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Lucio Russo - Le radici della scienza

Argomento 1: Dogmi aristotelici e la percezione storica dei fossili e dei fenomeni celesti

L'ostacolo dei paradigmi classici e le interpretazioni pre-moderne dei reperti naturali

Il sommario tratta della persistenza del "dogma aristotelico della fissità delle specie" e del "dogma dell'immutabilità dei cieli", che ostacolavano la considerazione di fenomeni come "l'apparizione di stelle nuove, le cosiddette nove o supernove" o "l'apparizione di nuove comete". "Solo nell'età moderna superando il paradigma aristotelico si sarebbe potuto osservare sia le novità che appaiono nel cielo sia l'osservazione di specie estinte nella terra". Tuttavia, questa visione è problematica per l'antichità, poiché "sappiamo infatti ad esempio da Plinio che gli astronomi ellenistici e in particolare Ipparco avevano non solo osservato e studiato l'apparizione di una Nova" ma ne avevano tratto spunto per compilare cataloghi stellari. Un tema minore è la continuità terminologica, poiché "le stelle nuove si chiamano nove si usa la terminologia latina e proprio perché si continua a usare la terminologia che era stata usata da Plinio".

L'argomento prosegue con l'analisi delle interpretazioni antiche dei fossili, che "in molti casi, ossa fossilizzate erano conservate ed esibite nei templi dove erano oggetto di venerazione in quanto erano considerati i resti, si potrebbe dire reliquie, di giganti o di eroi". Figure come Pausania, Erodoto e Sant'Agostino, il quale "racconta che il suo iniziale scetticismo verso l'esistenza di giganti era scomparso osservando un molare grande almeno 100 volte più del normale", testimoniano questa tendenza. Il mito della Gigantomachia viene presentato come una spiegazione mitologica che racchiude "alcuni importanti elementi di verità", come "l'idea di attribuire la trasformazione in pietra di ossa di esseri una volta viventi" e di collocare "la vita di questi esseri ad un'epoca lontana nel passato". Un altro tema minore riguarda l'errata identificazione morfologica, poiché "se si ritrova ad esempio un femore è molto difficile distinguere la forma del femore umano da un femore... di un proboscidato", e la ricostruzione errata poteva far sì che "un animale come un mastodonte può assumere la posizione di un gigante". Non tutti i fossili erano attribuiti a giganti; alcuni erano visti come resti di animali ritenuti ancora viventi, come i Grifoni, la cui leggenda potrebbe originare dal ritrovamento nel deserto di Gobi di "fossili di psittacosauro o di protoceratops", dinosauri con "un poderoso becco e che depongono uova". L'idea di animali ibridi o mostruosi trova riscontro in autori come Empedocle, che "aveva sostenuto che la terra un tempo era stata popolata di mostri... formati assemblando insieme membra più disparate", un'idea che "può essere originata dal ritrovamento di scheletri che univano caratteri lontani tra loro". Infine, si contesta l'idea di un disinteresse generale, citando il trattato perduto di Teofrasto "Sulla pietrificazione" e notando che "la paleontologia scientifica... cominciò a studiare in modo scientifico... resti di grandi vertebrati" con Cuvier, il quale "cita spesso passi di autori antichi sull'argomento dei fossili".


Argomento 2: La rivoluzione copernicana antica e la relatività del moto

L'evoluzione delle teorie astronomiche attraverso l'ipotesi del moto terrestre e le sue implicazioni sulla concezione del movimento

Il sommario tratta della transizione dalle spiegazioni astronomiche tradizionali alle prime formulazioni di moti terrestri, partendo dall'osservazione che "le stelle siano incastonate in un guscio sferico che ruota nel suo insieme". Eraclide Pontico propose l'idea rivoluzionaria che "non fosse tutto il cielo a ruotare ma semplicemente la terra", mentre Aristarco di Samo immaginò che "la terra avesse due moti: un moto di rivoluzione intorno al sole e un moto di rotazione attorno ad un asse inclinato". Queste ipotesi miravano a "salvare le apparenze" e spiegare fenomeni come le "retrogradazioni planetarie", dove i pianeti "sembrano ogni tanto invertire il moto mentre avanzano in una certa direzione poi tornano indietro".

