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Niccolò Machiavelli - Il Principe - Lettura (13m)

//: 2025-10-20 22:11:00 +0200


//: t 1.0

1. Struttura e temi centrali de Il Principe: l’arte del governo e la conservazione del potere

Dall’acquisizione dei domini alla condotta del principe: strategie, virtù e rischi tra guerra, reputazione e fortuna.

Sommario

Il blocco delinea un trattato sistematico sulle forme di principato e sulle tecniche per ottenerlo, mantenerlo ed espanderlo, articolandosi in una progressione logica che parte dall’analisi delle “città o principati che vissero con leggi proprie prima di essere annessi” (fr. 12) per approdare alle “cose per le quali gli uomini, e specialmente i principi, sono lodati o biasimati” (fr. 22). La sezione iniziale esamina i modi di conquista: principati “acquisiti con le proprie armi e abilità” (fr. 13), “con le armi altrui o per fortuna” (fr. 14), o “per malvagità” (fr. 15), distinguendo tra “principato civile” (fr. 16) ed “ecclesiastico” (fr. 18) e misurando “la forza di tutti i principati” (fr. 17). Un nucleo centrale affronta gli strumenti militari — “quanti generi di milizie esistano e i mercenari” (fr. 19), “gli ausiliari, le milizie miste e quelle proprie” (fr. 20) — e il “dovere del principe in materia di guerra” (fr. 21), mentre la parte successiva indaga le “qualità che attirano lode o biasimo” (fr. 22), dalla “liberalità e avarizia” (fr. 23) al dilemma “se sia meglio essere amato che temuto” (fr. 24), passando per “come i principi debbano mantenere la fede” (fr. 25) e “evitare di essere disprezzati e odiati” (fr. 26). Tematiche minori includono l’uso delle “fortificazioni” (fr. 27) e i “metodi per guadagnare fama” (fr. 29), fino a un’analisi critica dei “principi d’Italia che hanno perso i loro stati” (fr. 32) e del “ruolo della fortuna negli affari umani” (fr. 33). Chiude il blocco un’“esortazione a liberare l’Italia dai barbari” (fr. 34), affiancata da esempi storici come “i metodi del Duca Valentino” (fr. 34) e “la vita di Castruccio Castracani” (fr. 34), a sottolineare l’applicazione pratica delle teorie esposte.

Note
Frasi citate

//: t 2.1

2. Machiavelli tra Firenze, potere e scrittura: una vita tra Repubblica, esilio e opere immortali

Dalla giovinezza sotto Lorenzo il Magnifico agli intrighi di Cesare Borgia, dalle missioni diplomatiche all’esilio letterario: le tappe di un pensatore che trasformò la sconfitta politica in una rivoluzione intellettuale.

Il blocco traccia la vita di Machiavelli come un percorso segnato da tre fasi distinte: la formazione in una Firenze divisa tra lo sfarzo mediceo e l’austerità savonaroliana, l’ascesa come funzionario della Repubblica (1494-1512) e la successiva emarginazione, durante la quale la scrittura divenne il suo unico strumento di influenza. La giovinezza è descritta come un’epoca di contrasti, dove „la magnificenza del governo mediceo durante la vita di Lorenzo sembrerebbe aver impressionato fortemente Machiavelli, tanto che vi fa spesso riferimento nei suoi scritti“ (50), mentre l’influenza di Savonarola è liquidata come „un soggetto di scherno ne *Il Principe, citato come esempio di un profeta disarmato che fece una brutta fine“ (49). Il periodo in carica, invece, è costellato da missioni diplomatiche che forniscono materia prima per le sue opere: dalle trattative con „Caterina Sforza, ‘la mia signora di Forlì’“ (62), da cui trae „la morale che è molto meglio guadagnarsi la fiducia del popolo che affidarsi alle fortezze“ (63), agli incontri con „Cesare Borgia, acclamato da alcuni come l’‘eroe’ de *Il Principe“* (67), pur essendo „citato come colui che sorge con la fortuna altrui e cade con essa“ (68). La caduta dei Medici nel 1527, pochi mesi prima della sua morte, chiude il cerchio di una vita spesa „tra lo studio della ragion di Stato e la fedeltà a un’idea di Firenze che non si realizzò mai“ (96).

