Lucio Russo - Le radici della scienza - Lettura (18m)
//: t 1.0
1. L’eredità dimenticata: osservazioni antiche tra fossili, estinzioni e fenomeni celesti
Dai miti ai cataloghi stellari, tra scetticismo dogmatico e intuizioni precoci sulla trasformazione della natura.
Il blocco ricostruisce un filone di conoscenza spesso trascurato: l’osservazione premoderna di fenomeni naturali oggi associati alla paleontologia e all’astronomia, ostacolata ma non annullata dai „dogmi aristotelici“ sulla fissità delle specie e l’immutabilità dei cieli. Le frasi evidenziano come „l’atteggiamento medievale“ verso le novae e le comete fosse condizionato da pregiudizi teorici, mentre „gli astronomi ellenistici“ — come Ipparco — „avevano osservato e studiato l’apparizione di una nova“, integrandola persino in cataloghi stellari. Il contrasto tra „registrazioni cinesi“ e „trascuratezza europea“ sottolinea una disomogeneità geografica nella ricezione dei fenomeni, superata solo „nell’età moderna“ con l’abbandono del „paradigma aristotelico“.
Parallelamente, il testo documenta una „antica letteratura piena di riferimenti ai fossili“, interpretati come „reliquie di giganti“ (Sant’Agostino, Pausania) o „ossa di eroi“ (Erodoto), ma anche come resti di „animali estinti“ (Eliano, Claudiano) o „mostri“ (collezioni di Augusto). Il mito della gigantomachia viene letto come „spiegazione mitologica“ che, tuttavia, „contiene elementi di verità“: l’associazione tra fossili, „epoche lontane“ e „cataclismi geologici“ prefigura concetti scientifici moderni. Le „uova fossilizzate“ del deserto del Gobi, scambiate per „nidiate di grifoni“, rivelano invece come „fossili facilmente osservabili“ — come quelli di psittacosaurus — abbiano alimentato leggende su creature ibride, anticipando „l’attuale idea“ dei dinosauri come „intermedi tra mammiferi e uccelli“.
Emergono temi minori: la „terminologia latina“ („stellae novae“) come ponte tra antichità e scienza moderna; la „pietrificazione“ studiata da Teofrasto; le „collezioni paleontologiche“ ante litteram (Augusto a Capri); la „selezione naturale“ accennata da Aristotele ed Empedocle. Il blocco si chiude con un confronto implicito: „la paleontologia scientifica“ di Cuvier, pur innovativa, „cita spesso passi di autori antichi“, suggerendo una continuità sotterranea tra „osservazioni già fatte“ e „scoperte“ ottocentesche.
Note
- Le frasi (13–26) trattano astronomia e resistenze dogmatiche; (27–51) fossili come „reliquie“; (52–65) miti zoologici (grifoni); (66–94) estinzioni, fossilizzazione e precursori scientifici.
- Citazioni tradotte: „dogma aristotelico“ (13), „stellae novae“ (24), „antichi mostri“ (82), „sulla pietrificazione“ (86).
- Riferimenti testuali: Plinio (22, 25), Sant’Agostino (32–34), Pausania (31), Erodoto (31), Empedocle (78–79), Lucrezio (82), Teofrasto (86–87).
//: t 2.1
2. La rivoluzione del moto: dalla sfera celeste all’eliocentrismo e alla relatività
Dall’osservazione delle stelle fisse alla crisi del moto assoluto: come l’ipotesi di una Terra mobile ridefinì la fisica e la percezione del movimento.
Il blocco descrive il passaggio da una concezione statica del cosmo, in cui «le stelle siano incastonate [...] in un guscio sferico che ruota nel suo insieme», a una visione dinamica che attribuisce i moti apparenti «non [a] tutto il cielo a ruotare, ma semplicemente alla terra». L’idea, definita «rivoluzionaria», si lega dapprima al modello eliocentrico di Aristarco di Samo, che «immaginò che la terra avesse due moti: un moto di rivoluzione intorno al sole [...] e un moto di rotazione attorno a un asse inclinato», spiegando così «le retrogradazioni planetarie» senza ricorrere a meccanismi ad hoc. Il testo evidenzia poi la rottura concettuale con la nozione di «moto assoluto», dove «un corpo poteva essere o non essere in moto» senza riferimento esplicito alla Terra, e l’emergere di una «nuova concezione del moto [...] relativo», in cui «quello che [è] percepibile [è] solo il moto relativo». Le argomentazioni di Euclide e Erofilo di Calcedonia — secondo cui «non si può decidere se il corpo che si muove [o] l’osservatore che è fermo» e «esistono ipotesi diverse [...] che spiegano ugualmente bene ciò che si osserva» — anticipano il principio di equivalenza tra sistemi di riferimento, minando la certezza di una verità assoluta nei fenomeni osservati.
La transizione teorica è presentata come un processo cumulativo: l’accettazione del «moto della terra» rende «meno rivoluzionario» il successivo elioentrismo, mentre la relatività del moto — «velocità enormi possono essere raggiunte senza rendersene conto» — nega la percezione diretta come criterio di verità. Il blocco chiude sottolineando come queste idee, «più profonde [...] dal punto di vista epistemologico», abbiano implicazioni che vanno oltre l’astronomia, estendendosi alla possibilità di «teorie equivalenti» in grado di «salvare i fenomeni» senza pretese di unicità.
//: t 3.2
3. La sfera cristallina e il moto delle stelle: da Aristarco a Halley, tra scienza e teologia
Tra ipotesi astronomiche antiche e ragionamenti moderni, la persistente credenza in una sfera delle stelle fisse — dapprima negata, poi recuperata come struttura solida — si intreccia con calcoli quantitativi e speculazioni teologiche, fino alla scoperta del moto stellare che ne decreta l’abbandono.
