ottenuti con il sistema automatico”, attestandosi “a valori intorno ad 1 ppm”. Vengono inoltre descritti gli interventi sulle parti di impianto produttivo, come valvole, rubinetti e tenute, installati a partire dal 1974 per impedire dispersioni di gas, con commesse specifiche che hanno consentito di “ridurre notevolmente la fuoriuscita accidentale di CVM”. La concentrazione di CVM nei luoghi di lavoro risultava “sempre, almeno dal 1975 in poi, inferiore al valore soglia (3 ppm) stabilito nel 1978 dalla direttiva 78/610/CE”. Per quanto riguarda gli strumenti di protezione individuale, come le maschere, si osserva che “già con la modifica delle procedure intervenute nel 1974 […] erano state fornite maschere per la protezione dai gas da utilizzare per gli ingressi in autoclave […] e da utilizzare nei casi di fughe di gas”. La Corte conclude che “a partire dal 1974 la violazione di omessa collocazione di apparecchiature prevenzionali con riferimento all’impianto di monitoraggio è insussistente”, così come per le maschere e le parti di impianto con finalità prevenzionali. Per gli impianti di aspirazione di polveri, gas e vapori nocivi, si rileva che “almeno dai primi anni ’80 gli impianti di aspirazione erano stati collocati in tutti gli ambienti a rischio di polveri ed esalazioni nocivi”, e non sussistono violazioni per il periodo successivo al 1973.
//: t 21.20
Inquinamento di Porto Marghera e processo d'appello: Blocco 21
Contaminazione industriale, assoluzione di primo grado e impugnazione della sentenza
Il sommario tratta dell'inquinamento ambientale nell'area di Porto Marghera, dove "tale diffusa contaminazione si era trasmessa dagli scarichi nelle acque e dalla percolazione delle discariche ai sedimenti dei canali e, da questi, alle specie viventi", creando "un grave pericolo attuale per l’incolumità pubblica e la permanenza in atto". Nonostante le accuse, il tribunale di primo grado aveva assolto tutti gli imputati "perché il fatto non sussiste", decisione impugnata dal Pubblico Ministero e da numerose parti civili. L'appello contesta la "deformazione dell'accusa operata dal Tribunale", che avrebbe interpretato le contestazioni come generiche anziché rivolte a "ben individuate persone in relazione a precise responsabilità personali". Viene evidenziato come l'accusa avesse invece formulato il capo d'imputazione "in modo sufficientemente analitico" specificando "precisi siti di discarica, alle sottostanti acque di falda, ai sedimenti e alle acque dei canali prospicienti Porto Marghera" e indicando per ogni imputato "i relativi addebiti con riferimento ai periodi in cui ciascuno aveva svolto il proprio incarico". Il P.M. precisa che la "permanenza in atto" si riferiva agli effetti del reato e non alle condotte, mentre il tribunale aveva erroneamente costruito "un concetto di disastro unico, onnicomprensivo" dove "qualsiasi contributo individuale non poteva incidere in modo efficace". Viene infine affrontata l'omessa considerazione dell'art.437 c.p. da parte del primo giudice, nonostante l'accusa avesse contestato specifici "contributi da parte dei singoli imputati alla causazione ed all’incremento di diversificati inquinamenti".
//: t 22.21
Blocco 22: Distinzione tra la disciplina dei rifiuti e quella degli scarichi idrici nell'ambito dello smaltimento di reflui industriali
La delimitazione dei campi di applicazione del D.P.R. 915/82 in materia di rifiuti e della Legge 319/76 in materia di scarichi idrici, con specifico riferimento ai reflui del Petrolchimico.
Il D.P.R. 915/82 regola l'intera materia dei rifiuti, all'interno della quale si inserisce "come cerchio concentrico minore" la normativa relativa agli scarichi idrici. La distinzione fondamentale riguarda le caratteristiche fisiche delle sostanze: le sostanze solide sono soggette alla disciplina dei rifiuti, mentre "le sostanze liquide o a prevalente contenuto acquoso, comunque convogliate o convogliabili in condotte" ricadono sotto la Legge 319/76. Un'eccezione significativa è rappresentata dai "liquami e dei fanghi" che, se non tossico-nocivi, seguono il regime degli scarichi secondo l'articolo 2, comma 6° del D.P.R. 915/82; se invece "risultano essere tossico-nocivi" si applica la normativa sui rifiuti. Il concetto di "scarico" è tecnicamente definito come "qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili", mentre lo "smaltimento" indica qualsiasi modalità di sversamento non canalizzata. La sentenza chiarisce che "lo scarico è diretto quando non vi è soluzione di continuità nella canalizzazione" dal luogo di produzione a quello di immissione, mentre diventa indiretto, e quindi soggetto alla disciplina dei rifiuti, solo in caso di "interruzione funzionale del nesso di collegamento diretto", come nel trasporto extrafognario con autobotti.