L’esilio forzato dopo il 1512 segna la nascita delle opere maggiori, frutto di „quindici anni di studio in cui non ho né dormito né ozioso“ (95). Il Principe, inizialmente dedicato a „Giuliano de’ Medici“ (90) e poi a Lorenzo, nasce come „un piccolo trattato sui principati, dove mi svuoto in meditazioni su cosa siano, come si acquisiscono, si mantengono, si perdono“ (89), mentre i Discorsi su Livio e la Storia di Firenze riflettono la sua „ossessione per le lezioni del passato“ (97). Le lettere private, come quella a „Francesco Vettori, dove descrive le sue serate in solitudine tra ‘gli antichi’“* (88), rivelano un uomo „possesso interamente da quei grandi“ (88), ma anche consapevole che „la povertà testimonia la mia onestà“ (96). Il paradosso della sua eredità — „un nome sinonimo di cinismo, eppure reinterpretato come germoglio del Risorgimento italiano“ (108) — emerge dalle contraddizioni di una carriera „modestamente prospera in politica, ma immortale nella letteratura“ (112), dove „solo sul versante letterario non si trova debolezza né fallimento“ (115). Le opere, „ancora dibattute dopo quattro secoli“ (116), restano „attuali finché i governi europei si affidano a forze materiali più che morali“ (117), mentre la sua figura, „liberata dall’immagine del ‘necromante empio’“* (110), incarna „l’idea dell’unità italiana“ (108) che Firenze, sua musa e carnefice, non seppe realizzare.


//: t 3.2

3. Sulla stabilità dei principati: eredità, conquista e gestione dei territori annessi

Dalle dinamiche dei domini ereditari alle insidie delle annessioni: strategie di controllo tra continuità e rottura.

Il testo analizza le differenze tra principati ereditari e quelli acquisiti, evidenziando come i primi siano più facili da conservare perché „basta non trasgredire le consuetudini degli avi e agire con prudenza nelle circostanze“ (162). La legittimità storica riduce la necessità di offendere i sudditi, favorendo „un disposizione naturale al bene“ (164), a meno che „vizi straordinari“ non generino odio. Esempi come il „Duca di Ferrara“ (163) dimostrano come la longevità del potere rafforzi la resistenza agli attacchi esterni, cancellando „le memorie e i motivi del cambiamento“ (164).

Le difficoltà emergono nei „principati misti“ (166), dove i sudditi, „cambiando padrone per migliorare“, scoprono „di essere passati dal male al peggio“ (167). La conquista comporta oneri immediati: „il principe nuovo graverà i sudditi con soldati e infinite altre molestie“ (168), creando nemici tra chi ha perso privilegi e deludendo gli alleati che lo hanno sostenuto. L’esempio di „Luigi XII“ a Milano (171) illustra come „la delusione nelle speranze di beneficio“ spinga alla rivolta, mentre una seconda conquista richiede „punizioni, epurazioni e rafforzamenti“ (172) per consolidare il dominio. La residenza permanente del principe nei territori annessi („come il Turco in Grecia“ 182) è presentata come strategia chiave: permette di „vedere i disordini nascere“ (183) e „soddisfare i sudditi con ricorso pronto“ (184), bilanciando amore e timore. Alternative come le „colonie“ (186) — meno costose e più fedeli delle guarnigioni — offendono solo „una minoranza povera e dispersa“ (188), mentre „le truppe stanziali esasperano tutti“ (190), trasformando „l’acquisizione in una perdita“. La regola „o si tratta bene o si schiaccia“ (189) sintetizza l’approccio: le offese devono essere tali da „non temere vendetta“.


Note

(165) e (175) segnalano transizioni tra capitoli; (174) fornisce un riferimento biografico a Lodovico Moro.

Riferimenti testuali

Frasi 158–191, con focus su 160–164 (principati ereditari), 166–173 (conquista e rivolta), 178–191 (strategie di consolidamento).