L'argomento sviluppa le implicazioni filosofiche di queste teorie astronomiche, evidenziando come l'idea del moto terrestre richiedesse un cambiamento profondo nella concezione del movimento. Gli uomini avevano sempre considerato i moti come assoluti, dove "un corpo poteva essere o non essere in moto" con "il riferimento alla Terra sottinteso". L'ipotesi che "sia la terra stessa a muoversi" apparve particolarmente rivoluzionaria perché legata a "una nuova concezione del moto che non sia solo assoluta ma che possa essere un moto anche relativo". Euclide ed Erofilo di Calcedonia svilupparono le prime affermazioni relativistiche, sostenendo che "quello che è percepibile da parte dell'occhio sono i moti relativi tra l'osservatore e l'oggetto visto, non il moto assoluto". Erofilo affermò che "se si vede un corpo muoversi non si può decidere se il corpo che si muove e l'osservatore è fermo oppure se l'osservatore che si muove e il corpo è fermo", introducendo l'idea che "si possono fare ipotesi alternative apparentemente contraddittorie che spiegano egualmente bene le percezioni" tra le quali non è possibile scegliere.


Argomento 3: La persistenza della sfera cristallina e la scoperta del moto delle stelle

L'evoluzione di un'idea cosmologica antica e il suo superamento attraverso osservazioni e ragionamenti che intrecciano scienza, teologia e filologia.

Il concetto di una sfera cristallina delle stelle fisse, "recuperata e riconsiderata solida" da Tolomeo, attraversa il medioevo ed è ancora accettata da scienziati della prima età moderna come Copernico, che "crede nell'esistenza della sfera cristallina delle stelle fisse". Keplero, pur formulando le leggi sul moto dei pianeti, elabora un metodo per calcolarne lo spessore, ritenendo che si trattasse di "un cristallo analogo al Cristallo di Boemia". Il suo ragionamento si basa su un'equivalenza teologica, poiché "le tre persone per la trinità sono equivalenti" e quindi "le tre masse devono essere uguali", deducendo così che "la massa totale della sfera di cristallo delle stelle fisse deve essere eguale alla massa del Sole". Questo esempio illustra la "confusione ancora vi era all'inizio dell'età moderna tra ragionamenti scientifici e ragionamenti in natura completamente diversi". L'idea della sfera cristallina scompare definitivamente quando si riconosce che "le cosiddette stelle fisse in realtà non sono fisse", un moto osservato per la prima volta da Halley nel 1718. Halley confrontò "le coordinate Angolari da lui misurate" con quelle "riportate nel catalogo Stellare di Claudio Tolomeo", accorgendosi che "le stelle siano spostate di una quantità apprezzabile". Questo esperimento completava un'ipotesi avanzata secoli prima da Ipparco, che "sospettava che le stelle fisse potessero in realtà essere mobili" e aveva compilato un catalogo affinché "i posteri potessero poi confrontarla con la posizione misurata da loro". La storia suggerisce che Ipparco, ipotizzando il moto delle stelle, "non credeva nella sfera cristallina delle fisse", fornendo un indizio che punta verso l'idea del moto della Terra.


Argomento 4: Origine e natura del metodo dimostrativo nella matematica greca

La nascita del metodo dimostrativo e il suo legame con la democrazia e la retorica.

Il metodo dimostrativo appare per la prima volta nella civiltà greca, dove emerge il "concetto di dimostrazione e concetto di Teorema". Si distingue tra la mera conoscenza di una relazione matematica, come il fatto che "il quadrato costruito sull'ipotenusa [sia] equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti", e il vero teorema, che richiede che "sia possibile dimostrare la sua tesi a partire da alcuni postulati". Senza il metodo dimostrativo, "non si può parlare né di teorema". Questo metodo si forma nel mondo greco nel corso del IV secolo a.C. e viene collegato alla democrazia, poiché "esiste un legame profondo tra il metodo dimostrativo e la democrazia". In un contesto democratico, dove "il potere quindi viene assegnato a assemblee con potere deliberativo", diventa fondamentale "riuscire ad argomentare in modo convincente", il che favorisce la nascita di "scuole di retorica e anche manuali di retorica". La connessione tra retorica e matematica è evidente, poiché "alcuni metodi dimostrativi, non solo la dimostrazione dell'assurdo ma anche alcune varianti particolari", appaiono in orazioni prima che in scritti matematici. Successivamente, dagli aspetti del discorso si separa la logica, con l'analisi dei sillogismi da parte di Aristotele, che mostra "l'assoluta inconfutabilità, la necessità di accettare le conseguenze una volta che si sono accettate le premesse". Quintiliano consiglia agli aspiranti oratori di "raffinare le proprie capacità argomentative con lo studio della geometria", sottolineando il legame tra capacità argomentativa e dimostrazione geometrica. Tuttavia, la dimostrazione matematica differisce dal sillogismo aristotelico perché, in geometria, "si creano un'unica rete facendo discendere tutte le affermazioni da poche affermazioni scelte con i postulati". Questa struttura a rete permette di estendere la teoria e include "passi non verbali che possono essere costruiti da calcoli o da costruzioni geometriche", le quali offrono "molti più gradi di libertà" e creano un ponte tra la teoria matematica e le applicazioni tecniche.


