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Lucrezio - De Rerum Natura - Lettura (11m)


1. L’elogio di Venere e la critica alla religione: tra natura, pace e terrore

Invocazione alla dea, condanna dei riti crudeli e ricerca di una veritĂ  libera dal timore

Il blocco si apre con un’invocazione solenne a Venere, figura generatrice che presiede alla feconditĂ  della terra, dei mari e degli animali: «te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli / adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus / summittit flores», mentre il suo potere si estende anche alla pace tra gli uomini, contrastando la furia bellica di Marte. La preghiera si lega alla dedica a Memmio, cui il poeta chiede ispirazione per un canto che celebri «rerum naturam», unica guida in un’epoca di conflitti. Segue una netta opposizione tra la serenitĂ  degli dĂši, «semota ab nostris rebus seiunctaque longe», e la miseria umana, schiacciata dalla «gravi sub religione» che «mostrava il capo dalle regioni del cielo» con aspetto «horribili». L’eroe anonimo che osĂČ sfidare questo giogo — «primus obsistere contra» — diventa emblema della ragione che vince il terrore, mentre la religione Ăš accusata di aver generato «scelerosa atque impia facta», come il sacrificio di Ifigenia, «tanto religio potuit suadere malorum». Il testo si chiude con un appello a indagare la natura dell’anima e dei fenomeni celesti, per liberarsi dalle «terriloquis dictis» dei vati e dalle «aeternas poenas» temute oltre la morte. Emergono cosĂŹ due poli: da un lato, la venereitĂ  come principio di armonia cosmica e sociale; dall’altro, la religione come strumento di oppressione, cui si oppone la «vivida vis animi» che esplora «flammantia moenia mundi».


2. L’esistenza del vuoto e la natura dei corpi: argomenti per una fisica dei principi

Dall’errore delle teorie avversarie alla dimostrazione dell’inane come condizione necessaria del moto e della struttura della materia.

Il blocco espone una confutazione sistematica delle obiezioni contro l’esistenza del vuoto (inane), dimostrandone la necessitĂ  per spiegare il movimento, la composizione dei corpi e la stessa possibilitĂ  di un universo strutturato. L’autore smonta l’ipotesi di un mondo “pieno” con argomenti logici: se tutto fosse corpus, «cedere squamigeris latices nitentibus aiunt» (“dicono che le acque scintillanti cedono ai pesci squamati”), ma «nam quo squamigeri poterunt procedere tandem, ni spatium dederint latices?» (“dove potrebbero avanzare i pesci, se le acque non dessero spazio?”). Il vuoto non Ăš un’astrazione, ma un elemento concreto che «esse admixtum dicundumst rebus» (“deve essere detto mescolato alle cose”), senza il quale «aut igitur motu privandumst corpora quaeque» (“ogni corpo dovrebbe essere privato di movimento”). La dimostrazione prosegue con esempi fisici (dissoluzione, condensazione, propagazione del calore) per provare che i corpi primordiali — «quae solido vincunt ea corpore demum» (“che vincono per la loro solida corporeità”) — sono eterni e indistruttibili, mentre il vuoto ne permette l’esistenza e l’interazione. Si delinea cosĂŹ una natura fondata su due principi irriducibili: «omnis ut est igitur per se natura duabus constitit in rebus; nam corpora sunt et inane» (“tutta la natura, dunque, consiste in sĂ© di due cose: i corpi e il vuoto”). Emergono temi minori come la critica alle spiegazioni alternative («scilicet id falsa totum ratione receptumst» / «questo Ăš stato accolto per un ragionamento del tutto falso»), la distinzione tra eventa (fenomeni derivati) e corpora (entitĂ  fondamentali), e l’affermazione che «tempus item per se non est» (“nemmeno il tempo esiste di per sĂ©â€), ma Ăš un effetto del moto degli enti materiali. La sezione si chiude ribadendo l’eternitĂ  della materia prima, senza la quale «antehac ad nihilum penitus res quaeque redissent» (“tutte le cose sarebbero giĂ  tornate al nulla”).


3. L’infinito come necessità: materia, spazio e movimento in un universo senza confini

Dove il rifiuto del limite rivela l’eterna instabilità delle cose, e l’equilibrio ù solo un’illusione di chi ignora l’abisso.