//: t 4.3

4. Gli errori di Luigi XII e la perdita della Lombardia: strategie fallite e conseguenze inevitabili

L’ascesa e il crollo dell’influenza francese in Italia attraverso le scelte di un re che, pur avendo „tutte le porte chiuse“ per via delle azioni di Carlo VIII, riuscì a guadagnare alleati in Lombardia, ma li perse per „cinque errori“ fatali: l’indebolimento dei potenti minori, l’ingrandimento della Chiesa, l’introduzione di una potenza straniera, la mancata stabilizzazione del territorio e la divisione del Regno di Napoli. Il testo analizza come „il desiderio di acquisire“—se non supportato da „forze proprie“—porti a „follia e biasimo“, e come la concessione della Romagna ad Alessandro VI e del Napoli alla Spagna, invece di evitare la guerra, ne „differì solo lo svantaggio“. Ne emerge una regola generale: „chi è causa dell’altrui potenza, ne è rovinato“, poiché „sia l’astuzia sia la forza“ usate per elevare un alleato diventano armi contro chi le ha impiegate.

Il blocco si sofferma sulle dinamiche di potere tra Stati italiani, sulla „debolezza e timidezza“ degli alleati—divisi tra la paura della Chiesa e di Venezia—e su come Luigi XII, invece di sfruttare la loro dipendenza, abbia „aggrandito la Chiesa“ aggiungendo „potere temporale allo spirituale“, scatenando una reazione a catena. La divisione del Napoli con la Spagna, priva della „necessità“ che giustificava l’accordo con Venezia in Lombardia, si rivela un „errore capitale“, mentre la distruzione di Venezia—pur „ragionevole“ in astratto—diventa insostenibile dopo aver già alterato gli equilibri. Le riflessioni finali estendono il discorso a una „regola generale“ sulla gestione dei territori conquistati, con un confronto implicito tra l’incapacità francese e l’abilità di Alessandro Magno, cui si accenna nel passaggio successivo.


Note e riferimenti

Riferimenti alle fonti citate
Chiarimenti lessicali

//: t 5.4

5. Sulla conquista e il mantenimento degli Stati: modelli a confronto e strategie di dominio

Stati centralizzati e frammentati: analisi delle dinamiche di potere tra il Sultano turco e il Re di Francia.


Didascalia

Due sistemi di governo a confronto: l’unità del despota e la frammentazione feudale, tra difficoltà di conquista e instabilità di possesso.


Sommario

Il testo delinea due modelli opposti di organizzazione statale, esemplificati dal “monarca turco” e dal “Re di Francia”: il primo governa “un solo signore” circondato da “servi” privi di autonomia, il secondo si trova “in mezzo a un corpo antico di signori, riconosciuti e amati” dai propri sudditi. La differenza strutturale si riflette nelle strategie di conquista: “attaccare il Turco” richiede “contare sulla propria forza”, poiché “i suoi ministri, essendo tutti schiavi, possono essere corrotti con difficoltà” e “non possono trascinarsi dietro il popolo”; al contrario, in “regni come la Francia” basta “guadagnare qualche barone” per aprire la strada, ma “mantenere lo Stato dopo la vittoria” diventa “infinito nelle difficoltà”, poiché “i signori che restano si fanno capi di nuove rivolte”. La stabilità post-conquista dipende dall’“estirpare la famiglia del principe” nel primo caso, mentre nel secondo persiste “il ricordo delle antiche libertà”, alimentando “tumulti” e “desiderio di vendetta”.

Il parallelo storico con “Dario” e “Alessandro” conferma che “una volta sconfitto il sovrano e annientata la sua stirpe, lo Stato rimane sicuro”, laddove “le repubbliche” o i “territori abituati alla libertà” esigono “distruzione o presenza diretta” del conquistatore, come dimostrano “Sparta” (che “perse Atene e Tebe” pur instaurandovi un’“oligarchia”) e “Roma” (che “disarmò Capua, Cartagine e Numanzia” per “non perderle”). La “vitalità” delle città libere, “slow a dimenticare il nome della libertà”, contrasta con l’“abitudine all’obbedienza” dei popoli assuefatti a un principe, dove “non sanno governarsi” e “si lasciano conquistare con facilità”. La riflessione si chiude con un monito: “chi diventa padrone di una città abituata alla libertà e non la distrugge, può aspettarsi di essere distrutto da lei”, poiché “né il tempo né i benefici cancellano quel ricordo”. Emergono così temi minori come il ruolo della “memoria collettiva” e la “corruzione dei ministri”, nonché la “necessità di adattare le strategie alla natura dello Stato soggiogato”.


//: t 6.5

6. L’ascesa al potere: virtù, opportunità e fondamenti del principato

Quando la capacità individuale incontra il caso, e la forza prevale sulla preghiera.