Argomento 5: Origine e natura degli enti teorici nel metodo dimostrativo geometrico

Dalla nascita degli enti teorici attraverso il metodo dimostrativo alla crisi dell'insegnamento della geometria euclidea.

Il metodo dimostrativo geometrico genera enti teorici quando "i termini usati sono i termini del linguaggio comune" per oggetti quotidiani, ma nelle dimostrazioni "si usano termini che individuano concetti teorici" come punti, rette e piani. Questa trasformazione avviene perché "questa nascita non è indipendente ma è una conseguenza proprio del metodo dimostrativo e della scelta dei postulati". Ad esempio, il primo postulato di Euclide, tradotto letteralmente, "afferma che si può tracciare una linea dritta da ogni segnetto a ogni segnetto", ma poiché i postulati non menzionano spessore o colore, "nessuna delle affermazioni dedotte logicamente con metodo dimostrativo dai postulati potrà mai contenere nessuna affermazione sul colore della linea né sullo spessore". Così "la linea restringe la propria estensione semantica diventa qualcosa che non ha spessore non ha colore", creando implicitamente enti teorici.

Un altro aspetto importante è "la connessione tra dimostrazione e costruzione", dove le proposizioni euclidee si dividono in teoremi che dimostrano verità e problemi che descrivono "la possibilità di operare costruzioni geometriche" seguite dalla "dimostrazione che l'ente geometrico così costruito soddisfa effettivamente le proprietà richieste". Questa connessione si è persa nella tradizione didattica moderna, dove "questa scissione è poi andata persa parecchio nella tradizione didattica della geometria moderna". Il metodo dimostrativo è stato insegnato per 23 secoli attraverso "lo studio della geometria razionale la geometria euclidea", ma oggi "l'insegnamento della geometria razionale è in grave crisi" per motivi come la sostituzione con la geometria analitica, dove "fare dei passaggi algebrici in modo meccanico" è preferito a "articolare un ragionamento complesso", e "la prevalenza crescente del digitale sull'analogico", poiché la geometria euclidea è "legata alla matematica del continuo" mentre guadagnano importanza strumenti matematici connessi al discreto.


Argomento 6: Storia e sviluppo della legge della rifrazione

La scoperta e le controversie sulla paternità della legge della rifrazione, dagli studi greci e islamici alle applicazioni ottiche successive.

Il sommario tratta la complessa attribuzione della legge della rifrazione, spesso associata a Cartesio ma "scoperta apparentemente da Snell" che "era morto una decina d'anni prima della pubblicazione della Diottrica di Cartesio". Viene esaminato il precedente contributo di Roberto Grossatesta, che "enuncia una legge della rifrazione" sebbene "completamente sbagliata" poiché affermava che "un raggio di luce che si rifrange segue la bisettrice", errore che "fa pensare che l'origine dell'errore ci sia l'incomprensioni di un testo". Tuttavia Grossatesta intuisce che "ambedue le leggi dell'ottica possono essere ridotte da un principio di minimo", anticipazione confermata dal ritrovamento di un'opera di Ibn Sahl dove "non solo enuncia correttamente la legge della rifrazione" ma "era stata dedotta proprio da un principio di minimo", dimostrando che "250 anni prima di Roberto Grossatesta almeno in ambienti islamici si conosceva sia la legge sia la connessione tra la legge di rifrazione e il principio di minimo". L'argomento accenna alle applicazioni pratiche come "cannocchiali, microscopi" e alla revisione storica che, contrariamente alla credenza che "fosse un'invenzione di Galileo", rivela come "cannocchiali si costruivano prima di lui in particolare in Olanda".


Argomento 7: Antiche origini e controversie sugli strumenti ottici a rifrazione

Tracce di lenti e cannocchiali prima dell'era moderna: dibattiti tra fonti letterarie, evidenze archeologiche e speculazioni storiche.

Il sommario tratta le prime menzioni di strumenti ottici basati sulla rifrazione, partendo da Fracastoro e Leonardo da Vinci, che "accenni alla possibilità di costruire strumenti con cui si possono avvicinare gli oggetti lontani". Risale poi a Ruggero Bacone e Roberto Grossatesta, il quale "collegare la possibilità di vedere oggetti lontani proprio con il fenomeno della rifrazione", suggerendo conoscenze antiche perdute. Viene discusso l'uso di lenti nell'antichità, con "lenti per accendere il fuoco" citate da Aristofane e Plinio, mentre "lenti di ingrandimento" sono confermate da "evidenza archeologica", come ritrovamenti a Creta con "lenti che possono dare un ingrandimento effettivo di 7/8 volte". Si esplorano speculazioni su strumenti composti, tra cui passi di Strabone e Tolomeo che "usavano anche il fenomeno della rifrazione", e l'ipotesi di Pettinato su "cannocchiali erano usati in periodo neo-assiro", basata su tavolette con "tubi d'oro e lenti" per astronomi.