Il blocco argomenta che un universo finito sarebbe impossibile, poichĂ© la materia, priva di un “fondo” („nil est funditus imum“), non potrebbe arrestarsi nĂ© accumularsi senza annullare ogni fenomeno naturale („nec res ulla geri sub caeli tegmine posset“). Lo spazio infinito Ăš condizione indispensabile affinchĂš i corpi, spinti da urti casuali („percita plagis“), possano dispersi o aggregarsi in forme stabili solo apparentemente: „omne genus motus et coetus experiundo / tandem deveniunt in talis disposituras“. L’equilibrio dei corpi celesti, la vita sulla terra, persino la „flamma solis“ dipendono da un flusso inesauribile di materia che „ex infinito suboriri“ deve pur sempre rifornire ciĂČ che si dissolve. Ogni teoria che postuli un “centro” attrattivo („in medium summae omnia niti“) Ăš confutata dall’osservazione: se esistesse, „nihil esse potest“ che vi si fermi, poichĂ© „sua quod natura petit, concedere pergat“. L’infinito non Ăš ipotesi metafisica, ma conseguenza necessaria dell’esistenza stessa del movimento, della gravitĂ , della vita: „temporis ut puncto nihil extet reliquiarum / desertum praeter spatium et primordia caeca“. Il testo chiude con un monito metodologico: la comprensione procede per gradi („parva perductus opella“), dove „alid ex alio clarescet“ in una catena di evidenze che dissolve ogni „notte cieca“.


Note

Frasi citate (tradotte)
Tematiche minori

4. Sull’impossibilità che i colori siano proprietà intrinseche degli atomi e sulla genesi sensibile delle cose

Dai mostri mitologici alle leggi invisibili che reggono forma, colore e mutamento.

Il blocco espone una confutazione sistematica dell’idea che i colori — come altre qualitĂ  sensibili — siano attributi originari della materia prima. L’argomento si articola intorno a tre assi: l’incompatibilitĂ  tra connessioni arbitrarie e leggi naturali, „l’illusorietĂ  del colore“ come fenomeno dipendente dalla luce e dalla disposizione degli atomi, la trasformabilitĂ  universale che dimostra l’assenza di proprietĂ  fisse. „Non vi Ăš colore alcuno nei corpi primigeni, / nĂ© simile nĂ© dissimile alle cose“ (419), poichĂ© „tutto muta in tutto“ (424) e „nulla cosa puĂČ ridursi al nulla“ (425): il colore Ăš effetto di „quali semi con quali altri si combinino, / quali moti scambino, quali posizioni assumano“ (426), non una caratteristica intrinseca. La prova sta nei fenomeni naturali — „il mare che da nero diventa bianco“ (426), „la coda del pavone“ (434) — e nell’osservazione che „i ciechi conoscono i corpi senza colore“ (421), „le tenebre non hanno tinta“ (432). Gli atomi, „spogli di calore, suono, sapore, odore“ (440), generano le qualitĂ  sensibili solo attraverso „ordini, forme e moti“ (448), come dimostra la „metamorfosi continua“ (445-447) di elementi in organismi vivi o in fiamme. „Se i sassi e la terra non producono senso vitale“ (450), Ăš perchĂ© manca loro „l’ordine giusto“ (448), non una presunta „essenza“ cromatica o sensoriale. Tematiche minori includono l’analogia tra percezione tattile e visiva (421-422), la critica alle spiegazioni superficiali („non credere che l’albo nasca da semi albi“ 419), la necessitĂ  di principi immutabili per evitare „l’annichilimento totale“ (425, 441).


5. L’unità indissolubile di corpo e anima: natura mortale e reciproca dipendenza

Della fragilità congiunta che lega il vivente e della necessità che l’anima, come il corpo, si dissolva.

Il blocco definisce l’anima (animus/anima) come entitĂ  strettamente connessa al corpo, da cui dipende per esistere, sentire e agire. L’argomentazione si articola attorno a tre assi: 1) l’impossibilitĂ  di separare l’anima dal corpo senza che entrambi periscano („coniunctast causa salutis, coniunctam quoque naturam consistere eorum“ 586; „corpus per se nec gignitur umquam nec crescit“ 584), 2) la dimostrazione della sua mortalitĂ  attraverso fenomeni osservabili (malattia, invecchiamento, morte violenta: „videmus crescere et, ut docui, simul aevo fessa fatisci“ 610; „dispertita procul dubio quoque vis animai et discissa simul cum corpore dissicietur“ 650), 3) il rifiuto della trascendenza (l’anima non sopravvive al corpo nĂ© preesiste: „quae fuit ante interiisse, et quae nunc est nunc esse creatam“ 659). Tematiche minori includono la critica alle teorie della metempsicosi („si inmortalis foret et mutare soleret corpora, permixtis animantes moribus essent“ 676) e la confutazione dell’idea che l’anima possa generare o abitare corpi autonomamente („haut igitur faciunt animae sibi corpora et artus“ 672). La tesi centrale si condensa nell’affermazione che „mortalem esse animam fateare necessest“ (629), poichĂ© „quod scinditur et partis discedit in ullas, scilicet aeternam sibi naturam abnuit esse“ (651).