Il blocco analizza i meccanismi attraverso cui individui dotati di «alta abilità» (276) conquistano e mantengono il potere, distinguendo nettamente chi si affida alla «fortuna» (279) da chi agisce con «valorose vie» (286). Le figure esemplari—Mosè, Ciro, Romolo, Teseo—dimostrano che «l’opportunità» (279) è condizione necessaria ma non sufficiente: senza «le potenze della mente» (280), anche «il materiale da plasmare» (279) resterebbe inerte. Ogni leader trova una situazione preesistente che ne giustifica l’ascesa: «il popolo d’Israele oppresso» (281) per Mosè, «i Persiani scontenti» (283) per Ciro, «gli Ateniesi dispersi» (284) per Teseo. La «difficoltà di introdurre un nuovo ordine» (288) emerge come tema centrale: «l’innovatore ha per nemici tutti coloro che traevano vantaggio dalle vecchie condizioni» (288), mentre «i difensori tiepidi» (289) ostacolano il cambiamento per «paura» (289) e «incredulità» (289). La forza armata si rivela decisiva—«tutti i profeti armati hanno vinto, quelli disarmati sono stati distrutti» (293)—come dimostra il parallelo tra «Mosè, Ciro, Romolo» (296) e «fra’ Girolamo Savonarola», rovesciato «non appena la moltitudine smise di credergli» (296). La stabilità del principato dipende dalla capacità di «porre le fondamenta» (307) dopo l’ascesa, come nel caso di «Francesco Sforza» (310), che «conquistò con mille ansie e mantenne con poco affanno», a differenza di «Cesare Borgia», la cui caduta fu «colpa della malignità estrema della fortuna» (316).

Il testo sottolinea anche la «natura variabile del popolo» (294): «facile da persuadere, difficile da fissare in quella persuasione» (294), il che impone «misure tali che, quando non credono più, si possa farli credere con la forza» (295). I pericoli maggiori si concentrano «nella salita» (297), ma una volta «esterminati gli invidiosi» (297), il principe «diventa potente, sicuro, onorato e felice». L’esempio minore di «Ierone il Siracusano» (298) conferma il modello: «non doveva nulla alla fortuna se non l’opportunità» (299), e grazie a «soldati e alleati propri» (301) «costruì qualsiasi edificio» (301) sul suo dominio. In controparte, chi sale «solo per fortuna» (303) —come i principi creati da *«Dario» (304) o dagli «imperatori corrotti» (304)—«ha poche difficoltà a salire, ma molte a restare» (303), poiché «si regge sulla buona volontà e sulla fortuna altrui, due cose incostanti» (305). La «mancanza di conoscenze» (306) e di «forze fedeli» (306) li rende vulnerabili al «primo uragano» (307), a meno che non «pongano dopo le fondamenta che altri hanno posto prima» (307). La chiusura introduce due casi storici—«Francesco Sforza» (310) e «Cesare Borgia» (311)—per illustrare come «la capacità» (310) possa compensare l’«instabilità della fortuna» (316), pur con «fatica per l’architetto e pericolo per l’edificio» (315).


Note

Riferimenti testuali
Fonti implicite

//: t 7.6

7. Il principe e il popolo: strategie di potere tra nobiltà e consenso popolare

Come la legittimità si costruisce tra fedeltà forzata e protezione, tra diffidenza verso i nobili e alleanza con le masse.

Il blocco analizza le dinamiche di acquisizione e mantenimento del potere da parte di un principe, contrapponendo due vie: l’ascesa tramite il favore dei nobili e quella tramite il sostegno popolare. Il testo sottolinea come «chi ottiene la sovranità con l’aiuto dei nobili si trovi circondato da molti che si ritengono suoi pari» (426), rendendo il governo instabile, mentre «chi giunge al potere col favore del popolo si trova solo, con pochi o nessuno intorno che non sia pronto a obbedirgli» (427). La distinzione si fonda sulla natura degli obiettivi: «il popolo desidera solo non essere oppresso, i nobili vogliono opprimere» (428), il che rende il primo più facile da soddisfare e meno pericoloso in caso di ostilità, poiché «un principe non può mai difendersi da un popolo nemico, essendo troppo numerosi, ma può difendersi dai nobili, che sono pochi» (429). Il rapporto con i nobili richiede prudenza: alcuni vanno «onorati e amati» se leali (433), altri temuti come «nemici dichiarati» se ambiziosi (434). Il principe deve invece «mantenere il popolo amico» (435), poiché «gli uomini, quando ricevono bene da chi si aspettavano male, si legano più strettamente al loro benefattore» (437). L’esempio di «Nabi, principe di Sparta, che resistette a tutta la Grecia e a un esercito romano vittorioso» (438) dimostra come la fedeltà popolare sia decisiva, mentre il proverbio «chi costruisce sul popolo costruisce sulla melma» (439) viene smentito per i principi forti, «che non si lasciano scoraggiare dalle avversità» (440).