Nel caso concreto dei reflui dei reparti CV del Petrolchimico, questi sono "sostanze liquide convogliate di fatto in condotta ed immesse direttamente, senza soluzione di continuità, nel corpo recettore" e pertanto "per natura" soggetti alla normativa sugli scarichi idrici. Viene esclusa la loro qualificazione come "fanghi" per la natura essenzialmente liquida, e come "liquami" poiché questi sono definiti come rifiuti liquidi "smaltiti in forma non canalizzata". La circostanza che l'impianto di trattamento SG31 fosse gestito da soggetto diverso non trasforma lo scarico in indiretto, poiché "non è possibile ritenere uno scarico 'indiretto' per il semplice fatto che una persona diversa dal produttore del refluo sia titolare dell'impianto di depurazione". Viene quindi rigettata la tesi accusatoria sulla necessità di qualificare i reflui come rifiuti tossico-nocivi, ritenendo irrilevante la presenza di CVM poiché "la presenza di CVM non avrebbe imposto una modifica del regime normativo applicabile agli scarichi". Le contestazioni relative all'inquinamento da rame e diossine sono considerate infondate per l'inaccettabilità del confronto con l'impianto finlandese, dato che "l'impianto di Porto Marghera e quello Finlandese potevano essere difficilmente comparati" per le diverse modalità di gestione dei residui.
//: t 23.22
Blocco 23: Responsabilità penale per omessa bonifica di discariche chiuse
La responsabilità omissiva del proprietario subentrante in siti contaminati da predecessori
Il sommario affronta la questione giuridica relativa alla responsabilità penale per omessa bonifica o messa in sicurezza di discariche chiuse da parte di soggetti subentrati dopo la cessazione dell'attività. Viene analizzata la contestazione basata sull'"obbligo giuridico di attivarsi in relazione a siti contaminati da terzi antecessori" (3304) secondo l'articolo 40 comma 2 del codice penale. Il Tribunale ha ritenuto infondata l'accusa, facendo propri i principi della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 5/10/1994, la quale stabiliva che "il mero mantenere nell'area i rifiuti scaricati o fatti scaricare da altri, quando ormai la discarica sia stata chiusa" non costituisce gestione penalmente rilevante (3305, 3309). La sentenza precisava che "all'attuale detentore non è fatto alcun obbligo di controagire e cioè di intervenire per la rimozione dei rifiuti" (3310).
Gli appellanti (P.M. e Avvocato dello Stato) contestano questa conclusione, sostenendo che il concetto di gestione includa anche le fasi successive alla chiusura, citando gli articoli 10 e 16 del D.P.R. 915/82 che prescrivono "le modalità e le cautele da osservare per l'esercizio della discarica controllata anche dopo la sua chiusura" (3316). Viene richiamata la Delibera Interministeriale 27/7/1984, che impone al gestore il mantenimento dei sistemi di drenaggio "anche dopo la chiusura della discarica" (3318), e il D.Lgs. 22/1997, che include nel concetto di gestione "il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura" (3319). Viene inoltre invocata la Direttiva 75/442/CE, che impone agli Stati membri di adottare "le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo" (3322).
Il Collegio respinge queste argomentazioni, osservando che le norme citate stabiliscono prescrizioni autorizzatorie ma non creano obblighi penalmente rilevanti per i proprietari subentranti. Viene sottolineato che "le disposizioni di cui al D.Lgs. 22/97 non sembrano confermare la tesi degli appellanti" (3326) e che neppure questa normativa "prevede obblighi di bonifica a carico del proprietario in quanto tale, al di fuori dell'ipotesi di concorso nel fatto dell'inquinamento" (3329). Viene esclusa l'applicabilità della giurisprudenza comunitaria, poiché "la normativa comunitaria ha per destinatari esclusivamente gli Stati membri" (3333). Il Collegio conferma i principi della sentenza delle Sezioni Unite, respingendo l'interpretazione estensiva delle norme che violerebbe il principio di tassatività sancito dall'articolo 25 della Costituzione. Viene infine rigettata la teoria della posizione di garanzia basata su principi solidaristici, poiché "i principi solidaristici possono avere rilievo giuridico solo quando si concretizzano in norme giuridiche che impongano specifici obblighi di attivarsi" (3371).
