Lucrezio - Della Natura - Lettura (16m)
1. Sulla natura duale di materia e vuoto: solidità, eternità e principi indivisibili
La distinzione irriducibile tra corpo e spazio, l’indivisibilità dei costituenti primi e la necessità del vuoto per spiegare generazione e corruzione.
Il blocco definisce una teoria fisica fondata sulla “duplice natura, di gran lunga dissimile, di due cose, la materia e lo spazio” (139), dove il vuoto e il corpo si escludono reciprocamente: “dovunque si stende libero lo spazio [...] non v’è corpo; d’altra parte, dovunque sta un corpo, lì non v’è [...] spazio sgombro” (140). I “corpi primi” (141) sono “solidi e senza vuoto” (141), eterni perché “tutto il resto si dissolve” (144), e la loro esistenza è prova che “senza vuoto nessuna cosa può essere schiacciata, né infranta” (149). Il vuoto funge da condizione per la dinamica dei corpi: “più ogni cosa in sé racchiude vuoto, tanto più [...] vacilla” (150), mentre la materia, “compatta di parti minime” (166), garantisce “un termine di crescita e [...] conservazione” (163) alle specie, evitando che “tutto [...] sia ridotto al nulla” (152).
La solidità dei principi primi è argomentata per contraddizione: se fossero molli, “non si potrà spiegare donde possano crearsi le dure rocce e il ferro” (159); se infinitesimali, “tutti i corpi più piccoli consteranno di parti infinite” (168), rendendo “la somma delle cose” indistinguibile “dalla cosa più piccola” (169). La critica a Eraclito (175) e alla teoria del fuoco come unico principio (174) sottolinea l’inadeguatezza di un monismo che ignora il vuoto: “soltanto se ammettono che alle cose è misto il vuoto, i fuochi potranno condensarsi o rarefarsi” (180). La coesione eterna dei corpi primi, “non aggregati per il concorso di [parti], ma [...] di eterna semplicità” (166), spiega la costanza delle specie (“i variopinti uccelli [...] mostrano presenti [...] i colori propri” (163)) e la ciclicità della generazione, dove “la materia sia bastante a ristorare la perdita delle cose” (153).
2. L’infinito come principio: materia, vuoto e aggregazione senza centro
L’eterna instabilità degli elementi e l’illimitatezza dello spazio come condizioni necessarie all’esistenza del cosmo.
Sommario
Il blocco descrive un universo privo di confini, dove la materia e il vuoto si alternano in un equilibrio dinamico che esclude qualsiasi possibilità di un “centro” o di una quiete definitiva. «Non c'è un ultimo fondo, ove possano quasi confluire e porre le loro sedi» (268), e «il tutto, invero, non c'è nulla che lo delimiti dall'esterno» (270): lo spazio si estende «senza confini da ogni punto verso qualunque parte» (271), rendendo impossibile sia un aggregarsi stabile delle cose sia un loro dissolversi totale senza un afflusso continuo di materia dall’infinito. «Se dall'infinito non potesse affluire in abbondanza la materia [...] tutte le cose devono dissolversi» (275-276), perché «gli urti dall'esterno [...] non hanno il potere di conservare tutto l'insieme» (277) senza un rifornimento costante di atomi e di vuoto che li contenga.
L’errore di immaginare un centro—«un vano errore ha fatto approvare ad uomini sciocchi tali assurdità» (282)—viene sconfessato dalla natura stessa del vuoto, che «deve ugualmente lasciare il passo ai corpi pesanti, dovunque tendano i loro movimenti» (285). La teoria opposta, che postula una gravità diretta verso un punto fisso, è smontata con argomenti fisici: «non può esserci un centro, perché l’universo è infinito» (283), e «nulla potrebbe ivi star fissa» (284) senza contraddire le leggi del moto e della materia. Il testo chiude con un’immagine catastrofica—«le mura del mondo [...] fuggano via improvvisamente dissolte nel vuoto immenso» (288)—per sottolineare che solo l’infinita estensione di spazio e materia garantisce la persistenza, pur precaria, delle strutture cosmicche. «Da qualunque parte supporrai che prima vengano a mancare i corpi, questa parte sarà per le cose la porta della morte» (289).
3. La declinazione degli atomi e il fondamento del libero arbitrio: meccanica, causalità e volontà nel vuoto
Fisica dei corpi primi e origine della libertà umana tra determinismo e devianza minima.
Il movimento atomico come condizione della realtà e della volontà
Il blocco definisce un sistema coerente in cui la „caduta verso il basso, come gocce di pioggia, per il vuoto profondo“ (346) degli atomi — se non fosse corretta da una „esigua declinazione“ (365) — annullerebbe ogni possibilità di „collisione“ e „urto“ (346), rendendo impossibile la „natura“ stessa e i suoi „decreti del fato“ (354). La „velocità“ uniforme nel vuoto (349) esclude che i corpi „più pesanti“ possano „generare urti“ (350) con quelli leggeri, mentre la „tenue natura dell’aria“ (348) spiega solo fenomeni macroscopici, non la „natura“ atomica: qui „tutte le cose devono muoversi con eguale velocità“ (349), senza distinzioni di peso. La „declinazione“ non è un moto „obliquo“ osservabile (351-352), ma un „minimo possibile“ (351) che sfugge alla percezione („chi c’è che possa scorgerlo?“ 353) eppure „dà principio“ (355) a „movimenti“ volontari, „dove il piacere guida ognuno di noi“ (354).