Il blocco traccia un percorso che parte dall’“ipotesi di Aristarco” (473), dove la Terra perde centralità, e arriva alla “sfera cristallina” (480, 485) che Keplero immagina come un guscio solido, calcolandone lo “spessore” (486) tramite “esperimenti con cristalli tedeschi” (496) e deduzioni teologiche: “le tre persone della Santissima Trinità” (501) giustificano l’uguaglianza delle masse tra Sole, pianeti e sfera. La coesistenza di “sviluppi scientifici” (488) e “concezioni primitive” (490) emerge nei “ragionamenti in natura completamente diversi” (509), dove la fisica si mescola a metafore religiose. Solo con Halley (526-533) il “moto delle stelle fisse” (511) — osservato confrontando dati con “il catalogo Stellare di Tolomeo” (531) — smentisce la staticità della sfera, rivelando che “le cosiddette stelle fisse in realtà non sono fisse” (511). Il filo conduttore è la tensione tra eredità antiche (542-548) — come il “catalogo” di Ipparco, pensato per tracciare “stelle nuove” (545) e “moti lentissimi” (548) — e la rivoluzione moderna, dove “un esperimento iniziato 2000 anni prima” (551) trova compimento. Affiorano temi minori: il ruolo della filologia (518-521) nella scienza di Halley, la “confusione” (508) tra metodo empirico e fede, e l’eco di “stupore” (474) per un universo in espansione, già prefigurato da “Aristarco” (473) e “Cicerone” (475).
//: t 4.3
4. Il metodo dimostrativo come fondamento greco: tra matematica, retorica e democrazia
Dall’errore storiografico sul "teorema babilonese" alla nascita di un sistema argomentativo inconfutabile: come la Grecia antica legò logica, politica e geometria in un’unica rete di verità condivise.
Sommario
Il blocco delinea una cesura netta tra la matematica pre-greca e quella ellenica, individuando nel "concetto di dimostrazione e concetto di Teorema" il tratto distintivo che "tende spesso ad essere sottovalutato". L’affermazione secondo cui "nel 2000 avanti Cristo in Mesopotamia [...] era noto che il quadrato costruito sull’ipotenusa equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti" viene smontata: si trattava di una "tesi del teorema di Pitagora", non del teorema stesso, poiché "se manca il metodo dimostrativo [...] non si può parlare né di teorema né di pitagoramenti". La grecità introduce quindi una rivoluzione epistemologica, dove la verità non è garantita dall’"autorità del maestro", ma dalla "necessità di accettare le conseguenze una volta che si sono accettate le premesse".
Il legame tra metodo dimostrativo e democrazia emerge come "connessione evidente" sia sul piano pedagogico che genetico: nelle assemblee del V secolo a.C., "diventa importante riuscire ad argomentare in modo convincente" per ottenere consenso, spingendo i giovani a "affinare le proprie capacità argomentative" nelle scuole di retorica. Questi manuali, pur separando poi "gli aspetti psicologici emotivi" dalla "logica", condividono con la matematica tecniche come la "dimostrazione dell’assurdo", già usata da oratori come Gorgia. La geometria, in particolare, offre un modello unico: a differenza dei "sillogismi isolati" aristotelici, crea "una rete unica" di proposizioni derivate da pochi postulati, permettendo a "qualunque studente" di espanderla. Infine, le "costruzioni geometriche" — "passi non verbali" che superano i limiti del linguaggio — collegano teoria e pratica, chiudendo il cerchio tra astrattezza logica e applicazione concreta.
//: t 5.4
5. La nascita degli enti teorici: dal linguaggio comune al metodo dimostrativo in geometria
Tra postulati, costruzioni e astrazione: come la geometria euclidea trasforma concetti ordinari in oggetti puri della ragione.
Sommario
Il blocco delinea la distinzione fondamentale tra il ragionamento sillogistico — che opera con "termini del linguaggio comune" come "oggetti, animali, uomini" (624-626) — e la dimostrazione geometrica, dove "si parla di concetti teorici" come "punti, rette, piani" (627-629). La nascita di questi "enti teorici" non è casuale, ma "conseguenza del metodo dimostrativo e della scelta dei postulati" (630-631): un esempio è il primo postulato di Euclide, che tradotto in linguaggio ordinario afferma "si può tracciare una linea dritta da ogni segnetto a ogni segnetto" (632-633). Tuttavia, mentre nel linguaggio quotidiano una linea può avere "spessore maggiore o minore", essere "rossa, verde, nera" (636-637), in geometria "nessuna delle affermazioni dedotte logicamente potrà mai contenere affermazioni sul colore o lo spessore" (639-640), perché i postulati ne escludono a priori le proprietà empiriche. Così, termini come "linea" o "segnetto" "restringono la propria estensione semantica" (642) e "perdono molte delle caratteristiche" (644) — forma, colore — diventando enti astratti definiti solo dalle relazioni logiche che li legano.
Un secondo tema riguarda la "connessione tra dimostrazione e costruzione" (646-647) nella geometria euclidea classica, dove le proposizioni si dividono in "teoremi" (dimostrazioni di verità) e "problemi" (costruzioni geometriche con relative giustificazioni) (648-651). Questa unità è stata frammentata nella didattica moderna: le costruzioni sono state relegate al "disegno", privato della dimostrazione, mentre la geometria si è ridotta a "dimostrazioni senza costruire" (654-656), con una "scissione" che ha impoverito l’insegnamento (658). Il metodo dimostrativo, insegnato per "23 secoli" (659) attraverso lo studio diretto di Euclide fino all’Ottocento, è oggi in crisi: sostituito da "geometria analitica" (669) — dove "ai ragionamenti" subentrano "calcoli" (670) — e marginalizzato dall’avanzata del "digitale sull’analogico" (672), che privilegia strumenti matematici discreti rispetto al "continuo" euclideo (673).