//: t 24.23
Blocco 24: Danno genetico da inquinamento e accertamento del pericolo nel procedimento giudiziario
Presenza di addotti e micronuclei negli organismi lagunari e la contestata sussistenza di un pericolo concreto per la salute umana e pubblica in sede di appello.
Il sommario tratta della presenza accertata di "addotti" e "micronuclei", alterazioni del DNA, in mitili e pesci della laguna di Marghera, considerata una "chiara manifestazione di danno genetico provocato dalle sostanze immesse nelle acque dal Petrolchimico". Viene discusso il tentativo di estendere questo rischio alla collettività umana, poiché "un rischio analogo di modificazione genetica sussista anche per la collettività umana esposta direttamente o indirettamente alle stesse sostanze tossiche". Tuttavia, le indagini scientifiche non hanno confermato un nesso causale certo, in quanto "non è stato possibile attribuire un significato qualunque alla presenza di tali addotti in relazione ad un eventuale ipotetico danno allo stesso DNA" e "manca la prova che la presenza di addotti e di micronuclei sia dovuta alle sostanze immesse in laguna dal Petrolchimico". Viene inoltre esclusa la trasferibilità del danno all'uomo per via alimentare, essendo "notorio che il materiale genetico è qualcosa di altamente specifico, assolutamente non trasferibile per via alimentare da un organismo all’altro". L'argomento affronta anche la questione giuridica del pericolo concreto per i reati di avvelenamento e adulterazione delle acque. Si riporta che, sebbene il delitto di adulterazione sia un "reato di pericolo concreto", il pericolo deve essere "reale, individuato o individuabile attraverso norme scientifiche di copertura, non un pericolo supposto o immaginato". Viene contestata la tesi di ricorrere al superamento di "limiti-soglia" normativi come presunzione assoluta di pericolosità, poiché questi sono fissati "in vista di misure di tutela ultracautelare" e l'accertamento del pericolo concreto "impone sempre una dimostrazione reale e non ipotetica della pericolosità della condotta tipica".
//: t 25.24
Blocco 25: Inquinamento idrico e idrogeologia del Petrolchimico di Porto Marghera
Analisi giudiziaria sull'inquinamento delle falde acquifere e sull'impatto ambientale degli impianti industriali
Il sommario esamina la contaminazione delle falde acquifere nel Petrolchimico di Porto Marghera, distinguendo tre livelli idrici: il primo acquifero contenuto fra il caranto e il primo livello impermeabile situato a circa 15 metri di profondità, il secondo strato dove "vi è la prima vera falda acquifera risultata inquinata in modo apprezzabile soltanto in corrispondenza ad aree ristrette corrispondenti ai luoghi di deposito dei rifiuti", e il terzo acquifero tra il primo livello impermeabile e una formazione argillosa-limosa. Il Tribunale aveva escluso l'utilizzo delle falde entro i primi trenta metri di profondità per la loro "scarsissima portata e per la elevata salinità che le rendeva inidonee a qualsiasi uso antropico", ritenendo che l'assetto idrogeologico evidenziasse "l'assenza di un requisito indispensabile per la sussistenza del delitto di adulterazione e cioè quello della attingibilità almeno potenziale delle acque di falda". Viene contestato il trasferimento degli inquinanti verso i canali lagunari per le "bassissime velocità di falda" e la "grossa diluizione degli inquinanti", mentre per l'entroterra si esclude la contaminazione poiché "le falde erano orientate a scendere verso la laguna".