Argomento 8: Metodi storici per lo studio del moto accelerato

L'evoluzione degli esperimenti e delle osservazioni per analizzare l'accelerazione dei corpi in caduta, dai primi argomenti qualitativi alla formulazione quantitativa delle leggi del moto.

Il sommario inizia con la difficoltà di osservare direttamente il moto rapido, poiché "moto è troppo rapido perché seguendolo con lo sguardo si riesca a capire come varia la velocità nel tempo o nello spazio". Galileo superò questo ostacolo con i piani inclinati, che costituivano "un espediente per rallentare il moto in modo da renderlo più facilmente osservabile". Prima di Galileo, Stratone di Lampsaco sviluppò argomenti per dimostrare l'accelerazione dei gravi, tra cui l'osservazione che "un corpo lasciato cadere da un'altezza maggiore fa un rumore maggiore quando arriva a terra". L'osservazione più acuta riguardava il comportamento di un filo d'acqua in caduta: Stratone notò che "se osservo un filo d'acqua in caduta [...] la quantità di acqua che passa ad una certa altezza deve essere uguale a quella che [...] passa ad un'altra altezza", deducendo che "se l'acqua cambia di velocità deve cambiare in modo inversamente proporzionale alla sezione del filo". Questa osservazione permise di "fotografare non solo in un istante tutte le velocità" del moto accelerato. Gli esperimenti galileiani con piani inclinati portarono alla legge quantitativa che "gli spazi percorsi sono proporzionali ai quadrati dei tempi impiegati" e furono essenziali per la formulazione del principio d'inerzia, poiché studiando piani "con inclinazione sempre minore si arriva abbastanza naturalmente al principio di inerzia".


Argomento 9: Il principio d'inerzia e il ruolo dell'attrito nella storia della meccanica

L'evoluzione del principio d'inerzia attraverso l'analisi degli attriti nei sistemi meccanici

Il principio d'inerzia rappresenta una rivoluzione rispetto alla fisica aristotelica, dove "le forze sono la causa del moto e ad una forza maggiore corrisponde un moto di velocità maggiore". L'elaborazione del concetto avviene attraverso esperimenti con piani inclinati, osservando che "l'accelerazione dovrebbe venire meno e quindi i corpi dovrebbero continuare a muoversi con una velocità costante" quando si riducono gli attriti. Il legame tra principio d'inerzia e attrito è molto stretto, poiché "capisco che tra le forze di cui devo tener conto vi sono anche le forze di attrito che rallentano il moto" e quindi "in assenza di tutte le cause di rallentamento dovuto agli attriti il moto continuerebbe con velocità costante".

Erone di Alessandria, nel primo secolo dopo Cristo, anticipa concetti fondamentali nella sua opera sulla meccanica, chiedendosi "quale forza è necessario per spostare un peso lungo un piano orizzontale" e affermando che "se il piano è sufficientemente liscio [...] è sufficiente una forza minore di qualsiasi forza prefissata". La sua trattazione insiste sul concetto di attrito, descrivendo come "le asperità del piano causano rallentamenti" e la necessità di "rendere i piani lisci per poter prescindere da questi effetti". L'argomento di Erone appare straordinariamente vicino a quello di Galileo, poiché entrambi "parte da piani inclinati e poi fa attendere a zero l'inclinazione" notando che "per spostare un peso lungo un piano orizzontale basta inclinare di pochissimo il piano". La trasmissione di queste conoscenze rimane incerta, dato che l'opera di Erone "non si è conservata in greco tranne qualche frammento" e "si trattava di un'opera sconosciuta all'epoca di Galileo".


Argomento 10: Evoluzione delle teorie sulla gravità dall'antichità all'inizio dell'età moderna

Dalle concezioni aristoteliche alla gravitazione universale: un percorso attraverso le teorie policentriche, le testimonianze di Plutarco e il ruolo delle maree.