Note
(624-645) Confronto tra linguaggio naturale e linguaggio teorico. (646-658) Relazione tra costruzione geometrica e dimostrazione nel metodo euclideo. (659-673) Declino della geometria razionale nella didattica contemporanea.
//: t 6.5
6. La legge della rifrazione tra errori antichi, riscoperte e principi di minimo
Dall’errore di Roberto Grossatesta alla legge di Snell: una storia di fraintendimenti, trasmissioni nascoste e applicazioni ottiche prima di Cartesio e Galileo.
Il blocco ricostruisce la genesi e la circolazione della legge della rifrazione, evidenziando come la sua formulazione corretta sia emersa tra errori interpretativi, recuperi parziali e conoscenze disperse. Si parte dall’analisi dell’“errore grossolano” di Roberto Grossatesta (XIII secolo), che enuncia una legge “completamente sbagliata”: secondo lui, il raggio rifratto seguirebbe “la bisettrice tra la direzione non deviata e la normale”, ipotesi confutata dall’osservazione che “se due mezzi coincidono, non si ha alcuna deviazione”. Nonostante ciò, Grossatesta intuisce un principio unificante, affermando che “la legge della rifrazione, come quella della riflessione, può essere ridotta da un unico principio generale”, anticipando il “principio di minimo” che verrà poi formalizzato. La scoperta che tale principio fosse già noto in ambito islamico — grazie a Ibn Sahl (X secolo), che “non solo enuncia correttamente la legge […] ma la deduce da un principio di minimo” — suggerisce una trasmissione indiretta delle conoscenze, interrotta e poi ripresa da Snell e Cartesio. Il testo accenna anche alle applicazioni pratiche, come “lenti, cannocchiali, microscopi”, smontando il mito di Galileo come inventore del cannocchiale: “si costruivano prima di lui in Olanda”, ma la “storia dell’idea” potrebbe risalire a periodi ancora più antichi.
La narrazione si sofferma sui paradossi della trasmissione scientifica: opere “rimaste inedite” (Ibn Sahl), “fonti antiche” perdute, e “scienziati arabi successivi” che sembrano ignorare la legge pur conosciuta dai loro predecessori. Emerge un fil rouge tra “la scienza antica” (Alessandria, testi greci), gli “errori dovuti a cattive interpretazioni” di figure geometriche, e le “riscoperte indipendenti” di Snell e Cartesio, con quest’ultimo accusato di aver “probabilmente saputo” i risultati di Snell. Il blocco chiude con un riferimento alle “importanti applicazioni” tecnologiche, lasciando aperta la domanda su “quando risale” effettivamente l’uso degli strumenti ottici composti.
//: t 7.6
7. Dagli occhiali al cannocchiale: tracce antiche e ipotesi sulla rifrazione ottica
Tra miti scientifici e reperti archeologici, un percorso a ritroso dalle lenti medievali ai presunti strumenti assiri.
Storia di una possibilità ottica
Il blocco ricostruisce la genesi concettuale e materiale degli strumenti ottici, partendo da applicazioni pratiche come “lenti e non una o tre” (918) per “guardare in dettaglio le macchie lunari” (919) — uno “dei primi usi possibili astronomici di un cannocchiale” (920) anche con “scarso ingrandimento”. La narrazione risale a figure chiave: Fracastoro, che “accenni alla possibilità di costruire strumenti con cui si possono avvicinare gli oggetti lontani” (921); Leonardo, consapevole di “questa possibilità” (922); Ruggero Bacone e, prima ancora, “Roberto grosso testa” (924), il cui “trattato di Iride” (925) menziona tentativi greci di sfruttare la “teoria della rifrazione” (926) per “ingrandire oggetti molto piccoli” o “avvicinare oggetti lontanissimi” (927). Le ipotesi greche vengono liquidate come “fantasie” (928) o “desiderio di realizzare oggetti magici” (929), sebbene “l’idea di connettere la rifrazione con un principio di minimo” (931) fosse nota “secoli prima” (932) a Ibn Sahl, suggerendo “un ricordo di applicazioni [...] ancora più antico” (933).
L’epoca di Roberto Grosstesta (prima metà del 1200) coincide con “una grande affluenza di scritti antichi” (934) da Costantinopoli e dal mondo arabo, “gran parte dei quali non sopravvissuti fino alla stampa” (936), alimentando dubbi sulla “memoria” (937) di conoscenze perdute. Nonostante “opinioni discorde” (939) sull’uso antico di “lenti di ingrandimento” (942), “oggi sembra certo” (943) grazie a “evidenza archeologica” (944): lenti “di ottima qualità” (945) con “segni di molatura” (946) — come quelle scoperte a Pompei (fine Settecento) o a Creta (anni ’80), capaci di “ingrandimento effettivo di 7/8 volte” (951) — confutano teorie “ornamentali” (948). Restano “speculazioni” (953) su “oggetti composti” (952), sebbene passi di Strabone e Gemino accennino a “aulos” (954) o “diottri” (956) che “usavano il fenomeno della rifrazione” (957). L’ipotesi più radicale viene da “tavolette cuneiformi” (961) neo-assire: “tubi d’oro e lenti” (962) consegnati agli astronomi “per ingrandire la loro pupilla” (963) farebbero “pensare a qualcosa di simile a un cannocchiale” (964), seppur “si tratti di dubbi” (964).