Viene discusso l'utilizzo umano delle falde, con il P.M. che rileva l'esistenza di "numerosi pozzi che pescano nelle prime falde" secondo uno studio del 1998 che indicava "l'esistenza nel territorio della Provincia di 463 pozzi noti", ma si precisa che tutti i pozzi ad uso industriale-alimentare risultano "lontani diversi chilometri dall'area dello stabilimento". Le falde mostrano una salinità "superiore a 10 g/l" che le rende non utilizzabili, dato che "l'uomo può bere senza danni acque salate fino a 2,5 g/l". Le indagini dirette confermano portate estraibili "molto basse (in genere non superiori a 0,1 - 0,2 l/s)" e "l'insignificante produttività degli acquiferi". In tema di impianti industriali, si contesta "la mancata adozione di dispositivi blow down sugli scarichi di emergenza" e si evidenzia che "lo scarico diretto in atmosfera degli sfiati di emergenza, anziché in un apposito sistema di raccolta, era la regola almeno fino al 1993", in contrasto con i principi di buona tecnica.
//: t 26.25
Blocco 26: Processi produttivi e questioni ambientali nel Petrolchimico di Marghera
Analisi giudiziaria delle scelte tecnologiche e del loro impatto ambientale nello stabilimento di Porto Marghera.
Il sommario tratta la produzione di 1,2 Dicloroetano nel reparto CV23 attraverso la reazione di ossiclorurazione di Acido cloridrico, Etilene e Aria, processo che "dà luogo alla formazione di residui consistenti in sottoprodotti clorurati, acqua di reazione e gas". Viene evidenziato come "da oltre venti anni è stata realizzata ed applicata in U.S.A. e in Giappone una modifica del processo produttivo con la sostituzione dell'Aria con Ossigeno puro" ottenendo "una riduzione degli effluenti gassosi, degli scarichi liquidi, dei residui, delle scorie e dei rifiuti di processo con aumento della resa produttiva", mentre "nel Petrolchimico di Marghera si era continuato e si continua a produrre con il vecchio processo ad Aria con il suo maggiore impatto ambientale". L'analisi si estende agli impianti di cloro-soda, dove "i primi impianti di produzione di cloro-soda realizzati a Marghera tra la fine degli anni quaranta e l'inizio degli anni cinquanta (CS3 e CS4) utilizzavano celle a catodo di mercurio che erano pacificamente molto inquinanti" con "un pesante impatto ambientale in considerazione della emissione di rilevanti quantità di reflui di processo fra cui anche fanghi mercuriali contenenti alti tassi di Mercurio". Viene discussa la scelta del 1971 di realizzare "un nuovo impianto di cloro-soda sempre a celle di mercurio" malgrado "la possibilità di adottare celle a diaframma" e le successive contestazioni riguardanti "la disponibilità di celle a membrana nel processo cloro-soda che non presentavano le controindicazioni delle cellule a diaframma o di quelle a mercurio".
Viene esaminato l'impianto di depurazione dei reflui derivanti dal processo cloro-soda, il "c.d. impianto di demercurizzazione delle acque collaudato nel dicembre 1982", con le contestazioni sul "ritardo con il quale è stato attivato a Marghera un simile impianto di depurazione" nonostante "fin dall'inizio degli anni '60 era disponibile la tecnologia impiantistica che consentiva la depurazione delle acque reflue in questione fino a limiti di concentrazione finale di 5 ppb di Mercurio e anche meno". Emerge però che "solo nel 1973 la Montedison depositò il brevetto per la realizzazione di un processo di abbattimento del mercurio per via chimica e che nel 1974 era iniziata a Porto Marghera la realizzazione dell'impianto di 'demercurizzazione' ultimato due anni dopo e cioè nel 1976". Per quanto riguarda il "depuratore biologico (SG31) per le acque reflue industriali", si rileva che "la tecnologia per la realizzazione degli impianti di trattamento chimico-fisico-biologico delle acque reflue industriali era disponibile negli anni '50", con riferimento specifico agli Atti del Convegno dell'Associazione Nazionale di Ingegneria Sanitaria del 1961 dove "le industrie, i tecnici e i ricercatori, le istituzioni a tutti i livelli erano già pienamente consapevoli della gravità del problema dell'inquinamento causato dagli scarichi industriali" e alla relazione del Prof. Luigi Mendia che aveva presentato "lo schema dell' 'Impianto consorziale del bacino del Niers' che era un impianto a fanghi attivi particolarmente idoneo all'epurazione di grandi volumi di scarico". Tuttavia, "l'impianto di Niers trattava acque dolci, mentre l'impianto da costruire a Marghera avrebbe dovuto trattare (come in effetti poi avvenne con l'impianto SG31) acque salmastre", rendendo necessaria "una adeguata sperimentazione per valutare e controllare il funzionamento di un impianto destinato a operare con acque salmastre non essendo disponibili nella letteratura tecnica dati sufficienti per la sua progettazione". Viene infine affrontata la questione della capacità dell'impianto SG31 di trattare composti organoclorurati, con riferimento al Decreto Ministeriale 26\5\1999 che afferma esplicitamente che "il trattamento biologico costituisce la migliore tecnologia disponibile per l'abbattimento delle diossine nelle acque reflue secondo gli Universal Standards dell'EPA" e al Documento tecnico di supporto che precisa come "un trattamento di chiariflocculazione ben effettuato si può ritenere che sia in grado di abbattere i solidi sospesi fino a qualche ppm, con presumibili abbattimenti dei microinquinanti organo clorurati adesi intorno al 95%".