Il percorso di sviluppo delle teorie sulla gravità parte dalla concezione aristotelica, in cui "solo i primi cioè corpi pesanti per loro natura sono attratti da un punto particolare" che coincide con "il centro della terra", mentre "corpi leggeri anziché tendere verso questo punto particolare centro della terra tendono la direzione opposta" e "corpi celesti gli astri che tendono né allontanarsi né avvicinarsi al centro ma si muovono invece di moto circolare attorno al centro". Archimede, utilizzando queste stesse ipotesi, dimostrò che "la Terra è necessariamente sferica", aprendo la strada a successive evoluzioni teoriche. Questo portò a interrogarsi sul perché "non è sferica solo la terra ma sferica anche il sole ad esempio", suggerendo l'idea che "le varie parti del Sole e della luna non sono attratte verso il punto centrale rispettivamente del sole della luna".

La teoria policentrica, testimoniata da Plutarco, affermava che "anziché concepire un universo sferico con un solo punto privilegiato che attira tutti i corpi pesanti si afferma in questo modo una teoria policentrica in cui esistono tanti punti il centro della terra al centro della Luna al centro del Sole". Questa concezione sollevò il problema di "cosa accade a un masso che si trova essere lontano da tutti i centri", spostando l'attenzione verso l'interazione tra mondi diversi. Plutarco si chiese "come mai la luna non cade sulla terra", introducendo l'idea che "il peso è equilibrato dalla velocità della sua rotazione" in un equilibrio tra peso e forza centrifuga. Le riflessioni sulle maree costituirono l'ultimo passo essenziale, poiché "la marea è l'unico fenomeno che costituisce un ponte tra il mondo terreno e il mondo celeste" e mostrava "corrispondenze tra il fenomeno della marea e fenomeni astronomici le fasi della luna ad esempio", preparando il terreno per la teoria della gravitazione universale.

Note sulle fonti

Le testimonianze di Plutarco nel "De Facie" risultano fondamentali per ricostruire questi sviluppi teorici, sebbene le fonti antiche siano "frammentarie quindi non sempre è possibile ricostruire tutti i passi logici".


Argomento 11: Determinismo, caos e predicibilità nei sistemi fisici

Dall'antichità alle teorie moderne: quando piccole cause producono grandi effetti

Il determinismo storico, ripreso recentemente nel "formalismo completamente diverso delle Teorie del caos deterministico", sostiene che "la catena delle cause non può mai interrompersi e non esistono eventi completamente immotivati". L'apparente casualità di eventi come il lancio di un dado si spiega con "la nostra ignoranza dei dettagli dell'evoluzione del dado", concetto ripreso da Laplace che motivava "l'esigenza di introdurre metodi probabilistici" data "la nostra incapacità di descrivere completamente le condizioni iniziali di un sistema". Nei sistemi caotici, sebbene "la conoscenza dello stato iniziale di un sistema mi permette di dedurne perfettamente tutto il futuro", è "impossibile per un uomo conoscere con precisione infinita lo stato iniziale", rendendo cruciale chiedersi se "una conoscenza approssimata delle condizioni attuali di un sistema ci permette di dedurne approssimativamente il suo futuro".

La predicibilità dipende dalla stabilità del sistema: mentre nei sistemi stabili "una piccola modifica delle condizioni iniziali porta ad una piccola modifica dell'evoluzione futura", in quelli caotici come il biliardo o i modelli meteorologici "piccole variazioni nelle condizioni iniziali conducono a evoluzioni completamente diverse". Questo "effetto di amplificazione dell'errore" viene espresso con la frase che "piccole cause possono produrre grandi effetti". Un'analogia antica si trova in Filone di Bisanzio, che osservava come catapulte costruite identicamente avessero gettate diverse perché "piccole variazioni nei dati costruttivi iniziali possono portare a grandi differenze sul risultato finale", anticipando l'idea moderna che "piccole variazioni di dati numerici attraverso una catena di relazioni matematiche possono produrre grandi scostamenti nei dati numerici finali".


Argomento 12: L'evoluzione storica dei metodi analogici e digitali

Dalle origini matematiche alla rivoluzione scientifica del Seicento

Il confronto tra approcci analogici e digitali, definito come "molto antico e risale alle origini stesse della matematica", si sviluppa attraverso una tensione storica tra metodi continui e discreti. La matematica greca inizialmente privilegiava il discreto, con i pitagorici che "Pensavo di poter generare le linee unendo successioni di punti uno dietro l'altro", ma successivamente prevalse l'approccio geometrico analogico basato su "riga e compasso" che "costituivano anche uno strumento di calcoli di analogico". Questo sistema permetteva operazioni come il calcolo della radice quadrata attraverso costruzioni geometriche dove si otteneva "un terzo segmento che aveva per misura rispetto a unità di misura scelta proprio la radice quadrata". Parallelamente, la scienza mesopotamica "continuò a privilegiare metodi discreti oggi diremmo digitali", differenza dovuta ai diversi supporti di scrittura: mentre i greci usavano il papiro che "si presta all'effettuazione di disegni", in Mesopotamia la scrittura cuneiforme su tavolette d'argilla, definita come "vicina alle attuali metodi di memorizzare l'informazione" poiché "ogni Cuneo ha pochissime possibilità tra cui scegliere", favoriva approcci discreti.