Il discorso si estende alla gestione delle città e delle risorse: un principe saggio «deve fare sì che i cittadini abbiano sempre bisogno di lui» (447), fortificando le mura e garantendo approvvigionamenti, come nelle «città libere di Germania, che non temono alcun potere grazie a fossati, artiglieria e scorte annue» (454). La difesa non è solo materiale: «un principe non odiato non verrà attaccato» (456), e anche di fronte a devastazioni esterne, «i sudditi si stringeranno a lui, sentendosi in debito dopo aver perso tutto in sua difesa» (458), poiché «gli uomini sono legati tanto dai benefici che danno quanto da quelli che ricevono» (459). Il blocco accenna infine ai «principati ecclesiastici», unici a reggersi «sulle antiche ordinanze religiose» (463) senza necessità di difendersi o governare attivamente, ma il tema viene scartato come «al di sopra delle capacità umane» (465).


Note

(1) Nabis: tiranno di Sparta (207–192 a.C.), sconfitto dai Romani nel 195 a.C. (2) Messer Giorgio Scali: figura citata nella Storia fiorentina di Machiavelli (libro III), esempio di chi confidò nel popolo senza successo.


//: t 8.7

8. La liberalità e la crudeltà come strumenti di governo: tra reputazione e necessità pratica

Quando la generosità diventa un lusso pericoloso e la severità una virtù indispensabile

Il blocco analizza il paradosso della liberalità e della crudeltà come attributi del principe, dimostrando come la prima, se esercitata senza moderazione, conduca a „diventare povero o disprezzato, oppure, per evitare la povertà, rapace e odiato“. La liberalità è utile solo se finanziata con risorse altrui („non toglie reputazione se sperperi ciò che è degli altri“), mentre il principe che spende le proprie ricchezze „perde il potere di esserlo“ e rischia di „offendere molti e ricompensare pochi“. Esempi storici come Giulio II e il re di Spagna confermano che „non si sono viste grandi imprese se non da chi è stato considerato avaro“. La crudeltà, invece, viene giustificata come mezzo per „mantenere uniti e leali i sudditi“, purché „eviti l’odio“ e non si estenda al „patrimonio altrui“, poiché „gli uomini dimenticano prima la morte del padre che la perdita dei beni“. Il confronto tra Annibale e Scipione illustra come la „temerarietà della clemenza“ possa minare l’autorità, mentre una „crueltà misurata“ garantisca ordine. Il nucleo del ragionamento si concentra sulla scelta tra „essere amati o temuti“, concludendo che „è molto più sicuro essere temuti“, poiché „l’amore si spezza al primo vantaggio, la paura no“. Tematiche minori includono la gestione delle armate („senza crudeltà non si tiene unito un esercito“) e la distinzione tra „principe in ascesa“ (per cui la liberalità è „necessaria“) e „principe consolidato“ (per cui diventa „pericolosa“).

La riflessione si chiude con un monito: meglio „una reputazione di avarizia, che non genera odio“, che „una liberalità che porta alla rapacità, odiata da tutti“. La crudeltà, se „giustificata e moderata“, si rivela funzionale al potere; la clemenza, se eccessiva, „corrompe e disgrega“. Il principio guida è la conservazione dello Stato, anche a costo di „virtù apparenti“ che, in realtà, „distruggono chi le pratica senza discernimento“.


//: t 9.8

9. Il destino degli imperatori tra virtù, crudeltà e il favore delle legioni

Quando la moderazione diventa debolezza e la ferocia un’arma a doppio taglio: le sorti di chi governa tra l’odio del popolo e la lealtà dei soldati.