L’analisi si serve di esempi concreti: la progressiva perdita di sensibilitĂ  negli arti morenti („in pedibus primum digitos livescere et unguis, inde pedes et crura mori“ 626), la persistenza di riflessi in membri recisi („ut tremere in terra videatur ab artubus id quod decidit abscisum“ 651), la correlazione tra alterazioni fisiche (ebbrezza, malattia) e turbamenti psicologici („conturbare animam consuevit corpore in ipso“ 614). L’anima Ăš descritta come un’aggregazione di particelle („primordia singula“ 594) soggetta a dispersione („diffundi multoque perire ocius“ 605), analogamente a „fumus“ (610) o „nebula“ (596). La sua mortalitĂ  Ăš provata anche dall’osservazione che „gigni pariter cum corpore“ (606) e con esso invecchia („post ubi iam validis quassatum est viribus aevi corpus, claudicat ingenium“ 609). L’autore respinge l’ipotesi di un’anima immateriale capace di sensazioni autonome („pes sibi vivere solam“ 660), sottolineando che „certum ac dispositumst ubi quicquid crescat et insit“ (687): l’anima non puĂČ esistere „sine corpore“ (688), cosĂŹ come „flamma“ non nasce „in igni gignier algor“ (644). La conclusione logica Ăš che „corpus ubi interiit, periisse necessest confiteare animam“ (691), poichĂ© „mortale aeterno iungere“ (692) Ăš contraddittorio. Il testo si chiude con una riflessione sulla neutralitĂ  della morte: se l’anima Ăš mortale, „nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum“ (696), come il „nihil tempore sensimus aegri“ (697) prima della nascita.


6. Meccanismi della percezione: immagini, simulacri e illusioni sensoriali nel flusso degli atomi

Come gli oggetti emettono particelle che colpiscono i sensi, come la vista inganna e come lo specchio rovescia la realtĂ .


Sommario

Il blocco descrive i principi fisici che regolano la percezione visiva e tattile, attribuendo ogni sensazione al movimento di simulacri („simulacra“) e corpuscoli emessi dagli oggetti. „Praeterea si quae penitus corpuscula rerum ex altoque foras mittuntur, solis uti lux ac vapor, haec puncto cernuntur lapsa diei per totum caeli spatium diffundere sese“ (809): le particelle, come la luce o il calore, si propagano istantaneamente nello spazio, colpendo gli occhi e generando visione, odori o suoni. „perpetuoque fluunt certis ab rebus odores, frigus ut a fluviis, calor ab sole“ (815). La rapidità di questi flussi spiega fenomeni come il riflesso delle stelle nell’acqua („quam celeri motu rerum simulacra ferantur, quod simul ac primum sub diu splendor aquai ponitur, extemplo caelo stellante serena sidera respondent“ 812) o la percezione immediata di sapori („in os salsi venit umor saepe saporis, cum mare versamur propter“ 816).

Il testo approfondisce poi le illusioni ottiche: gli specchi, ad esempio, „duplici geminoque fit a’re visus“ (830), creano immagini rovesciate („fit ut, ante oculus fuerit qui dexter, ut idem nunc sit laevus“ 835) e moltiplicano i riflessi („fit quoque de speculo in speculum ut tradatur imago“ 836). Anche la distanza altera la forma („quadratasque procul turris cum cernimus urbis, [...] videantur saepe rutundae“ 848), mentre l’ombra „sequi gestumque imitari“ (851) ù spiegata come assenza di luce. Infine, si analizzano errori percettivi comuni: la nave che „fertur, cum stare videtur“ (858), i colli che „fugere ad puppim [...] videntur“ (859), le stelle „cessare“* ma in realtà „adsiduo [...] motu“ (860). „Non possunt oculi naturam noscere rerum“ (856): spetta alla ragione correggere le apparenze.