//: t 27.26
Blocco 27: La disciplina giuridica degli scarichi idrici industriali e il principio di diluizione nel Petrolchimico
La regolamentazione degli scarichi industriali e la valutazione del carico inquinante nel contesto di un procedimento penale.
Il sommario tratta della questione della diluizione delle acque reflue industriali, affrontando la distinzione tra acque di processo, di raffreddamento e di lavaggio. Viene citato che "la diluizione vietata è esclusivamente quella realizzata mediante miscelazione delle acque reflue industriali con acque prelevate espressamente e specificamente allo scopo di diluire il refluo" (3607). La normativa di riferimento, in particolare la legge Merli e il D.Lgs. 152/99, viene analizzata per stabilire la liceità della confluenza di diverse correnti in uno scarico generale. Un tema minore riguarda l'interpretazione giurisprudenziale del divieto di diluizione, con riferimento a pronunce che sostenevano un "carattere assoluto ed inderogabile" del divieto (3621), sebbene tale orientamento venga considerato una "eccessiva forzatura del significato letterale della norma" (3622).
Il sommario prosegue con la questione del superamento dei limiti di accettabilità negli scarichi e della loro rilevanza penale. Viene evidenziato che, per i reati di disastro, avvelenamento e adulterazione, "dobbiamo accertare se a seguito degli accertati superamenti dei limiti di concentrazione si sia verificato un obiettivo peggioramento della qualità delle acque del corpo recettore" (3644). L'accento è posto sulla necessità di valutare il "carico inquinante complessivo" (3649) piuttosto che i singoli superamenti, citando che "la valutazione del contributo all’inquinamento del corpo idrico è una cosa diversa dal controllo del rispetto dei limiti di accettabilità" (3650). Viene infine menzionato il ritardo nell'adeguamento degli scarichi ai limiti di legge, attribuito all'entrata in vigore successiva delle disposizioni attuative.
//: t 28.27
Blocco 28: Origini e attribuzione della contaminazione industriale a Porto Marghera
La ricostruzione storica delle fonti di inquinamento e la disputa giudiziaria sull'attribuzione della responsabilità tra la prima e la seconda zona industriale.
Il sommario tratta l'evoluzione storica dell'inquinamento a Porto Marghera, concentrandosi sull'uso di rifiuti industriali per l'imbonimento del terreno a partire dagli anni '20, pratica che "si è protratta fino agli anni ’70 fino a raggiungere spessori medi di riporto di 2,5-3 m". Vengono esaminate le prove documentali e testimoniali, come la dichiarazione del tecnico Chiozzotto, che conferma "l’impiego di determinati materiali per recuperi altimetrici" utilizzando "i materiali di risulta delle attività produttive della prima zona industriale". L'analisi si estende alla contaminazione dei sedimenti nei canali, dove "le attività inquinanti della prima zona industriale continuarono fin oltre gli anni ’70", sostenuta dalle indagini sui sedimenti che rivelano come "i massimi di contaminazione risalivano agli anni ’50 – ’60". Viene discusso il metodo delle "impronte" delle diossine per distinguere le fonti di inquinamento, notando che "l’impronta di PCDD\F nei sedimenti si è mantenuta sostanzialmente costante nel tempo", indicando una differenza tra le emissioni della prima e della seconda zona industriale. Ulteriori temi minori includono il ruolo delle peci clorurate e dei "fanghi rossi", la cui provenienza è associata alla prima zona industriale, e la valutazione dei parametri di contaminazione come i "livelli C", considerati inadeguati per determinare un pericolo reale per l'ecosistema lagunare.