Il blocco analizza le dinamiche di potere che determinano la sopravvivenza o la caduta degli imperatori romani, evidenziando come il rapporto con l’esercito e il popolo sia cruciale e spesso paradossale. „Quindi, quegli imperatori che per inesperienza avevano bisogno di un favore speciale si affidavano più volentieri ai soldati che al popolo; scelta che si rivelò vantaggiosa o meno a seconda che il principe sapesse mantenere su di loro la propria autorità“ (740). La legittimità ereditaria, come nel caso di Marco Aurelio„l’unico che visse e morì onorato, perché era succeduto al trono per titolo ereditario“ (741) — si contrappone alla fragilità di chi, come Pertinace, tenta di imporre „una vita onesta“ (742) a legioni abituate alla corruzione, scatenandone „l’odio“ e „il disprezzo per la sua vecchiaia“ (742). Il testo sottolinea come „l’odio si acquisti tanto con le buone azioni quanto con le cattive“ (743), costringendo i principi a „fare il male“ quando „il corpo di cui credi aver bisogno per mantenerti — che sia il popolo, i soldati o i nobili — è corrotto“ (743). Esempi come Alessandro Severo, „uomo di così grande bontà“ da non condannare „nessuno a morte senza processo“ (744), dimostrano come la clemenza possa trasformarsi in „effeminatezza“ e „disprezzo“ (744), mentre la crudeltà sistematica di Commodo, Caracalla e Massimino„uomini che, per compiacere i soldati, non esitavano a commettere ogni tipo di iniquità contro il popolo“ (745) — assicura loro un potere effimero, tranne nel caso di Settimio Severo, la cui „valentia“ lo rende „ammirato“ e „temuto“ (745). La sua abilità nel „imitare la volpe e il leone“ (746) si manifesta in strategie come l’inganno di Albino (751-753) e la repressione spietata dei rivali, „fece sì che la sua fama suprema lo proteggesse dall’odio che il popolo avrebbe potuto concepire per la sua violenza“ (744).

Il sommario prosegue con i casi di Antonino Caracalla, „amato dagli eserciti“ per il „disprezzo dei cibi delicati“ (755) ma „odiato dal mondo intero“ per „crudeltà inaudite“ (756), e di Massimino, il cui „umile passato da pastore“ (763) e la „fame di barbarie“ (763) ne accelerano la fine. „L’odio o il disprezzo“ (770) emergono come fili conduttori: „un solo imperatore in ciascun gruppo ebbe fine felice, gli altri infelice“ (770), perché „sarebbe stato inutile e pericoloso per Pertinace e Alessandro, principi nuovi, imitare Marco, erede del principato; allo stesso modo, sarebbe stato distruttivo per Caracalla, Commodo e Massimino imitare Severo, non avendo il suo valore“ (771). La conclusione sintetizza la lezione: un principe „non può imitare le azioni di Marco“ se nuovo al potere, „né deve seguire ciecamente quelle di Severo“ (772), ma „deve prendere da Severo ciò che serve a fondare lo stato e da Marco ciò che è glorioso per mantenerlo“ (772). Il testo accenna infine a una distinzione storica: „i principi dei nostri tempi“ (765) devono „soddisfare il popolo più che i soldati“ (765), eccezion fatta per „il Turco e il Soldano“ (766), i cui regni dipendono esclusivamente dalle „truppe“ (767).


Note

Contesto delle citazioni

(740-744) Analisi del rapporto tra imperatori, esercito e popolo, con focus su Marco Aurelio, Pertinace e Alessandro Severo. (745-754) Confronto tra la spietatezza strategica di Settimio Severo e la decadenza di Commodo, Caracalla, Massimino. (755-759) Il caso di Caracalla: virtù militari e eccessi che portano all’assassinio. (760-764) La fine di Commodo e Massimino, tra disprezzo e rivolta. (765-769) Eccezioni storiche: il Turco, il Soldano e il pontificato romano come modelli atipici. (770-772) Sintesi delle lezioni politiche: equilibrio tra fondazione e mantenimento del potere.