Il libero arbitrio emerge come effetto di questa devianza: la „volontà“ (354) non è „debellata“ (365) da una catena causale infinita („causa non segua causa da tempo infinito“ 354), ma trae origine da un „inizio di movimento“ (354) interno, come dimostra l’esempio dei „cavalli“ che „non possono prorompere“ (356) istantaneamente o del „cuore“ da cui „procede“ il gesto (358). Anche sotto „forza esterna“ (359), „c’è nel nostro petto qualcosa che può lottar contro“ (361), „raffrenare“ (360) la materia e „tornare indietro“ (362). Gli atomi, analogamente, devono avere „oltre agli urti e ai pesi, un’altra causa dei movimenti“ (363), perché „nulla può nascere dal nulla“ (363) e il „peso“ alone non spiega la „libera volontà“ (354).
Immutevolezza del cosmo e limite della percezione
La „somma delle cose“ (368) è „in somma quiete“ (369) solo in apparenza: i „primi principi“ (367) si muovono „ugualmente“ (367) da sempre, senza „mutare“ (368) la loro „natura“ (368), perché „nulla s’aggiunge“ né „si perde“ (366). La distanza dai sensi („molto lontano dalla portata“ 370) nasconde questi movimenti, come le „pecore“ su un colle che „a noi [...] appare confuso“ (371). La „compattezza“ (366) della materia e i suoi „intervalli“ (366) restano costanti, così come le „leggi di natura“ (367) che regolano nascita, crescita e „vigore“ (367) di ogni ente. Nessuna „forza“ esterna (368) può alterare l’equilibrio, poiché „non c’è di fuori alcunché“ (368) da cui possa „irrompere“ (368) un agente di cambiamento.
4. La varietà finita e l’infinita quantità degli atomi: forme, sensazioni e equilibri della materia
Dalle asperità del sale alle levigatezze del miele, dai diamanti alle fiamme: come la limitatezza delle forme atomiche spiega la diversità del mondo e la sua eterna rigenerazione.
Il blocco espone una teoria atomistica che lega la percezione sensoriale alla struttura fisica della materia, sostenendo che «ogni forma che accarezza i sensi, non è stata prodotta senza qualche levigatezza di primi principi» (391) e, al contrario, che «ogni forma che è molesta ed aspra» (391) deriva da atomi ruvidi o uncinati. Gli esempi spaziano dai «primi principi delle cose che variano per un limitato numero di forme» (403) — come il «caldo fuoco» e la «gelida brina» (393) che «pungono i sensi del corpo con atomi dentati» (393) — alle sostanze fluide, «fatte di atomi lisci e rotondi» (398), o a quelle «amare» (400) in cui «agli atomi lisci sono misti atomi aspri» (402). La tesi centrale è che la «differenza delle forme» atomiche «è finita» (413), ma ciascuna forma simile è «infinita» (414), garantendo così la «somma delle cose» (414) e l’equilibrio tra generazione e distruzione: «con uguale esito prosegue la guerra dei primi principi» (421), dove «le forze vitali» (422) alternano vittoria e sconfitta in un ciclo eterno.
Il testo approfondisce anche le conseguenze di questa limitatezza: se le forme fossero infinite, «alcuni atomi dovrebbero avere corpo di grandezza infinita» (404), il che è «inammissibile» (406); d’altro canto, l’infinita quantità di atomi simili spiega perché «le cose nascono» (418) e crescono nonostante la rarità locale di alcune specie, come «gli elefanti» (415) numerosi in India ma scarsi altrove. La materia, pur variando entro confini precisi — «dal fuoco alle gelide brine invernali c’è un tratto limitato» (410) —, permette così «che sempre sorgerebbe qualcosa superiore ad ogni altra» (407) o, all’opposto, «più delle altre ripugnante» (408), se non fosse per «un limite certo» (409) che regola tanto il piacere quanto il disagio sensoriali. La chiusura evoca il ciclo vitale come manifestazione di questo equilibrio: «al pianto funebre si mescola il vagito» (423) dei neonati, a simboleggiare l’eterna alternanza di morte e rinascita.
5. Sui principi immutabili della materia: forma, aggregazione e assenza di qualità sensibili
Dall’impossibilità delle chimere alla necessità di atomi incolori e insensibili: leggi fisiche, mutamento e conservazione dell’essere.