La rivoluzione del Seicento determinò un "ribaltamento dei rapporti tra metodi numerici e metodi geometrici" con la geometria cartesiana, dove "il rapporto si inverte" e "il disegno geometrico finisce col diventare più che altro uno schizzo utile per illustrare verità che consistono essenzialmente nell'identità numerica". Questo cambiamento fu favorito dallo sviluppo di "nuove tecniche di calcolo più efficienti" come le "tavole dei logaritmi" che "permise di rendere molto più efficienti calcoli numerici". La transizione verso i metodi digitali moderni è evidenziata dal fatto che "il digitale sta sostituendo quasi tutti i casi anche di strumenti di misura", sebbene solo "30 anni fa era normale effettuare anche calcoli in modo analogico" con strumenti come il "regolo logaritmico" che "permetteva di fare delle operazioni valutando occhio la posizione di un indice che si muoveva con continuità su una scala".


Argomento 13: Tecnologia Meccanica e Fonti Energetiche nell'Antichità Classica

Meccanismi antichi e l'impiego di energia naturale per scopi pratici e dimostrativi.

Il sommario tratta lo sviluppo della tecnologia meccanica nel periodo ellenistico, caratterizzato dall'applicazione di principi scientifici. Vengono descritti meccanismi fondamentali come "l'elica cilindrica", studiata da Apollonio, che "è l'unica curva che può scorrere su se stessa senza mutare forma" e per questo usata come "filettatura di una madre vite". Sono presenti anche "stantuffi o pistoni che scorrono a tenuta in cilindri cavi", "valvole" e "alberi a camme", meccanismi che "permettono di trasformare moto rotatorio in moto lineare alternato o viceversa" e che, sebbene "a lungo attribuiti al medioevo", sono invece "presenti in alcuni dei meccanismi descritti da Erone di Alessandria nel primo secolo dopo Cristo". L'argomento esplora l'uso di diverse fonti di energia naturale. Oltre all'energia animale, impiegata per compiti come "sollevare dell'acqua o macinare del grano" tramite "una serie di ingranaggi", si menzionano "mulini idraulici verticali" e possibili applicazioni eoliche, come un meccanismo di Erone che "funziona grazie ad un'elica per l'azione del vento". Viene accennato anche all'uso dimostrativo del vapore e agli "specchi ustori" che utilizzano "energia solare per accendere il fuoco". Viene discussa la duplice natura di questa tecnologia, tra applicazioni ludiche, come gli "automi" per "spettacoli teatrali automatici", e usi pratici ed economici. Questi ultimi includono macchine per "il sollevamento dell'acqua", essenziale per "l'irrigazione", "l'attività mineraria" e "la navigazione", come "la coclea o vite di Archimede" e "la pompa di Ctesibio". Viene infine sottolineato come "ritrovamenti archeologici recenti" abbiano dimostrato che tali meccanismi, incluso il "mulino idraulico verticale", fossero "oggetti di uso diffuso" e non mere curiosità, segnando l'emergere di una "tecnologia scientifica" strettamente legata alla scienza teorica.


Argomento 14: Misurazione del tempo e applicazioni scientifiche storiche

L'evoluzione degli strumenti di misurazione temporale e le loro applicazioni in astronomia e medicina antica

Il sommario tratta lo sviluppo storico della misurazione del tempo, partendo dall'idea archimedea di "trattare intervalli di tempo esattamente come gli intervalli spaziali". Vengono esaminate le applicazioni astronomiche dove "le misure di tempo si riconducono spesso a misura angolari" e il "procedimento inverso" che utilizzava orologi ad acqua per determinare grandezze celesti. L'analisi si concentra particolarmente sull'innovazione medica di Erofilo di Calcedonia, che "decise di usare degli orologi ad acqua per misurare la durata del battito" cardiaco, riconoscendo come "la durata del battito poteva essere uno strumento diagnostico importante". Viene descritto il metodo di misurazione che richiedeva "misurare molti battiti e poi dividere per il numero dei battiti", rappresentando un "procedimento automatico di media di molte misure". Sono menzionati gli aspetti tecnologici degli orologi ad acqua, che permettevano di essere "continuamente interrotto e poi fatto ripartire", e le connessioni con la teoria musicale nello studio dei ritmi cardiaci. Il testo esplora infine i principi fondamentali della misurazione temporale, basati sull'assunzione che "due fenomeni eguali che vengono con le stesse modalità nelle stesse condizioni abbiano bisogno per verificarsi dello stesso tempo", confrontando gli antichi orologi ad acqua con quelli moderni i cui "fenomeni periodici su cui sono basati non sono più riconoscibili".