Note

Processi fisici e sensoriali

Illusioni e correzioni


7. Le immagini del pensiero: meccanismi, illusioni e corrispondenze tra volontĂ  e percezione

Dalle leggi del movimento delle simulacra alla selezione involontaria delle immagini mentali


Sommario

Il blocco indaga i meccanismi fisici e percettivi che regolano la formazione e il movimento delle „simulacra“ (immagini), sia in stato di veglia che durante il sonno, interrogandosi sulla loro origine e sulla loro apparente sincronia con la volontĂ  umana. Si descrive come le immagini „muovano le braccia a tempo“ (960) o „procedano in ritmo“ (968) — fenomeni che, analogamente ai sogni, suggeriscono una „mobilità“ (962, 972) e una „copia“ (962) di particelle tali da „fornire“ (962) in ogni istante le rappresentazioni richieste. La domanda centrale riguarda „perchĂ©, non appena il desiderio [libido] si presenta a qualcuno, la mente pensi subito a quello stesso oggetto“ (964), e se siano le immagini a „osservare la nostra volontà“ (965) o viceversa: un dubbio che si estende a scene complesse („adunanze di uomini, processioni, banchetti, battaglie“ – 966) e alla loro generazione spontanea sotto „la volta del cielo“ (966).

Emergono temi minori legati all’illusione percettiva e all’autoinganno: le immagini, „bagnate d’arte“ (969), sembrano „danzare con perizia“ (969) nei sogni, mentre da svegli „ci induciamo in errore“ (979) interpretando „segni minimi“ (979) come prove certe. La selezione delle simulacra dipende dalla „tensione“ (974) dell’animo, che „perde tutto il resto“ (978) tranne „ciĂČ a cui si dedica“ (978): cosĂŹ gli „occhi si sforzano“ (976) di „cogliere con acutezza“ (976) solo ciĂČ che „essi stessi hanno preparato“ (974, 975). La ripetizione di concetti come „tanta Ăš la mobilitĂ  e tanta la quantitĂ  di cose“ (962, 972) sottolinea una ridondanza materialistica, mentre frasi come „quando la prima [immagine] svanisce e un’altra nasce al suo posto, sembra che la precedente abbia cambiato gesto“ (961, 973) illustrano la continuitĂ  illusoria della percezione.


Note

Frasi citate:


8. L’età primitiva della Terra: generazione spontanea, mostri e sopravvivenza in un mondo in trasformazione

La nascita degli esseri viventi dalla terra fertile, la comparsa di creature deformi e la lotta per la sopravvivenza in un ambiente ostile, dove solo l’adattamento garantiva la continuità delle specie.


Sommario

Il testo descrive un’epoca remota in cui la Terra, definita «maternum nomen» (1294) per aver generato «genus ipsa creavit humanum» (1294), dava vita a esseri viventi attraverso un processo spontaneo: «uteri terram radicibus apti» (1290) crescevano dal suolo, nutriti da un «sucum venis cogebat [...] consimilem lactis» (1290), mentre «terra cibum pueris, vestem vapor, herba cubile praebebat» (1291). Tuttavia, «novitas mundi» (1292) imponeva condizioni estreme, «пДс frigora dura [...] пДс nimios aestus» (1292), che solo gli esseri piĂč forti o astuti riuscivano a superare, poichĂ© «omnia enim pariter crescunt et robora sumunt» (1293).

La natura, «ut mulier spatio defessa vetusto» (1295), cessĂČ di procreare quando «destitit» (1295) la sua capacitĂ  generativa, mentre il tempo mutava «mundi naturam totius» (1296): «omnia migrant, omnia commutat natura» (1296), distruggendo ciĂČ che invecchia e favorendo ciĂČ che si adatta. In questa fase emersero «portenta mira facie membrisque coorta» (1299) — creature ibride come «androgynem» (1299), esseri «orba pedum» (1299) o «sine ore» (1299) —, condannati all’estinzione per l’impossibilitĂ  di «propagando procudere saecla» (1301), poichĂ© «natura absterruit auctum» (1300). La sopravvivenza dipendeva da «dolus aut virtus aut denique mobilitas» (1303): i leoni si salvano con «saevaque saecla tutatast virtus» (1305), le volpi con «dolus», i cervi con «fuga» (1305), mentre gli animali utili all’uomo, come «lanigeraeque pecudes» (1306), trovano protezione in cambio di «utilitatis eorum praemia» (1306). Le specie incapaci di adattarsi, «indupedita suis fatalibus omnia vinclis» (1307), soccombevano fino «ad interitum» (1307).