Il blocco definisce i limiti entro cui gli atomi — primi principi privi di colore, sensibilità o qualità percettibili — si aggregano secondo leggi determinate per generare la varietà dei fenomeni, escludendo combinazioni arbitrarie che produrrebbero «sorgere semiferine forme d’uomini» o «la natura pascere Chimere spiranti fiamma». La coerenza delle specie («tutte le cose, da semi determinati, da determinata genitrice procreate, possono conservare crescendo la loro specie») dipende da «figure dissimili» degli atomi, dai loro «intervalli, vie, connessioni, pesi, urti, incontri, movimenti», che distinguono non solo i viventi ma «la terra e l’intero mare» e «tutto il cielo». L’argomento si estende all’impossibilità che i colori — mutabili e dipendenti dalla luce («senza luce non possono esserci colori») — siano proprietà intrinseche degli atomi: «i corpi della materia non hanno assolutamente colore», poiché «ogni colore si muta» e «i primi principi non devono [mutare] in alcun modo» per evitare che «tutte le cose si riducano appieno al nulla». La dimostrazione si avvale di esempi naturali (il mare che «biancheggia come un candido marmo», le piume delle colombe che «talora abbiano il rosso del lucido piropo») e di paragoni tattili («i ciechi nati [...] conoscono al tatto corpi [...] privi di colore»).
L’assenza di qualità sensibili (colore, suono, odore, sapore, temperatura) nei principi primi è funzionale alla loro immortalità: «se [gli atomi] fossero dotati di [...] calore o tepore, [...] tutte è necessario che siano disgiunte dai primi principi, se vogliamo porre [...] fondamenti immortali». La generazione del sensibile dall’insensibile («vivi vermi spuntano fuori dallo sterco nauseabondo») è spiegata attraverso l’ordine, la «disposizione» e i «moti vitali» degli atomi, che — pur privi di senso — «producono tutti i sensi degli esseri animati» quando si combinano in strutture complesse. L’errore di attribuire sensibilità ai principi primi li renderebbe «molli» e «mortali», come le «viscere, nervi, vene» che li compongono: «una mano staccata da noi [...] non può conservare la sensibilità». La conclusione ribadisce che «la sensibilità può nascere dai non sensibili» solo tramite aggregazione e mutamento strutturale, non per generazione spontanea di qualità inesistenti nei costituenti ultimi.
6. Meccanismi della percezione: emissione, riflessione e distorsione dei simulacri
Come corpi, odori e immagini si propagano, interagiscono con i sensi e generano illusioni ottiche attraverso aria, luce e specchi.
Il testo illustra il principio secondo cui «da tutte le cose emanazioni d’ogni tipo fluendo si staccano» (911), descrivendo un processo continuo e inarrestabile: gli oggetti emettono particelle che colpiscono i sensi, consentendo la visione, l’olfatto e il tatto. «Corpi che feriscono gli occhi» (907) e «umidità di sapore salmastro» (910) dimostrano come le percezioni derivino da un flusso costante di «simulacri» (915) che, «diffondendosi in ogni direzione» (911), impressionano gli organi sensoriali senza soluzione di continuità. La vista, in particolare, dipende da queste immagini proiettate: «la causa del vedere sta nelle immagini» (914), e la loro interazione con l’aria interposta determina la percezione della distanza («quanta più aria è agitata innanzi a noi, tanto più ogni cosa si vede remota», 920) e della forma («ogni angolo si vede ottuso o piuttosto non si vede affatto», 946).
Gli specchi diventano un caso esemplare per spiegare riflessione e distorsione: i simulacri, «rovesciati dritta» (932), invertano destra e sinistra («quell’occhio che prima era destro, ora sia sinistro», 933) e si moltiplicano in serie («da specchio a specchio si trasmetta l’immagine», 934), mentre la curvatura degli specchi può «rimandare i simulacri senza rivoltarli» (937). Illusioni ottiche come «le quadrate torri [...] che sembrino rotonde» (946) o «l’ombra [...] che segua i nostri passi» (948) nascono dall’interazione tra simulacri, aria e luce, dove «la natura costringe tutte le cose a riflettersi [...] con angoli eguali» (938). Il testo distingue infine tra percezione sensoriale e interpretazione razionale: «vedere [...] è loro proprietà [degli occhi], ma [...] discernerlo deve il ragionare della mente» (953), sottolineando che «non possono gli occhi conoscere la natura delle cose» (954).
Note
Caratteristiche dei simulacri
- «Si lanciano e diffondono in ogni direzione» (915).
- «Non può essere veduta cosa alcuna» (914) senza di essi.
- «Sospingono e fanno scorrere innanzi a sé altra aria» (930), determinando la percezione della profondità.
Limiti e illusioni
- «Gli occhi rifuggono le cose splendenti» (939) a causa dell’eccesso di «semi di fuoco» (941).
- «L’ombra [...] non può essere altro che aria priva di luce» (948), ma «sembri averci sempre seguiti» (949).
- «Gli occhi s’ingannino in nulla» (952) nella percezione immediata; l’errore è «della mente» (954).
7. La propagazione delle voci e dei suoni: meccanismi fisici e illusioni percettive
Fenomeni acustici tra scienza e miti popolari: come le voci si diffondono, si deformano e generano echi, tra spiegazioni razionali e credenze su creature silvestri.
Didascalia del blocco
Il testo analizza la trasmissione delle voci nello spazio, distinguendo tra percezione chiara e distorsione, echi naturali e interpretazioni mitologiche. Si descrivono i meccanismi fisici della propagazione sonora, il ruolo degli ostacoli e la differenza con la percezione visiva, accennando anche al gusto come fenomeno sensibile analogamente strutturato.