Temi minori

//: t 10.9

10. La formazione di Castruccio: dall’infanzia protetta alla conquista del potere

Un destino tra armi e ambizione, tra tutori e tradimenti

Il blocco descrive la crescita di Castruccio, allevato come un figlio da una coppia senza prole e inizialmente avviato alla vita ecclesiastica per volontà di Messer Antonio, il quale però riconosce presto che il ragazzo è „del tutto inadatto al sacerdozio“. Abbandonati i libri religiosi, Castruccio si dedica alle armi e agli esercizi fisici, distinguendosi per „coraggio e forza corporea“ e prediligendo „le storie di guerre e le gesta degli uomini valorosi“. La sua indole attira l’attenzione di Messer Francesco Guinigi, condottiero ghibellino che lo accoglie in casa propria, trasformandolo in un cavaliere abile e rispettato: „in breve tempo manifestò tutta quella virtù e quel portamento che si addicono a un vero gentiluomo“. La morte di Francesco lo catapulta al ruolo di tutore del giovane Pagolo e governatore della sua casa, accrescendo il suo prestigio ma anche le invidie, in particolare quella di Giorgio degli Opizi, capo dei guelfi lucchesi. Temendo una congiura, Castruccio trama con esuli ghibellini e alleati pisani per rovesciare il potere avverso: la notte stabilita, con l’aiuto di Uguccione da Faggiuola, assalta Lucca, uccide Giorgio e riforma il governo, scatenando esili e ostilità durature.

Il testo evidenzia temi minori come il conflitto tra vocazione individuale e progetti altrui („nulla lo avrebbe reso più felice che abbandonare gli studi sacerdotali per quelli militari”), la lealtà strumentale („mostra a Pagolo la stessa benevolenza che io ho sempre avuto per te”), e la fragilità del consenso politico, dove „l’invidia sostituì il benevolere universale“. La narrazione culmina nella violenza del colpo di stato, dove la „porta di San Piero“ diventa simbolo di una frattura irreversibile tra fazioni.


//: t 11.10

11. La battaglia di Montecatini e la caduta di Castruccio: strategia, tradimento e conseguenze

Quando l’astuzia militare si scontra con l’ambizione e la vendetta

Il blocco descrive la campagna militare tra Guelfi e Ghibellini in Toscana, incentrata sulla battaglia di Montecatini, dove Castruccio, subentrato al malato Uguccione, rovescia le sorti del conflitto con una tattica innovativa: „mettere i suoi uomini più valorosi sulle ali“ mentre „i soldati meno affidabili al centro“, sfruttando la „presunzione“ dei Guelfi, che „ogni giorno si schieravano in ordine di battaglia“ per sfidarlo. La vittoria, „senza molta difficoltà“, decima l’esercito avversario („più di diecimila morti“), ma scatena la gelosia di Uguccione, che „concepì sospetti“ verso Castruccio. Il tradimento si consuma con un pretesto: il rifiuto di consegnare un assassino rifugiatosi presso Castruccio, „cacciati via i sergenti del capitano“. Uguccione ordina l’arresto durante un banchetto, ma l’esecuzione viene ritardata dal figlio Neri, „temeva l’indignazione del popolo“, finché la ribellione dei Pisani interrompe il piano. Emergono temi minori come la fragilità del comando („l’esercito, perdendo il capitano, aveva perso la testa“), la giovinezza temeraria („Francesco, figlio di Uguccione, giovane e imprudente“), e il ruolo delle alleanze instabili („principi venuti in aiuto“ ai Guelfi). La narrazione si chiude con un colpo di scena: la rivolta pisana che salva indirettamente Castruccio, lasciando Uguccione „ancora lontano dalle terme“ quando il suo potere crolla.


//: t 12.11

12. L’ascesa di Castruccio: dalla prigionia al dominio su Lucca e Pisa

Tra intrighi popolari, conquiste militari e alleanze imperiali: la scalata di un uomo da prigioniero a signore di Tuscany.

Sommario

Il blocco narra la rapida ascesa di Castruccio da prigioniero a signore di Lucca e Pisa, innescata dalla rivolta dei Lucchesi contro Uguccione. La liberazione di Castruccio, ottenuta con “la minaccia di peggiori conseguenze” (1116), segna l’inizio di una serie di eventi che lo portano a “diventare quasi un principe” (1118) grazie al sostegno popolare e a una campagna militare metodica. Le sue prime azioni includono la riconquista di “Serezzana, Massa, Carrara e Lavenza” (1121) e il controllo strategico della “Lunigiana” (1121), culminando nella “cattura di Pontremoli” (1122) per chiudere i passi lombardi. Il consolidamento del potere avviene con la “corruzione” (1124) di esponenti lucchesi e l’elezione a “principe” (1124), sancita poi dall’alleanza con “Federico di Baviera” (1125), che gli conferisce “il titolo di signore di Pisa” (1129) e la “luogotenenza imperiale in Toscana” (1127).