//: t 8.7
8. L’osservazione dell’accelerazione: da Stratone ai piani inclinati di Galileo
Metodi empirici e ragionamenti teorici per cogliere il moto accelerato dei gravi.
Sommario
Il blocco descrive due approcci storici allo studio dell’accelerazione, entrambi fondati su osservazioni indirette per ovviare all’impossibilità di seguire „moto [troppo] rapido perché [...] si riesca a capire come varia la velocità nel tempo o nello spazio“. Il primo, attribuito a Stratone di Lampsaco (III sec. a.C.), sfrutta fenomeni quotidiani per inferire l’aumento di velocità: „un rumore maggiore“ al suolo se un corpo cade „da un’altezza maggiore“, o il „comportamento di un filo d’acqua in caduta libera“, la cui „sezione si restringe verso il basso“ a dimostrare che „la velocità con cui l’acqua passa attraverso quel punto“ cresce in proporzione inversa. L’analisi del filo, „fotograf[ando] in un’immagine fissa [...] il comportamento dinamico“, rivela „come aumenta contemporaneamente la velocità“ senza ricorrere a misurazioni dirette, pur con il limite della „formazione delle gocce“ dovuta alla tensione superficiale. Il secondo approccio, quello „dei famosi esperimenti con i piani inclinati“ di Galileo, rallenta il moto per renderlo osservabile, consentendo non solo di „formulare la legge [degli] spazi percorsi [...] proporzionali [ai] quadrati dei tempi“, ma anche di „arrivare [...] al principio di inerzia“: riducendo l’inclinazione, „l’accelerazione è tanto più piccola quanto è più piccolo l’angolo“, fino a ipotizzare un moto perpetuo su un piano orizzontale privo di attrito.
Il testo accenna anche alla trasmissione delle idee: Stratone, „successore di Teofrasto“ al Liceo, influenzò „Erone di Alessandria“ e, tramite fonti antiche, „Giordano Memorario“, che ne ripropose „la spiegazione corretta in termini moderni“. L’utilità didattica di entrambi i metodi è sottolineata, sia per „riconoscere l’esistenza dell’accelerazione“ sia per „arrivare [...] a leggi quantitative“.
//: t 9.8
9. Dal piano inclinato al principio d’inerzia: attrito, macchine reali e l’intuizione perduta di Erone
L’astrazione che rivoluziona la fisica tra esperimenti terrestri e modelli astronomici.
Il blocco descrive il passaggio concettuale dal moto aristotelico — dove «le forze sono la causa del moto» e «a una forza maggiore corrisponde un moto di velocità maggiore» — al principio d’inerzia, emerso dall’osservazione dei piani inclinati e dalla progressiva riduzione dell’attrito. Si evidenzia come «quasi tutti i moti che vengono sulla terra vengono in presenza di attriti», rendendo la fisica aristotelica «vera in prima approssimazione», tranne eccezioni come «il moto della freccia» dopo lo scocco. Il «salto di qualità» avviene «immaginando di prescindere dall’attrito», operazione «irrealistica» per gli esperimenti terrestri ma «vera con ottima approssimazione» nei «modelli astronomici», dove il principio d’inerzia diventa «essenziale per spiegare il moto degli astri».
Centralità assume il «legame stretto» tra inerzia e attrito: «se capisco che tra le forze vi sono anche le forze di attrito che rallentano il moto, allora posso comprendere che in assenza di forze il moto continuerebbe con velocità costante». L’analisi risale a Erone di Alessandria, che nel I secolo d.C. — studiando «piani inclinati» e «macchine per sollevare pesi» — afferma: «per spostare un peso su un piano orizzontale, se il piano è sufficientemente liscio, è sufficiente una forza minore di qualsiasi forza prefissata», enunciato «estremamente vicino» al principio d’inerzia moderno. Erone insiste sulle «asperità del piano» che «causano rallentamenti», anticipando il metodo galileiano di «considerare una successione di piani inclinati con inclinazione sempre più piccola». Nonostante l’opera di Erone sia «sconosciuta all’epoca di Galileo», i due condividono l’argomento «straordinariamente vicino» del piano inclinato portato «a inclinazione zero», suggerendo una «continuità» teorica tra antichità e scienza moderna, seppur frammentaria.
//: t 10.9
10. Dalla gravità aristotelica alla teoria policentrica: corpi, centri e l’ipotesi di un’interazione universale
Il superamento del modello a centro unico e l’emergere di una fisica dei mondi multipli, tra Archimede, Plutarco e le premesse newtoniane.
Il blocco descrive il passaggio da una concezione aristotelica della gravità — fondata su un “punto particolare dello spazio” (1261-1262) che attira esclusivamente i “corpi pesanti” (1261) verso il “centro della terra” (1263), mentre i “corpi leggeri” (1264) si allontanano e i “corpi celesti” (1266) seguono “moto circolare” (1267) senza interagire — a una “teoria policentrica” (1283) in cui “ogni mondo” (1284), come “il sole” (1281) o “la luna” (1280), possiede un “proprio centro” (1285) che attira “le parti di cui consiste” (1281). Questo spostamento concettuale nasce dall’osservazione archimedea che “la Terra è necessariamente sferica” (1271), estendibile a “il sole” e “la luna” (1274-1275), e culmina nella domanda “se esiste una gravità anche in quel caso” (1276), cioè se “le varie parti del Sole e della luna non sono attratte verso il punto centrale” (1277).