Argomento 15: Tecnologia militare antica e sviluppo scientifico

Catapulte, armi pneumatiche e balestre automatiche: connessioni tra matematica, meccanica e declino tecnologico

Il sommario tratta lo sviluppo delle armi da getto nell'antichità, partendo dalle catapulte a torsione come esempio di "connessione tra matematica e tecnologia militare". Vengono descritte le armi pneumatiche di Filone di Bisanzio, che utilizzavano "come mezzo elastico... l'aria comprimendo l'aria posta sotto un pistone", sebbene l'autore antico esprimesse dubbi sulla loro efficacia. La costruzione di tali dispositivi richiedeva elevate capacità tecniche per "assicurare un'aderenza tra il pistone e il cilindro", dimostrando competenze nella molatura e costruzione di pompe. Un'altra innovazione fu la catapulta a ripetizione di ingegneri rodiesi, capace di "mandare molti colpi sempre contro lo stesso bersaglio" attraverso meccanismi automatici, nonostante le critiche di Filone che la considerava "inutile continuare a colpire sempre lo stesso bersaglio". Balestre automatiche basate su principi simili riapparvero nella guerra cino-giapponese del 1894-1895, sollevando interrogativi su possibili tradizioni tecnologiche conservatesi in Asia dopo l'ellenismo.

L'analisi si estende al declino tecnologico, notando come i romani, pur interessati alle tecniche militari, non svilupparono armi da getto migliori, poiché "la capacità di costruire una buona tecnologia militare... era connesso con lo sviluppo scientifico". Il "disinteresse dei romani per gli aspetti più teorici della Scienza" portò a una "decrescita dell'efficienza dell'armamento" nell'alto Medioevo, quando in Europa occidentale si perse "completamente il ricordo dell'arte di costruire catapulte". Le prime armi da fuoco funsero da sostitute di "tecnologia che si era perduta", svolgendo funzioni simili alle catapulte come armi d'assedio. La ricostruzione del 1904 da parte del generale Erlach e del filologo Rehm, basata sui trattati di Filone di Bisanzio, dimostrò l'efficacia insospettata di queste armi, inclusa una catapulta a ripetizione così precisa da "spaccare un proiettile che era stato lanciato precedentemente". Le difficoltà di ricostruzione, specialmente per le "catene di trasmissione analoghe a quelle descritte da Filone", furono risolte usando "catene di biciclette", suggerendo che Filone disponesse di tecnologie simili. Viene infine accennato ai disegni di catene di trasmissione di Leonardo da Vinci, simili a quelle di Filone, collegati a dibattiti sulla pretesa bicicletta leonardesca.


Argomento 16: Origini antiche dei concetti chimici fondamentali

Concetti chimici nell'antichità: mescolanze, composizioni e l'antecedente della molecola

Il testo esamina le radici antiche di concetti chimici moderni, partendo dalle tipologie di mescolanza descritte da Stobeo: "conglomerato", "mixis", "miscela" e "sioncés". Quest'ultima si distingue perché produce "qualità completamente diverse" dalle sostanze originarie, identificabile con le moderne "composizioni chimiche risultato di una reazione chimica". Viene evidenziato come Stobeo colleghi questo processo a prodotti di "industrie di trasformazione della materia" come "essenze o certe medicine sintetiche", con il termine "sioncés" che condivide la radice "cheo" con "chemeia", suggerendo un legame essenziale con la nascita della scienza chimica. Parallelamente, il concetto di "oncos" in Sesto Empirico – descritto come "Costituente ultimo delle diverse sostanze" che "non è indivisibile" ma "composto di più parti" – svolge "esattamente il ruolo che nella scienza moderna è stato svolto dalla molecola". Viene tracciata una continuità linguistica e concettuale: "oncos" viene sistematicamente tradotto in latino come "moles", da cui deriva "molecola", con Robert Boyle che riprende esplicitamente fonti scettiche antiche nel suo "chimico scettico". L'argomento conclude che esisteva un'antica "chimica empirica" con "concetti di molecola, di composto chimico, di conservazione della massa", sviluppatasi parallelamente a industrie che producevano "coloranti, medicinali e essenze" e ai primi "prodotti sintetici ottenuti da minerali", tutti resi possibili dalle conoscenze della "chemeia".