Sommario
Le frasi delineano un sistema coerente sulla natura delle voci, partendo dalla loro emissione: «la mobile lingua, artefice di parole», e «la conformazione delle labbra» (1005) ne determinano l’articolazione, ma la chiarezza dipende dalla distanza, poiché «se lo spazio frapposto è troppo ampio, [...] le parole [...] si confondono» (1007). La voce si frammenta in «molte» (1021), riempiendo «luoghi nascosti allo sguardo» (1022), ma solo «per vie diritte» (1023) i simulacri visivi mantengono integrità, mentre i suoni attraversano «sinuosi meati» (1019) e «porte chiuse» (1019), giungendo «confusa» (1024) se ostacolati. L’eco, fenomeno ricorrente, viene spiegato come «voce [...] rimandata indietro» (1012) da «rocce» (1013) o «colli» (1014), capaci di «rimandare anche sei o sette voci» (1014); tale effetto alimenta credenze su «Satiri e le Ninfe» (1015) e «Fauni», interpretati come «portento» (1016) per «non si creda che risiedano in luoghi solitari» (1016). La tendenza umana a «vantare miracoli» (1017) è legata alla «avid[ità] di orecchie intente» (1017), mentre la voce, a differenza delle immagini, «può passare incolume» (1019) anche dove «gli occhi non possono vedere» (1018).
Un tema minore riguarda il gusto, trattato per analogia: «quando spremiamo il cibo masticando» (1026), gli «atomi del succo» (1028) lisci o «pieni d’asperità» (1029) determinano sensazioni opposte, con «piacere» (1030) limitato al «palato», a differenza della voce che si propaga oltre i confini percettivi. La chiusura sottolinea come «non c’è da stupire» (1018) della disparità tra suono e visione, confermando una legge fisica: «i simulacri procedono tutti per vie diritte» (1023), mentre «le voci nascono le une dalle altre» (1021).
8. I simulacri e il movimento dell’animo: percezione, sogni e immagini composte
Dalle tracce sensibili ai fantasmi della mente: come forme sottili generano visioni, memorie e illusioni notturne.
Sommario
Il blocco delinea un sistema in cui «molti simulacri di cose in molti modi vagano» (1058), particelle sottili che, penetrando «per i pori del corpo», eccitano «la sottile natura dell’animo» (1059) e ne determinano percezioni, sogni e persino allucinazioni. Le immagini—«di Centauri e membra di Scille» (1060)—non derivano da enti reali ma dal «caso» che «s’incontrano» (1061) e si compongono, come «ragnatele e foglie d’oro» (1058), in figure ibride. La mente, «mirabilmente mobile», è colpita da questi simulacri «con un solo colpo» (1063), senza distinguere tra veglia e sonno: «crediamo di vedere colui che [...] è ormai preda della morte» (1066) perché «i sensi ottusi riposano» (1067) e «la memoria langue» (1068). Il meccanismo si estende ai sogni, dove «l’immagine sembri [...] mutare gesto» (1070) per la «moltitudine delle immagini» (1071) che si susseguono in «un qualunque minimo tempo» (1071). Emerge poi il dubbio sulla selezione: i simulacri «sono attenti al nostro volere» (1074) o è la «moltitudine» (1080) a renderli sempre disponibili, pronti a «offrire rappresentazioni nelle ore notturne» (1078)? La risposta sta nella «celerità» (1071) e nella «abbondanza delle particelle» (1071), che in «un singolo momento» (1080) generano «simulacri d’ogni tipo» (1080), spiegando così sia le «radunanze d’uomini» (1075) sia i «gesti» (1077) che paiono «imbevuti d’arte» (1078).
Il tema minore della specificità sensoriale—«gli aspetti e i colori [...] non si confanno tutti ai sensi di tutti» (1055)—e degli effetti fisici—«semi [...] che trafiggono le pupille dei leoni» (1056)—serve a mostrare come la ricezione dei simulacri vari in base alla natura del percipiente, ma il focus resta sulla «sottile natura» (1059) delle immagini e sulla loro capacità di «muovere l’animo» (1057) anche in assenza di stimoli reali. La domanda finale—«O non sarà piuttosto vero ciò?» (1079)—chiude il cerchio: la spiegazione non invoca intenzionalità, bensì «mobilità» (1063) e «moltitudine» (1080), principi che regolano tanto «ciò che vediamo con la mente» (1064) quanto «le cose che vengono nella mente» (1057).
9. L’illusione di Venere: piaga, simulacri e vana sazietà
L’amore come ferita che si nutre di sé, tra inganni dei sensi e furore insaziabile.
L’ardore che divora
Il blocco descrive l’amore come una “piaga” che “s’inacerbisce e incancrenisce” (1158) se alimentata, un “gelido affanno” (1155) che nasce da “tenui simulacri” (1167) incapaci di saziare. Le immagini dell’oggetto amato persino “quando è assente” (1156) mantengono viva la brama, mentre il contatto fisico — “premono strettamente” (1162), “mischiano le salive” (1169) — si rivela “invano” (1168): “non possono strapparne nulla” (1168), né “penetrare e perdersi nell’altro corpo” (1169). La “dolcezza di Venere” (1155) è solo un’“illusione” (1168) che “con simulacri” (1168) promette sazietà ma genera “crudele brama” (1165), “più pura” (1160) invece per chi “evita l’amore”.