Il testo evidenzia due problemi chiave: il “masso lontano da tutti i centri” (1289), che sfida la teoria policentrica, e l’“equilibrio tra il peso e la forza centrifuga” (1308) invocato da Plutarco per spiegare “perché la luna non cade sulla terra” (1303). Quest’ultimo passaggio — “il peso si estende fino alla luna” (1316) — anticipa l’idea di “interazione reciproca” (1318) tra corpi celesti, precorrendo la gravitazione newtoniana. Le “maree” (1319) emergono come “ponte tra il mondo terreno e il mondo celeste” (1323), fenomeno ibrido che costringe a ripensare “i molti celesti” (1321) come non più “perfetti” (1322) ma soggetti a forze comuni. Il ruolo di Plutarco, “trascurato dagli storici” (1310) ma “studiato da Keplero e Newton” (1311-1314), sottolinea la continuità tra antichità e scienza moderna, dove “l’argomento dell’equilibrio” (1315) diventa “essenziale” (1320) per una fisica unificata.
Note
Fonti e riferimenti impliciti
- Deface (1280, 1302, 1310): dialogo di Plutarco citato come testo chiave per la teoria policentrica e l’ipotesi di interazione terra-luna.
- Trattato galleggiante (1276): opera di Archimede che suggerisce l’estensione del concetto di gravità oltre la Terra.
- Principi (1313): riferimento all’opera inedita di Newton in cui compaiono estratti dal Deface.
Temi minori
- Frammentarietà delle testimonianze (1296-1297): difficoltà ricostruttive dovute alla “mancanza di fonti sistematiche”.
- Transizione descrittivo/teorico (1293-1295): distinzione tra astronomia “puramente descrittiva” (1294) e domande “costruttive” (1292) su corpi ipotetici.
- Ruolo delle maree (1323-1327): fenomeno liminare che “costituisce un ponte” (1323) tra fisica terrestre e celeste, sfidando la dicotomia aristotelica.
//: t 11.10
11. Determinismo, ignoranza e caos: dalla catena delle cause alla predicibilità approssimata
Tra antiche intuizioni e teorie moderne: come l’imperfezione della conoscenza umana ridefinisce i confini del caso e della necessità.
Sommario
Il blocco delinea un percorso concettuale che parte dal determinismo assoluto — esemplificato dalla visione di Crisippo, per cui «la catena delle cause non può mai interrompersi» e «non esistono eventi completamente immotivati» (1596) — fino alle teorie del caos deterministico, dove l’«apparenza di casualità» (1599) di fenomeni come il lancio di un dado o il moto di una biglia viene ricondotta «soltanto alla nostra ignoranza dei dettagli» (1599). L’idea centrale, già presente in Laplace e ripresa nelle scienze moderne, è che «la nostra incapacità [...] di descrivere completamente le condizioni iniziali» (1603) rende necessari metodi probabilistici: «se una conoscenza approssimata [...] ci permette di dedurne approssimativamente il suo futuro» (1611), allora la predicibilità diventa una questione pratica, non teorica. Emergono due classi di sistemi: quelli stabili, dove «piccole modifiche [...] portano a piccole modifiche» (1615), e quelli caotici, come «i modelli per le previsioni meteorologiche» (1627), dove «piccole cause possono produrre grandi effetti» (1632) a causa dell’«amplificazione dell’errore» (1631). Il parallelo storico con Filone di Bisanzio — che attribuiva le «differenze casuali» (1641) nelle prestazioni delle catapulte a «piccole variazioni nei dati costruttivi» (1645) — rivela una precoce intuizione del caos deterministico, anticipando l’idea che «attraverso una lunga catena di passaggi matematici [...] piccole variazioni [...] possono portare a grandi differenze» (1646). La tensione tra determinismo teorico e limiti pratici si risolve nella constatazione che «agli effetti pratici è simile a negare il determinismo» (1634), pur senza abbandonarne il principio.
Note
Riferimenti testuali
- Citazioni tradotte:
- (1597) «se un dado lanciato mostra un "sei" [...] "Esistono delle precise ragioni che stanno nel modo in cui è stato lanciato" → «se un dado mostra un sei, esistono precise ragioni nel modo in cui è stato lanciato».
- (1632) «petites causes peuvent produire de grands effets» → «piccole cause possono produrre grandi effetti».
- (1655) «De Mirabilis arbitris» → «Sui meravigliosi meccanismi» (titolo dell’opera di Filone).
- Termini chiave: catena causale ininterrotta (1596), ignoranza come origine della casualità apparente (1599-1600), sistemi stabili vs. caotici (1615-1626), effetto farfalla (1632), limiti della misurazione analogica (1658-1660).
//: t 12.11
12. L’opposizione antico-moderna: analogico e digitale tra matematica, strumenti e supporti materiali
Dalle tavolette mesopotamiche al regolo logaritmico: come la scelta tra continuo e discreto ha plasmato scienza e calcolo prima ancora della tecnologia.
Il blocco traccia una genealogia del conflitto tra metodi analogici e digitali che affonda le radici non nella rivoluzione informatica, ma nelle origini stesse della matematica e nelle differenze culturali tra Greci e Mesopotami. L’“opposizione analogico-digitale” (1667) non è una dialettica recente, bensì una “scelta che riguarda anche il modo di sviluppare la matematica” (1669): da una parte il “discreto” dei pitagorici, che “pensavo di poter generare le linee unendo successioni di punti uno dietro l’altro” (1675) — precursore dei pixel odierni —, dall’altra il “continuo” della geometria greca, dove “riga e compasso costituivano anche uno strumento di calcolo analogico” (1680) e operazioni come la “radice quadrata veniva effettuata disegnando un segmento” (1681-1684). La frattura emerge chiaramente nei supporti: la “scrittura cuneiforme su tavolette di argilla” (1696), poco adatta ai disegni, favorì in Mesopotamia “metodi discreti” (1685) basati su “ricorrenze numeriche” (1687), mentre il “papiro” greco (1695) permise lo sviluppo di “una geometria del continuo” (1698) con “precisione e versatilità” (1699-1700). La gerarchia tra i due approcci fu netta: i calcoli “con numeri interi” (1688), ridotti all’“abaco” e alla “logistica”, erano considerati “di natura inferiore” (1689) rispetto alla geometria, “metodo dominante” (1706) fino al Rinascimento.