L’umanitĂ  primitiva, «multo fuit illud in arvis durius» (1316), viveva «more ferarum» (1317) in «nemora atque cavos montis» (1324), cibandosi di «glandiferas [...] quercus» (1320) e «pabula dura» (1321), senza conoscere «ferro molirier arva» (1318) o «tractare [...] igni» (1324). La paura dominava la loro esistenza: «saecla ferarum infestam miseris faciebant [...] quietem» (1332), costringendoli a fuggire «spumigeri [...] leonis» (1333) o a morire «viva videns vivo sepeliri viscera busto» (1335). La riproduzione avveniva «in silvis» (1327) per «mutua cupido» (1327) o violenza, mentre la morte era onnipresente, inflitta da «vermina saeva» (1336) o dalla «penuria [...] cibi» (1340). Il mare, «turbida ponti aequora» (1337), era un nemico ignoto, e «improba navigii ratio [...] caeca iacebat» (1339), simbolo di un’epoca in cui l’uomo, «ignaros quid volnera vellent» (1336), affrontava il mondo senza arte nĂ© legge, «пДс legibus uti» (1325).


Note

Riferimenti testuali

9. I fenomeni atmosferici: tuoni, fulmini e la violenza degli elementi

Dalle nubi dense ai lampi che squarciano il cielo: meccanismi, suoni e forze che governano le tempestose manifestazioni della natura.

Il blocco descrive i processi fisici alla base dei fenomeni meteorologici estremi, con particolare attenzione a tuoni, fulmini e grandine. Le frasi illustrano come il vento, agendo sulle nubi, generi suoni simili a „crepitum malos inter iactata trabesque“ (1471) o „murmur dant in frangendo graviter“ (1477), paragonabili al rumore di stoffe strappate o di foreste investite da raffiche. Si spiega che il tuono nasce dallo „scontro delle nubi“ (1472) o dalla „rottura violenta“ (1473) di masse d’aria compressa, mentre i fulmini sono il risultato di „semina ignis“ (1481) scagliati dalle nubi, „quasi da una fucina“ (1486). La velocitĂ  del fulmine Ăš attribuita alla „mobilitas“ (1520) dei suoi componenti, „levibus elementis“ (1521) che trapassano ostacoli come „aes in tempore puncto“ (1498). Si notano anche riferimenti alle stagioni piĂč propizie ai fulmini, „autumnoque magis“ (1528) e in primavera, quando „dissimilis res inter se turbatur“ (1533), e alla distinzione tra „ignis“ e „venti“ (1495) come agenti distinti. Il testo si chiude con una critica alle interpretazioni mitologiche, „non Tyrrhena retro volventem carmina“ (1536), e con domande retoriche sulla presunta selettivitĂ  divina dei fulmini, „cur quibus incautum scelus [...] non faciunt icti flammas“ (1537).

Il sommario evidenzia inoltre la relazione tra la struttura delle nubi („extructis aliis alias super“ 1487) e l’intensitĂ  dei fenomeni, nonchĂ© la progressione logica dagli effetti sonori („sonitus“ 1471, „fragor“ 1480) a quelli visivi („fulgura flammae“ 1486) e distruttivi („discludere turris, disturbare domos“ 1502). Tematiche minori includono il confronto tra la forza del fulmine e altri agenti naturali („solis vapor aetatem non posse“ 1500) e la descrizione delle nubi come „speluncas“ (1489) cariche di energia repressa.


10. I fenomeni naturali tra terrore e spiegazione razionale: terremoti, maree ed eruzioni come segni di un cosmo interconnesso

Quando la terra trema, il fuoco erompe e il mare sfida ogni equilibrio: le forze invisibili che reggono e minacciano il mondo.

Il blocco descrive i fenomeni naturali violenti — terremoti, maree, eruzioni vulcaniche — come manifestazioni di forze interne ed esterne che agiscono sul pianeta, generando paura e sconcerto negli esseri umani. Le frasi (1580-1593) si concentrano sui terremoti: la terra „tremescunt tecta viam propter non magno pondere tota“ („fanno tremare i tetti lungo la strada, anche senza un grande peso”), mentre il vento, accumulatosi in cavitĂ  sotterranee, „incumbit tellus quo venti prona premit vis“ („spinge la terra dove la forza del vento preme con violenza”). L’idea ricorrente Ăš che tali eventi, pur apparendo catastrofici, siano il risultato di dinamiche naturali: „ventus ubi atque animae [...] in loca se cava terrai coniecit“ („quando il vento o una forza vitale si getta nelle cavitĂ  della terra”), generando „magnum concinnat hiatum“ („una grande spaccatura”). Le cittĂ , come „Syria Sidone“ e „Aegi in Peloponneso“, ne sono vittime, ma il testo sottolinea anche la ciclicitĂ  dei fenomeni: „saepius hanc ob rem minitatur terra ruinas quam facit“ („spesso la terra minaccia rovine piĂč di quante ne provochi”).