L'argomento 17: La selezione naturale in Aristotele e il suo rapporto con Darwin

Un'analisi del brano aristotelico che anticipa la selezione naturale e la sua ricezione nell'opera di Darwin.

Il sommario inizia con la descrizione di un brano della Fisica di Aristotele che, pur inserito in un'opera che segue il principio teleologico, presenta una spiegazione dell'adattamento degli organi basata sul caso e sulla sopravvivenza: "nulla impedisce alla natura di agire non con un fine per il meglio bensì come piove Zeus non per far crescere il frumento ma per necessità". Il testo prosegue illustrando come le parti degli esseri viventi possano formarsi per necessità, con "i denti incisivi si formino affilati adatti a tagliare quelli molari invece piatti e utili a triturare il cibo", ma che questo non avvenga per un fine, bensì accidentalmente. Viene quindi introdotto il meccanismo della sopravvivenza differenziale, per cui "quegli esseri si sono salvati perché costituiti accidentalmente in modo opportuno" mentre altri si estinguono, un'idea giudicata "molto molto importante in cui l'idea della selezione naturale [è] spiegata con grande chiarezza".

Il sommario prosegue esaminando l'ipotesi che questo brano possa essere un'obiezione inserita da Aristotele stesso o, più probabilmente, da un redattore successivo come Teofrasto, "certamente [...] l'allievo prediletto di Aristotele anche quello più interessato agli aspetti biologici". Viene poi analizzato il rapporto con Darwin, notando che nella terza edizione de L'origine delle specie egli cita il passo aristotelico, ma in una forma che lascia "l'impressione che si tratti più di una citazione erudita che Darwin inserisce per mostrare che lui ha anche una cultura classica", tanto che la maggior parte dei biologi moderni lo considera "cosa poco rilevante". Si osserva infine come il brano spieghi non solo la selezione naturale, ma anche "perché la spiegazione finalistica È possibile proprio per la sopravvivenza di quegli organismi che casualmente sono stati Organizzati come se fossero stati progettati". Viene infine fatto un cenno al contesto del primo ellenismo come periodo di rivoluzione scientifica, menzionando anche i progressi in medicina con Erasistrato e l'uso sistematico dell'anatomia.


Argomento 18: Fondamenti e crisi del metodo scientifico antico

La transizione epistemologica dall'antica salvezza delle apparenze alla ricerca newtoniana di principi assoluti

Il sommario tratta della natura non verificabile dei punti di partenza nelle teorie scientifiche, come evidenziato dalle "generalità ad esempio i punti di partenza della geometria di Euclide non sono verificabili". L'unica certezza riconosciuta dagli scettici antichi sono i fenomeni intesi come apparenze, poiché "Sesto empirico [...] afferma che esiste una sola cosa di cui anche gli scettici non dubitano e di cui nessuno può dubitare e sono i fenomeni". Il metodo scientifico antico richiedeva che le ipotesi "debbono permettere di salvare i fenomeni", dimostrando come da esse si possano dedurre i fenomeni osservati, come nell'eliocentrismo di Aristarco dove "da queste ipotesi [...] aveva verificato che il moto dedotto è proprio quello che si può osservare". Emerge però il problema della sottodeterminazione delle teorie: "se da delle ipotesi è possibile dedurre i fenomeni osservati non è detto che non ci siano altre ipotesi da cui è possibile dedurre gli stessi fenomeni", esemplificato dalla relatività del moto e dai modelli astronomici alternativi di Gemino, dove "con due modelli matematici diversi si riesce ad arrivare allo stesso modo che viene osservato non si può scegliere quale delle due ipotesi fatte sia quella giusta".

La rivoluzione scientifica moderna, particolarmente con Newton, abbandonò questo approccio: "L'Antico metodo scientifico basato sulla costruzione di teorie fondate su ipotesi che potessero salvare le apparenze [...] fu abbandonato all'inizio della rivoluzione scientifica moderna". Newton "vuole partire da principi veri veri in senso assoluto" e "rifiuta le ipotesi", basando invece la scienza su principi assolutamente veri la cui "verità [...] sarebbe trovata Dai fenomeni fenomeni che sono diventati fatti". Questo cambiamento metodologico comportò anche una trasformazione semantica: "il fenomeno fu usato non più nel senso di percezione [...] ma direttamente come i fatti", e "cambia il significato della parola ottica" non più come studio della visione ma "lo studio direttamente dalla luce". La prefazione ai Principia mathematica afferma che "il modo migliore per fare scienza è quella di Newton che rifiuta le ipotesi E non accetta nulla che non sia direttamente provato Dai fatti", ignorando così "la possibilità di avere due teorie diverse che provano gli stessi fatti".