Il ribaltamento avviene solo nel Seicento, con la “geometria cartesiana” (1710) che “inverte il rapporto” (1711): le “grandezze geometriche” (1709) cedono il passo alle “funzioni” viste come “relazioni tra numeri” (1713), e il disegno diventa “uno schizzo utile per illustrare verità” (1712) ormai ridotte a “identità numeriche”. La svolta non dipese però solo da idee astratte, ma da “nuove tecniche di calcolo” (1714) come le “tavole dei logaritmi” (1721), che “permette[vano] operazioni impossibili” (1722) in loro assenza. Il testo sottolinea come l’“uso delle tavole numeriche” (1724), oggi “obsoleto” (1725), abbia avuto un ruolo chiave nella “prevalenza dei metodi numerici” (1714) — un passaggio spesso “dimenticato” (1725) ma che precorre l’attuale “pervasività dei metodi digitali” (1666). L’analisi si chiude con un monito: la “scelta tra analogico e digitale” (1672) non è mai stata solo tecnologica, ma ha sempre riflesso “il modo di sviluppare le scienze” (1669), dai “picicli” astronomici greci (1678) ai “regoli logaritmici” (1664) degli ingegneri di trent’anni fa, “normali” (1663) prima che il digitale li soppiantasse.
//: t 13.12
13. Meccanismi antichi e fonti di energia: dalle eliche al vapore, tra innovazione e applicazioni pratiche
Dall’elica cilindrica ai pistoni, dall’energia animale al vapore: come la tecnologia ellenistica anticipò soluzioni moderne tra macchine utili e automi spettacolari.
Il blocco delinea un panorama tecnologico avanzato sviluppato tra il III secolo a.C. e il I secolo d.C., con focus su meccanismi e fonti energetiche che prefigurano soluzioni moderne. L’“elica cilindrica”, definita “l’unica curva che può scorrere su se stessa senza mutar forma”, diventa la base per “filettature di madreviti” e “torchi”, strumenti poi “essenziali nell’Europa moderna”, ad esempio per “la stampa”. Parallelamente, “stantuffi”, “valvole” e “alberi a camme” — spesso attribuiti al Medioevo — sono in realtà “descritti da Erone di Alessandria”, che li impiegava per “mettere in moto meccanismi grazie al vento” o “trasformare moto rotatorio in lineare alternato”. Questi dispositivi, “non usati per volare” ma per “applicazioni pratiche”, dimostrano una “vicinanza con la tecnologia moderna”, pur essendo talvolta “di interesse puramente dimostrativo”.
Le fonti energetiche esplorate spaziano dall’“energia animale”, sfruttata “non solo per trazione, ma per sollevare acqua o macinare grano” tramite “ingranaggi”, all’“energia idraulica” dei “mulini verticali” (diffusi “dal 100 a.C.”), fino al “vapore compresso” — “usato in meccanismi descrittivi” da Erone — e all’“energia solare” degli “specchi ustori”. L’“uso ludico” di “automi” e “teatrini automatici” (con “sipari che si calano”) solleva dubbi sulla “rilevanza economica” di queste invenzioni, ma esempi come “macchine per il sollevamento dell’acqua” — “essenziali per irrigazione, miniere e navigazione” — o “seghe idrauliche” provano una “diffusione sistematica”. La “tecnologia scientifica” ellenistica, “legata a scienziati come Archimede”, si distingue per “l’applicazione di principi teorici” e la “capacità di sostituire lavoro umano con meccanismi automatici”, anticipando “la tecnologia moderna”.
//: t 14.13
14. La misurazione del tempo tra scienza, medicina e tecnologia: da Archimede a Erofilo
Dall’astronomia alla diagnostica: orologi ad acqua, battiti cardiaci e l’invenzione della precisione
Il blocco esplora la concezione e l’applicazione pratica della misurazione del tempo nell’antichità, partendo dall’idea archimedea di trattare gli „intervalli di tempo esattamente come gli intervalli spaziali“ e arrivando agli usi innovativi in astronomia e medicina. In astronomia, le „misure di tempo si riconducono spesso a misure angolari“ tramite strumenti dedicati, ma si sperimenta anche l’inverso: „usare orologi ad acqua per misurare tempi che servono per misurare angoli“, come la „grandezza angolare della luna“ calcolata dal „tempo che occorre alla luna per tramontare“. La precisione diventa centrale, soprattutto nel „primo periodo ellenistico in medicina“, dove Erofilo introduce „il primo uso probabilmente di misure quantitative“ per analizzare il „battito“ cardiaco. La „durata del battito“ e la sua „frequenza“ vengono studiate come „strumento diagnostico“, rivelando correlazioni con „stati febbrili“ e „l’età della persona“. Erofilo adatta „un orologio tarabile“ per confrontare i dati con parametri normali, anticipando procedure statistiche come la „media di molte misure“, spesso considerate assenti nell’antichità. Si indaga anche il „rapporto tra durata della sistole e della diastole“, applicando „strumenti matematici relativamente elaborati“ e termini „della teoria musicale“ per descrivere i „ritmi cardiaci“.