Il discorso si allarga poi alle maree (1594-1601), dove il mare „non reddere maius“ („non aumenta”) nonostante l’apporto costante di fiumi e piogge, perchĂ© il sole „magnam partem detrahit aestu“ („sottrae una grande parte con l’evaporazione”), mentre i venti e le nubi redistribuiscono l’umiditĂ . Si introduce cosĂŹ un principio di equilibrio dinamico, che culmina nell’eruzione dell’Etna (1602-1616): il vulcano „expirent ignes inter dum turbine tanto“ („erutta fiamme con un turbine immenso”), alimentato da „ventus et a'r“ („vento e aria”) che, riscaldandosi, „tollit se ac rectis [...] eicit alte“ („si solleva ed erompe in alto”). Il testo chiude con una riflessione sulla proporzione: gli eventi, per quanto imponenti, sono „parvula pars“ („una parte minima”) rispetto all’immensitĂ  del cosmo, e la loro apparente eccezionalitĂ  deriva dalla limitata prospettiva umana.


Note

Formulazioni originali latine

Le frasi in russo (es. „пДс ĐŒĐžĐœŃƒŃâ€œ in 1580) sono corruzioni testuali e non vengono tradotte. Le citazioni in latino sono rese in italiano con adattamenti lessicali fedeli al senso (es. „animae“ come „forza vitale“).

Temi minori

11. Il ciclo del calore e del freddo nelle acque e i fenomeni naturali della dispersione

Dall’ardore del sole ai vapori notturni: come il fuoco si nasconde nell’acqua e la magnetite sfida le leggi della materia.

Sommario

Il blocco descrive i meccanismi fisici che regolano il riscaldamento e il raffreddamento delle acque, attribuendo al sole un ruolo centrale: „praesertim cum vix possit per saepta domorum insinuare suum radiis ardentibus aestum“ („specialmente quando a stento riesce a insinuare il suo calore ardente attraverso le mura delle case”). Le acque, durante la notte, si raffreddano „extemplo penitus frigescit terra coitque“ („subito la terra si raffredda completamente e si condensa”), mentre di giorno il calore solare „rare fecit calido miscente vapore“ („rende rare [le particelle] mescolando vapore caldo”) e libera i „semina ignis“ („semi del fuoco”) che danno origine a fenomeni come il vapore e la condensa. L’acqua, pur fredda in superficie, contiene al suo interno particelle infuocate che possono accendere materiali combustibili a contatto: „supra quem sita saepe stuppa iacit flammam“ („sopra cui la stoppa posta spesso getta fiamme”), come dimostra l’esempio della „taeda“ (torcia) che „conlucet, quo cumque natans impellitur auris“ („brilla ovunque sia spinta dal vento mentre galleggia“).

Emergono temi minori come la presenza di „semina vaporis“ („semi di vapore”) che fuoriescono dall’acqua dolce immersa in quella salata, come nel caso della „fons Aradi“ che „dulcis aquai [...] scatit et salsas circum se dimovet undas“ („zampilla di acqua dolce e allontana intorno a sĂ© le onde salate”), utile ai naviganti assetati. Il testo accenna anche a fenomeni di combustione spontanea, come il lino che „accendier ante quam tetigit flammam“ („si accende prima ancora che tocchi la fiamma”), e introduce un cambio di argomento con la „Magneta“ (magnetite), pietra che „ferrum ducere possit“ („puĂČ attrarre il ferro”) e forma „catenam saepe ex anellis“ („spesso una catena di anelli”), suscitando meraviglia per la sua „vis pervalet“ („forza persistente“).

Il passaggio finale estende il discorso ai principi universali della materia, dove „omnibus ab rebus [...] fluere ac mitti spargique“ („da tutte le cose [...] fluiscono, vengono emesse e sparse”) particelle che colpiscono i sensi: odori, suoni, sapori salati o amari, „perpetuo quoniam sentimus et omnia semper“ („poichĂ© percepiamo e sentiamo tutto ininterrottamente”). La magnetite diventa cosĂŹ pretesto per una riflessione piĂč ampia sulle „res quaeque fluenter fertur“ („cose che fluiscono senza sosta”), anticipando una spiegazione che richiede „nimium longis ambagibus“ („un percorso troppo lungo”).