Il testo evidenzia anche la sua strategia espansionistica, basata su “una lega con Matteo Visconti” (1133) e la “suddivisione del contado lucchese in cinque parti armate” (1134), capaci di mobilitare “ventimila soldati” (1134). L’obiettivo finale, “diventare padrone di tutta la Toscana” (1133), si concretizza con l’invasione del “Valdarno” (1137) e la “presa di Fucecchio e San Miniato” (1137), mosse volte a costringere Firenze a ritirare le truppe da Lombardia. Emergono temi minori come il ruolo degli esiliati ghibellini (1132), la paura pisana verso “Gaddo della Gherardesca” (1128), e l’uso sistematico della “forza e degli accordi” (1119, 1133) per legittimare il potere.


//: t 13.12

13. La strategia di Serravalle e la caduta di Castruccio: dall’agguato nel valico alla sconfitta sull’Arno

Tra la mossa audace in un passaggio montano e l’epilogo di una campagna militare, il dominio di Castruccio su Firenze si consuma in due battaglie decisive, dove la topografia diventa arma e la fortuna tradisce al culmine del trionfo.


Sommario

Il blocco descrive la campagna di Castruccio contro Firenze, articolata in due momenti chiave: l’agguato nel Val di Nievole e la battaglia sull’Arno. La prima fase si fonda sulla conquista notturna del castello di Serravalle (1185), roccaforte strategica controllata dal neutrale Manfred (1186), dove „venti uomini affiancati avrebbero potuto tenerlo“ (1185). Castruccio, consapevole della „superiorità numerica dei fiorentini“ (1183) ma fiducioso nel „valore delle sue truppe“ (1184), orchestra un tradimento interno: „quattrocento dei suoi uomini sarebbero stati ammessi nel castello la notte prima dell’attacco“ (1189), mentre l’esercito fiorentino, „senza sospettare che Castruccio avesse occupato la collina“ (1194), cade in un’imboscata nel passaggio stretto, dove „soldati impreparati furono attaccati da soldati pronti“ (1196). La sconfitta è „più dovuta alla posizione sfavorevole che al valore del nemico“ (1202), e si conclude con la „cattura di nobili fiorentini“ (1205) e la „resa di Pistoia“ (1206).

La seconda fase si sposta nella pianura di Fucecchio (1224), dove Castruccio, „non allarmato dall’enorme armata fiorentina“ (1222), sfrutta la „posizione vantaggiosa“ tra i fiumi Arno e Gusciana (1225) per costringere i nemici a „guadare il fiume, dove l’acqua arrivava alle spalle dei fanti“ (1229). La battaglia del 10 giugno 1328 si trasforma in una „lotta disperata“ (1236): i fiorentini, „impediti dalle armi e dal fango“ (1232), vengono „ricacciati in acqua“ (1241) dalle riserve di Castruccio, che „urlava ai suoi uomini: ‘Sono gli stessi nemici che avete già sconfitto a Serravalle’“ (1238). La vittoria è „sanguinosissima“ (1249), con „ventimila morti fiorentini“ (1250), ma la „fortuna, invidiosa della gloria di Castruccio“ (1251), lo stroncà con una „febbre contratta sul campo“ (1254). Nel discorso finale a Pagolo Guinigi (1256), il condottiero ammette che „se avesse saputo che la fortuna lo avrebbe tagliato fuori a metà strada, avrebbe lavorato meno“ (1256), lasciando uno „Stato più piccolo, ma più sicuro“ (1258).

Temi minori includono il ruolo dei tradimenti (1189, 1216), la „corruzione di cittadini fiorentini“ (1210), e la „reazione di Pisa“ (1214), dove „Benedetto Lanfranchi“ trama contro Castruccio prima di essere „giustiziato“ (1217). La narrazione si chiude con l’ironia di un destino che „rovescia i piani proprio quando nulla avrebbe potuto fermarli, tranne la morte“ (1251).