Il testo approfondisce poi i principi tecnologici dietro gli orologi ad acqua, basati sul „deflusso di acqua“ in „condizioni eguali“ di pressione e temperatura, e li confronta con i successivi „orologi a pendolo“ e „elettronici“, evidenziando come questi ultimi, pur più precisi, „nascondano“ i fenomeni periodici di riferimento. Si sottolinea il valore didattico degli antichi strumenti per comprendere „come nasce l’idea di misurare il tempo usando un fenomeno semplice e visibile“. In chiusura, si accenna ai limiti concettuali della misurazione in contesti estremi, come „i primi istanti di esistenza dell’universo“, dove „i fenomeni eguali [...] rischiano di essere inesistenti“, ponendo un confronto implicito tra la concretezza degli strumenti antichi e l’astrattezza della cosmologia moderna.
//: t 15.14
15. Tecnologie militari antiche tra ingegno meccanico e declino scientifico
Dalle catapulte a torsione alle armi pneumatiche: innovazioni perdute e ricostruzioni moderne di una tradizione bellica legata alla matematica applicata.
Il blocco descrive lo sviluppo e la scomparsa di „armi da getto“ antiche, con focus sulle soluzioni tecniche e i limiti culturali che ne determinarono l’oblio. Si parte dalle „catapulte a torsione“ (2129), esempio di „connessione tra matematica e tecnologia militare“ (2129), per approdare a „armi pneumatiche“ (2131) ideate da „Filone di Bisanzio“ (2132), il cui principio sfruttava „aria compressa“ (2135) sotto un „pistone“ (2135) scagliato „a grande velocità“ (2135). Nonostante „dubbi sulla loro efficacia“ (2133), queste invenzioni rivelano „capacità tecnica“ avanzata (2138), come la „molatura precisa“ (2137) per pompe e cilindri, e „meccanismi matematici“ (2144) per „catapulte a ripetizione“ (2140) in grado di „mandare molti colpi“ (2143) „senza intervento dell’uomo“ (2145). Il testo evidenzia anche il „disinteresse romano per gli aspetti teorici“ (2155), causa del „declino dell’efficienza dell’armamento“ (2157) e della „perdita completa“ (2158) di queste tecnologie in Europa, sostituite solo con „le armi da fuoco“ (2160) nel Medioevo.
Emergono temi minori come la „tradizione asiatica“ (2148) forse „conservata“ (2148) dopo l’ellenismo, testimoniata da „balestre automatiche“ (2146) usate „nella Guerra Cina-giapponese (1894-1895)“ (2147), e le „ricostruzioni moderne“ (2164): nel „1904“ (2164), il generale „RAM“ (2165) e il filologo „Deal“ (2165) riprodussero „catapulte“ (2166) basate su „trattati di Filone“ (2165), dimostrandone l’„efficacia insospettata“ (2167) e superando „difficoltà costruttive“ (2171) con „catene di biciclette“ (2173), analoghe a quelle „descritte da Filone“ (2174). Un cenno finale collega queste catene ai „disegni di Leonardo“ (2176), aprendo „una polemica“ (2178) sulla „pretesa bicicletta“ (2179) attribuita al suo allievo.
Note
Riferimenti tecnici
- „Fibre complesse“ (2134): „capelli di donna o crini di cavallo“ (2134) usati come „mezzo elastico“ (2134) nelle armi pneumatiche.
- „Serbatoio“ (2144): sistema di „colpi successivi“ (2144) per catapulte a ripetizione, „senza intervento umano“ (2145).
- „Catene di trasmissione“ (2171): ostacolo ricostruttivo risolto con „catene di biciclette“ (2173), „prodotto moderno“ (2174) paragonabile alla tecnologia antica.
Contesto storico
- „Alto Medioevo“ (2157): „perdita totale“ (2158) della „arte di costruire catapulte“ (2158) in Europa occidentale.
- „Armi da fuoco“ (2160): „sostitutive“ (2160) delle „antiche armi da getto“ (2160), con „funzione simile“ (2161) alle „catapulte“ (2161) nell’„assedio“ (2162).
//: t 16.15
16. Dalle mixis all’oncos: precursori antichi della chimica moderna tra composizione, molecole e sintesi industriale
Tra alchimia empirica e scetticismo filosofico: come termini greci come *sioncés e oncos anticiparono concetti chiave della chimica, dalla reattività alle molecole, passando per applicazioni industriali già diffuse nell’antichità.*
Il blocco delinea un percorso concettuale che parte dalla classificazione delle combinazioni di sostanze nell’antichità, distinguendo tra semplici miscele (mixis, krases) e trasformazioni qualitative radicali, definite sioncés e paragonate alle „composizioni chimiche“ moderne: „nella miscela le qualità [...] sono intermedie“, mentre nella sioncés emergono „qualità completamente diverse“, segnalando una „reazione chimica“. L’attenzione si sposta poi sul termine oncos, attribuito a medici come Asclepiade di Prusa, che indica un „costituente ultimo [...] composto di più parti“ (a differenza dell’atomo indivisibile), fungendo da antecedente della „molecola“ moderna. Il concetto viene collegato a pratiche industriali antiche („essenze o medicine sintetiche“) e alla radice etimologica di „chemeia“ (chimica), suggellando un legame tra teoria e applicazione.