//: t 29.28
Blocco 29: Discrepanze analitiche e valutazione del rischio nella contaminazione di Porto Marghera
Contenzioso sulle analisi di contaminanti nei molluschi e criteri di valutazione del rischio per la salute umana e l'ambiente.
Il sommario affronta le divergenze tra i risultati delle analisi sui contaminanti nelle vongole condotte dal consulente Raccanelli e quelle del laboratorio MPU di Berlino, con valori "notevolmente inferiori" nei secondi. Viene contestata la metodologia di confronto, inclusa la mancata considerazione della stagionalità – poiché le vongole analizzate da Raccanelli erano state raccolte ad ottobre e avevano raggiunto "la fase di massimo accumulo annuale", mentre quelle di Berlino a febbilio erano "meno grasse" – e la proposta di "normalizzazione" dei dati basata sul contenuto di lipidi e sostanza secca, avanzata solo dopo la conoscenza dei risultati di Berlino nonostante precedentemente tutti i consulenti avessero "sempre espresso la concentrazione dei contaminanti facendo riferimento alla parte edibile senza alcuna normalizzazione". Si discute l'uso del valore mediano nelle comparazioni, ritenuto dal P.M. inappropriato in quanto eliminerebbe "il campione più inquinato" ignorando i "forti consumatori", mentre la sentenza lo considera adatto quando "la serie dei valori non segue una distribuzione normale". Viene esaminato il calcolo dell'esposizione umana ai contaminanti, dove per un ragazzo di 40 kg la Dose Giornaliera Accettabile richiederebbe l'assunzione di "44,5 –180 grammi di vongole (parte edibile)" giornalieri basandosi sui dati di Berlino. Infine, si valuta il trasferimento di inquinanti dalla falda sotto il Petrolchimico alla laguna, stimando un apporto di "4 litri al secondo" che, con concentrazioni medie di diossine di "112 pg/l (I-TE)", porterebbe a un quantitativo annuo di "circa 14 mg (I-TE)/anno", considerato "considerevole e prevedibile" nonostante i campioni con valori elevati provengano da "piezometri superficiali e pescano nell'acqua del terreno di riporto".
//: t 30.29
Blocco 30: Valutazione del rischio da diossine e PCB nella laguna di Venezia
Dibattito giudiziario su esposizione a diossine e PCB da consumo di prodotti ittici lagunari
Il sommario affronta la controversia giudiziaria relativa alla stima del rischio per la salute umana derivante dall'esposizione a diossine e PCB diossina-simili attraverso il consumo di prodotti ittici della laguna di Venezia. Viene discusso il valore di TDI (Tollerable Daily Intake) di riferimento, con riferimento al parametro di "1 pg WHO-TEQ/Kg peso corporeo/giorno" indicato dall'SCF nel 2000 e al successivo aumento a "2 pg WHO-TEQ/kg peso corporeo/die" nel 2001. Emerge la questione dell'esposizione di fondo, dove si rileva che "manca qualsiasi termine di raffronto e cioè l'indicazione dell'esposizione di fondo dei consumatori veneziani" e che "non esistono studi che riportino tali stime". Viene analizzato il contributo dei PCB diossina-simili alla tossicità equivalente, con l'indicazione che "la considerazione del contributo dei PCB dioxin-like comporterebbe un incremento delle concentrazioni tossicologicamente equivalenti di un fattore tra 2 e 3". Sono esaminati i parametri di consumo e resa edibile dei bivalvi, con particolare attenzione alla differenza tra il "25% per le vongole" indicato dall'INRAN e il "10% del peso lordo" riscontrato nelle analisi processuali. Vengono confrontate le concentrazioni di contaminanti riscontrate nei campioni lagunari con i valori di riferimento internazionali, evidenziando come "la concentrazione limite (CL) proprio per le diossine ammesse nei prodotti ittici" sia stabilita in "4 WHO-TEQ/g di prodotto fresco". Il Tribunale ha basato le sue conclusioni su "dati reali validamente acquisiti agli atti del processo" piuttosto che su "semplici stime di rischio basate su modelli matematici", rilevando "l'esistenza di un ampio margine di sicurezza" tra l'esposizione effettiva e i valori di riferimento.