Il testo oppone la “follia” (1158) degli amanti — “non sanno che cosa debbano prima godere” (1161), “lottino” (1169) per fondersi invano — alla “speranza” (1164) tradita: “quello stesso corpo” che accende il desiderio “non può estinguere la fiamma” (1165). Seguono le conseguenze pratiche: “si trascorre la vita al cenno di un’altra persona” (1172), i “beni ben guadagnati” (1174) si dissipano in “profumi babilonesi” e “diademi”, mentre “tra i fiori” (1175) affiora “qualcosa di amaro”. L’amore felice è già “mali” (1176); quello infelice, “innumerevoli” (1176). La fuga è possibile solo smascherando “i difetti” (1178) dell’amato, che “gli uomini ciechi di passione” (1179) idealizzano, “attribuendo pregi” (1179) inesistenti. La metafora ricorrente è quella della “rete” (1177): “districarsi” è più arduo che “evitare di cadere” (1177).
10. Meccanismi celesti e cicli naturali: venti, astri e il ritmo delle stagioni
Spiegazione dei moti apparenti degli astri attraverso correnti d’aria, alternanze di luce e ombra, e fenomeni periodici che governano giorni, notti e stagioni.
Didascalia
Come venti e fuochi eterei regolano il corso del sole, della luna e delle costellazioni, generando l’ordine ciclico di notti, giorni e mutamenti stagionali.
Sommario
Il testo illustra un sistema in cui i corpi celesti si muovono per effetto di “correnti d’aria” che li spingono “da opposte regioni alternamente” (1372), determinando il susseguirsi delle stagioni: una “caccia il sole dalle costellazioni estive al tropico invernale” (1371), l’altra lo “ricaccia fino alle regioni cariche di calore” (1371). La velocità apparente degli astri dipende dal loro essere “raggiunti” (1370) o trascinati da questi flussi, mentre le “nuvole più basse” e “le più alte” (1373) dimostrano come venti contrari possano agire su piani diversi, estendendo il principio anche alle “grandi orbite dell’etere” (1374).
La dinamica del giorno e della notte viene attribuita a due ipotesi: il sole “fiaccato” che “spira i suoi fuochi” (1375) dopo un lungo percorso, oppure una “forza” che lo “costringe a volgere il corso sotto la terra” (1375). All’alba, “fuochi si raccolgono” (1376) in “semi di calore” (1376) che “fanno che ogni giorno nasca la luce di un nuovo sole” (1376), fenomeno paragonato ai “fuochi sparsi” che sulle “alte cime dell’Ida” (1376) si uniscono a formare il disco solare. La puntualità di questi eventi è giustificata dall’osservazione di “molti fenomeni che avvengono a data fissa” (1378), come la fioritura degli alberi (1379), la crescita della barba (1380) o il “ritorno” ciclico di “fulmini, neve, piogge” (1381), tutti effetti di “principi” che “si svolsero fin dall’origine prima del mondo” (1382).
Il mutare delle stagioni è legato al percorso del sole, che “descrivendo curve di lunghezza differente” (1383) alterna giorni lunghi e notti brevi, o viceversa, “finché non arriva a quel segno celeste, dove il nodo dell’anno uguaglia ai giorni le ombre della notte” (1383). La densità dell’aria invernale può “esitare il tremulo splendore del fuoco” (1385), ritardando l’alba, mentre in altre stagioni i “fuochi” che generano il sole “confluiscono, ora più lentamente, ora più rapidamente” (1386). La luna, a sua volta, potrebbe “splendere perché percossa dai raggi del sole” (1387) o ruotare “con propria luce” (1388), oscurata da un “corpo privo di luce” (1389) che la eclissa; oppure, come ipotizza la “dottina dei Caldei” (1390), essere una sfera “cosparsa per metà di candida luce” (1390) che mostra “varie fasi” girando su sé stessa. Infine, le stagioni sono personificate in divinità e venti: “Venere” preceduta da “Zefiro” (1392), “il calore arido” con “Cerere” (1393), “l’Evio Bacco” in autunno (1394), “Volturno” e “l’Austro possente” (1395) a chiudere il ciclo.
11. La terra madre e il ciclo vitale: generazione, estinzione e adattamento nelle origini del mondo
La nascita imperfetta delle specie, la legge della sopravvivenza e la vita selvaggia dei primi uomini.
Il testo descrive la terra come entità generatrice che, in un tempo remoto, «da sé essa creò il genere umano e [...] partorì ogni animale» (1416), ma il cui potere creativo si esaurisce con la vecchiaia, poiché «il tempo muta la natura di tutto il mondo» (1418) e «tutte le cose passano» (1418). La fase iniziale è contraddistinta da esperimenti falliti: la terra produce «mostro e portento» (1422) come «l’androgino» (1421) o creature «prive di piedi» (1421), «mute senza la bocca» (1421), «cieche senza gli occhi» (1421), ma «la natura ne impedì la crescita» (1422) perché incapaci di «nutrirsi» (1423), «congiungersi» (1423) o «evitare un danno» (1421). Solo le specie dotate di «astuzia», «forza» o «velocità» (1425) sopravvivono, mentre «molte stirpi [...] soccombero» (1424). Gli esseri utili all’uomo, come «i cani» (1428) o «le greggi lanose» (1428), trovano protezione; gli altri diventano «preda e bottino» (1430) fino all’«estinzione» (1430).