Un secondo tema minore riguarda la trasmissione di queste idee: Sesto Empirico e il „chimico scettico“ di Boyle diventano snodi chiave, con il primo che documenta teorie sull’oncos (tradotto in latino come „moles“, poi „molecola“) e il secondo che le riprende in un contesto scettico, evidenziando una „filo diretto“ tra antichità e scienza moderna. Le industrie di trasformazione („coloranti, medicinali, essenze“) e la sintesi di „prodotti non sempre di origine vegetale o animale“ completano il quadro, mostrando come conoscenze empiriche („conservazione della massa“) fossero già operative, seppur frammentarie.
//: t 17.16
17. Un’ombra di Darwin in Aristotele: selezione naturale e finalismo tra caso e sopravvivenza
Tra teoria finalistica e meccanismi casuali, un brano della Fisica aristotelica anticipa, in forma embrionale, il principio darwiniano: «nulla impedisce che anche le parti degli esseri viventi si abbiano lo stesso modo [della pioggia] e che ad esempio per necessità i denti incisivi si formino affilati [...] ma che ciò non avvenga per tali fini, ma accade a caso». Il testo, apparentemente estraneo al sistema aristotelico, descrive un processo in cui «quegli esseri si sono salvati perché costituiti accidentalmente in modo opportuno», mentre «per i quali ciò non è avvenuto si sono estinti», delineando una dinamica selettiva ante litteram. La stranezza della collocazione — «in un’opera di Aristotele che va in tutt’altra direzione» — solleva dubbi sulla paternità: obiezione interna, inserimento redazionale, o eco di dibattiti successivi? Il passaggio, «citato così tra le righe» da Darwin stesso, rivela una «ombra dell’idea della selezione naturale» che precorre di secoli la sua formalizzazione, pur rimanendo «più una citazione erudita» che un riconoscimento esplicito.
Il sommario evidenzia due temi minori: la tensione tra «principio teleologico» e «necessità» come motori dell’adattamento, e il ruolo della «sopravvivenza accidentale» come criterio di distinzione tra organismi. Il brano, «spiegato con grande chiarezza», mostra come «la spiegazione finalistica riesca a spiegare effettivamente le cose» solo perché «la selezione naturale [...] include le spiegazioni finalistiche, spiegando però anche di più», ovvero il «perché» alcune strutture persistono: «come se fossero stati progettati», ma «per caso». La scoperta del passo — «trovato molto facilmente» seguendo un metodo induttivo («legger Darwin per trovare Aristotele») — sottolinea un paradosso storiografico: un’idea «più chiara che in alcuni manuali moderni», eppure «poco rilevante» per la tradizione biologica, sepolta tra «note esoteriche» e redazioni incerte. L’accostamento con il contesto ellenistico — «rivoluzione scientifica» in anatomia, meccanica, astronomia — suggerisce un clima intellettuale favorevole a ipotesi audaci, anche se poi marginalizzate.
//: t 18.17
18. Dalle apparenze alle ipotesi: il fondamento incerto della conoscenza scientifica tra scetticismo antico e rivoluzione moderna
Quando la certezza si riduce a ciò che percepiamo, e le teorie si misurano solo sulla capacità di "salvare i fenomeni"
Sommario
Il blocco delinea un conflitto epistemologico tra la certezza delle apparenze e l’instabilità delle ipotesi, partendo dall’osservazione che „l’unica cosa di cui possiamo essere certi sono le apparenze“ (2627, 2631). Gli scettici antichi, come Sesto Empirico, identificano nei „fenomeni“ — intesi non come eventi oggettivi ma come „percezioni“ (2622, 2632) — l’unico fondamento indubitabile: „posso ignorare le cause, ma non posso dubitare del fatto che effettivamente ho caldo o freddo“ (2628). Questo principio si scontra con la natura delle teorie scientifiche, costruite su „ipotesi“ (2618, 2633) che, pur non essendo verificabili in assoluto (2614-2616), devono „salvare i fenomeni“ (2634), cioè riprodurre ciò che viene osservato. L’esempio di Aristarco (2637-2639) e l’ottica euclidea (2640-2642) illustrano come una teoria sia valida finché „la corrispondenza tra i fenomeni dedotti e i fenomeni realmente percepiti“ (2642) regge, senza però escludere ipotesi alternative che spiegino gli stessi dati (2644, 2651-2652).
Il testo evidenzia poi la frattura metodologica con la scienza moderna: mentre l’antichità accetta „ipotesi“ come strumenti utili a „dedurre col metodo dimostrativo“ (2635) le apparenze, Newton e la tradizione post-rivoluzionaria pretendono „principi veri in senso assoluto“ (2670), rifiutando le ipotesi in favore di „fatti“ (2661, 2674) osservabili. Questo spostamento semeiotico — „fenomeno“ da „percezione“ a „fatto“ (2660-2662), „ottica“ da „studio della visione“ a „studio della luce“ (2664-2665) — riflette un’esigenza di certezza dogmatica (2668-2669), influenzata da „lezioni teologiche“ (2670) e lontana dalla „scienza laica“ (2669) antica. Il paradosso emerge quando si „dimentica“ (2662) che „l’unica cosa certa è la percezione“ (2627), e che „due teorie diverse possono provare gli stessi fatti“ (2678), rendendo vana la pretesa di verità assoluta.
Note
- Fenomeni: dal greco φαινόμενα (phainómena), tradotto come „apparenze“ (2623, 2632) o „percezioni“ (2622), in opposizione al significato moderno di „fatti oggettivi“ (2661).
- Salvare i fenomeni: locuzione tecnica (2634, 2680) che indica la capacità di una teoria di riprodurre le osservazioni, senza implicare verità ontologica.
- Ipotesi vs. principi: nel metodo antico, le „ipotesi“ (2618, 2671) sono assunti strumentali; in quello moderno, si cerca „principi assolutamente veri“ (2672).