Si nega l’esistenza di ibridi come «Centauri» (1431) o «Chimera» (1437), poiché «le facoltà [...] non possono corrispondere» (1431): «non fioriscono [...] né prendono il vigore del corpo» (1435) nello stesso tempo, e «non armonizzano per abitudini uniformi» (1435). La «fiorente gioventù del mondo» (1445) genera invece «rudi alimenti» (1445) per «miseri mortali» (1445) che vivono «a guisa di fiere vagabonde» (1441), nutrendosi di «ghiande» (1444) e «corbezzole» (1444), disabituati al «fuoco» (1448) e «vestiti» (1448), rifugiati in «boschi e caverne» (1448). La loro esistenza è dominata dalla «forza» (1450), dall’«istinto» (1451) e dalla «paura» (1456): «ciascuno se lo prendeva» (1450) ciò che «la fortuna aveva offerto» (1450), mentre «le stirpi ferine [...] facevano tribolato il riposo» (1455). La morte, spesso violenta, li coglie «dilaniati dalle zanne» (1458) o «senza aiuto» (1459), in un ciclo dove «non potevano [...] privarsi della vita» (1457) più di «ora».
Note
(1415–1420) Ciclo di crescita e decadenza come legge universale. (1421–1430) Selezione naturale: sopravvivenza delle specie adatte. (1431–1439) Confutazione dei miti su ibridi impossibili. (1440–1459) Vita primitiva: abitudini, pericoli e assenza di civiltà.
12. L’evoluzione delle arti e il progresso umano: dalla necessità al desiderio
Dalle tecniche agricole alle prime forme di musica, dall’uso delle pelli al lusso sfrenato: come l’ingegno trasforma la sopravvivenza in ambizione e la semplicità in conflitto.
Il testo descrive il passaggio dalle pratiche primitive — dettate dalla necessità di nutrirsi, vestirsi e proteggersi — a forme sempre più raffinate di arte, coltivazione e organizzazione sociale, segnando così la nascita della civiltà e dei suoi eccessi. Inizialmente, la natura stessa suggerisce all’uomo le tecniche: „la stessa natura creatrice delle cose“ (1557) ispira l’agricoltura, mentre „i sibili dello zefiro“ (1561) guidano alla scoperta della musica; „col ferro s’appresta il telaio“ (1555), e la lavorazione della lana, dapprima maschile, diventa appannaggio delle donne per convenzione sociale. Le selve cedono spazio a „prati, stagni, ruscelli, messi e floridi vigneti“ (1559), e la campagna si trasforma in un paesaggio ordinato, „ornato“ dall’intervento umano. Ma il progresso non è solo tecnico: „la musa agreste era in rigoglio“ (1565) nei momenti di ozio, quando „corone intrecciate di fiori“ e danze spontanee scandivano la gioia di una vita ancora semplice. Tuttavia, „ciò che è a disposizione“ (1567) perde valore non appena subentrano novità più allettanti — „cadde anche nel disprezzo la veste di pelle ferina“ (1569) — e il desiderio si fa insaziabile, spingendo gli uomini „in alto mare“ (1573) di guerre e ambizioni vane. „L’oro e la porpora“ (1570) diventano simboli di una corruzione che allontana dall’essenziale, mentre „la colpa maggiore sta in noi“ (1570) per non saper riconoscere „il limite del possesso“ (1572).
Il tempo e la ragione, „gradatamente“ (1563, 1578), svelano all’umanità „ogni cosa“ (1578), dalle „navi volanti con le vele“ (1575) alle „leggi“ e alle „arti“ (1577), ma questo stesso progresso genera anche „tempeste di guerra“ (1573). Le scoperte — „canti, pitture e statue“ (1577) — nascono dall’“sperimentare della mente alacre“ (1577), mentre „il sole e la luna“ (1574) insegnano a misurare il tempo e a organizzare la vita collettiva. Atene, „dal nome illustre“ (1580), incarna il culmine di questo percorso: „dispensò i frutti delle messi“ e „istituì le leggi“ (1580), ma anche qui l’eredità dell’“uomo dotato di tale mente“ (1580) — forse un riferimento a figure come Democrito o Epicuro — sopravvive oltre la morte, a testimonianza di come „la gloria“ (1580) delle scoperte umani trascenda i singoli individui. Eppure, „la stirpe silvestre dei figli della terra“ (1566) godeva già di „dolcezza“ (1566) senza bisogno di sofisticazioni: il paradosso sta nel fatto che „più nuove e meravigliose“ (1565) erano le cose, più prezioso ne sembrava il valore, fino a confondere il necessario con il superfluo.
13. Meccanismi e natura del fulmine: origine, dinamiche e stagioni della sua manifestazione
Dalle nubi cariche di semi di calore al fragore che squarcia il cielo: come vento, fuoco e atomi generano il fenomeno, tra fisica dei vortici e conflitti stagionali.
Il blocco delinea la genesi e il comportamento del fulmine come risultato di processi meccanici e atomistici, escludendo interventi divini. Le nuvole, „ammassate in alto“ (1633) e „piene di venti e di fuochi“ (1634), accumulano „semi di calore“ (1635) che, compressi dal vento, generano vortici incandescenti: „un vortice vi penetra e rotea in spazio angusto, e dentro le fornaci ardenti aguzza il fulmine“ (1636). Il fenomeno si innesca per attrito („per il suo stesso rapido moto si scalda“ 1637) o per contatto con fuochi preesistenti, fino a „squarciare la nuvola“ (1638) con un „fragore violento“ (1639) che scuote terra e cielo. La pioggia torrenziale segue „quando col colpo ardente il tuono vola innanzi“ (1641), mentre il fulmine, „fatto di elementi più piccoli e lisci“ (1649), trapassa ostacoli „per i pori“ (1654) o li fonde („discioglie facilmente il bronzo“ 1656) grazie alla sua „sottile distribuzione di corpi“ (1656).
Le stagioni intermedie — „la stagione di transizione“ (1660) tra caldo e freddo — favoriscono il fenomeno: in autunno e primavera, „gli elementi dissimili […] agitarsi“ (1661) in „incerta guerra“ (1663) tra „fiamme“ e „venti“ (1663), massimizzando „le varie cause del fulmine“ (1659). Il testo respinge spiegazioni mitologiche („non s’ottiene […] indagando l’occulto volere degli dèi“ 1665) e sottolinea l’arbitrarietà dei colpi, che travolgono „innocenti“ (1667) quanto „detestabili“ (1666), smontando l’idea di una giustizia divina. La velocità del fulmine deriva dalla „corsa“ (1648) pre-accelerata nelle nuvole e dalla „natura“ (1649) dei suoi atomi, che „penetrano per gl’interstizi“ (1649) senza ostacoli, mentre la „forza possente“ (1651) cresce „con l’andare“ (1651), come un „proiettile“ (1648) scagliato da „macchine“ (1648). Temi minori includono l’analogia con fenomeni terrestri („come una palla di piombo si fa rovente“ 1644) e la critica alle credenze popolari, evidenziata dal riferimento ai „segni dell’occulto“ (1665) e alla „coscienza“ (1667) dei colpiti.
14. Fenomeni naturali tra cielo e terra: venti, tempeste, terremoti e fuochi sotterranei
Dalle colonne di fuoco che squarciano il mare ai tremori della terra, dalle piogge che saturano le nuvole ai fiumi di lava che erompono dalle viscere dei monti: meccanismi invisibili governano gli eventi che sconvolgono l’equilibrio del mondo.
Il blocco descrive i fenomeni atmosferici, geologici e idrologici come manifestazioni di forze naturali spiegabili attraverso l’interazione di elementi primari: venti, umidità, calore e vuoti sotterranei. Si parte dai «presteres» (1683), colonne di vento che discendono dal cielo sul mare «come se qualcosa col pugno e con la pressione d'un braccio sia spinta dall'alto in giù» (1685), generando vortici capaci di «sommuovere l’intero mare costringendolo a ribollire» (1686). Le nuvole si formano per aggregazione di «corpi alquanto ruvidi» (1690) che, trasportati dai venti, si addensano «finché insorge una tempesta furiosa» (1691), mentre le cime montane, «più vicine al cielo», accumulano «la densa caligine di una nuvola fulva» (1692) prima che questa diventi visibile.
La pioggia scaturisce dall’accumulo di «semi d’acqua» (1702) nelle nuvole, che «gareggiano a rovesciare la pioggia» (1705) sotto la spinta dei venti o del proprio peso, oppure si dissolve «come cera [...] su ardente fuoco» (1706) per il calore solare. I terremoti, invece, nascono da «vastissime spelonche ventose» (1712) e «laghi e stagni» (1712) sotterranei: la terra trema quando «interi monti cadono» (1714) o quando «il vento [...] sospinge, premendo con grande forza» (1717), facendo «inclinare le case» (1718) e minacciando «una confusa rovina del mondo» (1728). L’Etna, «cavo di sotto» (1748), erutta per l’«aria scaldata» (1751) che, infuriando, «fa prorompere un caldo fuoco con fiamme veloci» (1751) e lancia «massi di mirabile peso» (1752), mentre il mare «riassorbe il ribollìo» (1753) attraverso «spelonche s’inoltrano sotterra» (1754).
Temi minori includono l’arcobaleno, frutto dei «raggi del sole [...] contro il gocciolìo dei nembi» (1709); i «luoghi Averni», letali per gli uccelli a causa di «acre zolfo» (1771) e «calde sorgenti» (1771); il Nilo, il cui straripamento estivo è attribuito a «venti etesii» (1762), «piogge abbondanti» (1766) o «nevi squagliate» (1768) sulle sorgenti etiopi. Il testo insiste sulla «legge naturale» (1774) che regola ogni evento, escludendo interpretazioni mitiche: «non si deve credere che in quelle regioni possa esistere la porta di Orco» (1774). La scala dei fenomeni, dal locale al cosmico, è relativizzata dall’«infinita» (1739) estensione dell’universo, dove «un solo cielo sia una piccola parte» (1739) e «tutte le cose [...] sono nulla» (1746) rispetto al tutto.
15. Fenomeni naturali tra acqua, fuoco e magnetismo: spiegazioni meccaniche e confutazione delle credenze popolari
Le dinamiche invisibili che regolano il calore delle fonti, l’accensione spontanea di materiali e l’attrazione magnetica, svelate attraverso l’osservazione di flussi, porosità e semi elementari.
Sommario
Il blocco illustra fenomeni apparentemente inspiegabili ricorrendo a principi fisici basati su corpi porosi, semi di fuoco e emissioni invisibili. Le fonti che mutano temperatura tra giorno e notte — come quella presso il „tempio di Ammone“ — non sono riscaldate „dal sole al disotto della terra“, ma da „semi di fuoco“ spremuti dalla terra quando si contrae per il freddo notturno o si dilata col calore diurno: „come se fosse compressa da una mano, sprema nella fonte tutti i semi di fuoco che racchiude“. L’acqua, battuta dai raggi solari, „si fa rada“ e libera questi semi, così come „emette il gelo“ sciogliendo il ghiaccio. Anche la stoppa che „prende fuoco d’un tratto“ sopra fonti fredde si spiega con l’aggregazione di „molti semi di fuoco“ presenti nell’acqua e nel materiale combustibile, „perché la stoppa [...] ha in sé e contiene molti semi di fuoco“. Il fenomeno è paragonato a un „lucignolo spento“ che si accende avvicinandosi a una fiamma, „prima di toccare la fiamma“.
Il testo passa poi al magnete, pietra che „forma una catena di anellini“ sospesi, attribuendone il potere a un’emissione continua di corpi che permea lo spazio, analoga a odori, suoni o sapori: „da tutte le cose emanazioni d’ogni specie fluendo si distaccano“. La porosità della materia — „nulla è percepibile che non sia materia mista col vuoto“ — diventa il fondamento per spiegare tanto la propagazione del calore quanto l’attrazione magnetica, rigettando interpretazioni mitiche o superficiali. I „lunghissimi giri“ necessari a chiarire questi meccanismi richiedono „più attente le orecchie e la mente“, sottolineando la complessità di una natura governata da leggi fisiche, non da forze occulte.
Note
Le frasi (1799), (1823–1833) introducono temi distinti ma collegati: la prima chiude una riflessione sulla caduta degli uccelli in volo (non sviluppata nel blocco); le seconde aprono la discussione sul magnetismo, qui solo accennata. Le fonti citate (Ammone, Arado) servono da esempi concreti per confutare „credenze“ („troppo si stupiscono“) con osservazioni empiriche. Il riferimento ai „Magneti“ (1823) è toponomastico, non scientifico.
16. I principi fisici dell’attrazione e della coesione: vuoto, flussi e intrecci di materia
Meccanismi invisibili regolano l’adesione e il moto dei corpi, tra condotti, vuoti e correnti di atomi.
Sommario
Il testo descrive un modello fisico basato su flussi di particelle, vuoti localizzati e strutture porose per spiegare fenomeni come l’attrazione magnetica e la coesione tra materiali. La pietra di Magnesia (magnete) emette «moltissimi semi o una corrente» (1856) che «disperde tutta l’aria» (1856) tra sé e il ferro, creando un «ampia zona» vuota (1857) in cui «gli atomi del ferro corrono in avanti e cadono nel vuoto» (1857), trascinando con sé l’anello metallico. Il processo è agevolato dall’«aria che è posta dietro l’anello» e «lo spinge innanzi» (1861), mentre l’«aria nascosta nel ferro» (1865) lo «sferza [...] dall’interno» (1865), come «vento che spinga nave e vele» (1863). La compattezza del ferro, «più intrecciata nei suoi primi elementi» (1858), ne determina la reattività, ma «talvolta la natura del ferro [...] usa fuggirla [la pietra] e seguirla a vicenda» (1866), soprattutto se interposti materiali come il bronzo, le cui «emanazioni [...] occupano gli aperti condotti del ferro» (1868) e ne alterano l’interazione.
Il discorso si allarga ad altri fenomeni di adesione selettiva: «le pietre si legano soltanto con la calce» (1873), il «legname è congiunto insieme» dalla «colla di toro» (1874), il «succo della vite» si miscela con l’«acqua» (1875), mentre «il purpureo colore della conchiglia» si «congiunge [...] col corpo della lana» (1876) in modo indelebile. La chiave sta nella «corrispondenza tra vuoti e pieni» (1880): «i corpi i cui intrecci son capitati in reciproco riscontro» (1880) formano «l’unione migliore», come «anellini e uncini» (1881) che legano la pietra al ferro. Alcuni materiali restano inerti per «il proprio peso» (1870) (oro) o per porosità eccessiva (legno), mentre altri, come «il bronzo», agiscono da «discordia» (1868) interrompendo i flussi. Il modello unifica fenomeni apparentemente disparati sotto un unico principio: «molte cose con poche parole» (1880).