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Il Saggiatore - Lettura - (23m)

//: 2025-10-20 16:34:11 +0200


//: t 1.0

1. Il Saggiatore e le controversie scientifiche: dediche, rivendicazioni e difese di Galileo

Tra tributi accademici e accuse di plagio: la lotta per il riconoscimento delle scoperte celesti

Sommario

Il blocco delinea un contesto di omaggi istituzionali e polemiche personali, incentrato sulla figura di Galileo e sulle resistenze incontrate dalle sue teorie. Si apre con la dedica solenne del Saggiatore a un alto dignitario ecclesiastico, presentato come „quella [Santità] c'ha l'anima di veri ornamenti e splendori ripiena“, a cui si offre l’opera come „segno di quel più vivo ed ardente affetto“ di servizio e devozione. Il testo celebra Galileo come „scopritore non di nuove terre, ma di non più vedute parti del cielo“, evidenziando il valore delle „investigazioni di quegli splendori celesti, che maggior maraviglia sogliono apportare“. La retorica encomiastica lascia però presto spazio a un tono amaro e rivendicativo: Galileo denuncia l’„animosità“ sistematica verso le sue pubblicazioni, dal Nunzio Sidereo („tanti nuovi e meravigliosi discoprimenti nel cielo“) al Discorso sui galleggianti, fino alle Lettere sulle macchie solari, tutte „combattute“, „vilipese“ o „derise“ nonostante le „geometriche dimostrazioni“. Emerge un tema ricorrente: l’usurpazione delle idee, con accuse esplicite verso Simon Mario Guntzehusano, reo di essersi „fatto autore delle cose da me ritrovate“ (i „pianeti Medicei“) e di aver „temerariamente affermato“ priorità inesistenti. La confutazione si basa su „testimoni irrefragabili“, smascherando „fallacie“ tecniche (come l’errata inclinazione dei cerchi delle lune gioviane). Affiorano anche riflessioni sulla verità scientifica („di rado accade che la verità si lasci sopprimere dalla bugia“) e sulla disonestà intellettuale, dove alcuni, „costretti e convinti dalle mie ragioni“, tentano di „spogliarmi di quella gloria ch’era pur mia“. Il blocco chiude con un appello alla protezione istituzionale („mantenere favoriti i nostri studi“) e una minaccia velata di ulteriori rivelazioni („riserbando l’altre [prove] ad altra occasione“).

Note

Frasi di riferimento: 8–27
Citazioni chiave:

//: t 2.1

Argomento 2: La difesa degli scritti e la polemica con Lottario Sarsi

Risolutezza e contraddizioni in una disputa filosofica: tra silenzio forzato e replica necessaria

Il blocco di testo documenta la reazione dell’autore a un attacco pubblico da parte di un avversario, Lottario Sarsi, che gli attribuisce falsamente la paternità di un’opera altrui, il Discorso delle Comete di Mario Guiducci. L’autore, dopo aver dichiarato la propria intenzione di ritirarsi dalle controversie per „vivere quieto senza tante contese“, si vede costretto a rompere il silenzio a causa di un’accusa ingiusta: „non m’è giovato lo starmi senza parlare“, poiché i detrattori „hanno ricorso a far mie l’altrui scritture“. La decisione di replicare nasce dalla necessità di smascherare „la disconvenienza di questo fatto“, pur consapevole che il nome di Sarsi sia probabilmente uno pseudonimo („non mai più sentito nel mondo“). L’autore giustifica la propria risposta come un atto di difesa contro chi, celandosi dietro una „maschera“, agisce con „animo appassionato fuor di ragione“, e rivendica il diritto di trattare l’avversario „come con persona incognita“, sfruttando la libertà concessa dalle „maschere“ stesse, che in „molte città d’Italia“ permettono di „parlare liberamente con ognuno, senza rispetto“.

La polemica si estende alla metodologia adottata da Sarsi, accusato di manipolare i fatti per adattarli alle proprie tesi, come nel caso dell’intitolazione della sua opera, Libra Astronomica e Filosofica: l’autore smonta l’argomento astrologico („la cometa [...] volle misteriosamente accennargli“) dimostrando che il maestro di Sarsi stesso aveva collocato la cometa nello Scorpione, non nella Bilancia. Da qui l’ironia tagliente: „più proporzionatamente [...] l’avrebbe egli potuta intitolare L’astronomico e filosofico scorpione“, animale che „percuote la gente“ senza essere provocato, a differenza dell’autore, che „mai né pur col pensiero“ ha offeso l’avversario. La risposta si configura come un „saggio“ minuzioso delle argomentazioni altrui, condotto con una „bilancia da saggiatori“ capace di „tirare a meno d’un sessantesimo di grano“, per confutare punto per punto le „proposizioni“ di Sarsi. L’autore, pur dichiarando di non voler „levar questa maschera“, si propone di „far più chiara la mia ragione“, affidandosi al giudizio di un destinatario nobile e imparziale, cui spetta „reprimer l’audacia“ di chi „stravolge la mia ragione“ approfittando dell’ignoranza del „vulgo“.


//: t 3.2

Argomento 3: La disputa con il Sarsi e la difesa della propria dottrina

Un confronto aspro tra accuse di malafede, difese della verità e rivendicazioni di lealtà intellettuale.


Sommario

Il blocco delinea una controversia in cui l’autore contesta le affermazioni del Sarsi, accusandolo di distorcere le sue parole e di ignorare deliberatamente i suoi argomenti: „cose le quali io già mai non dissi, né pur pensai [...] gli sieno state riportate, e che d'altre dette da me mille volte non gliene sia pur giunta una sillaba“. Emerge un conflitto sulla legittimità delle critiche mosse al Collegio Romano, dove l’autore nega di aver offeso la sua reputazione, sostenendo invece che „l'opinioni impugnate da noi sono state tutte d'altri prima che del matematico professore del Collegio“. La questione si estende alla logica delle argomentazioni, con l’autore che respinge l’accusa di scarsa competenza dialettica, affermando che „la nota [...] di poco intendente di logica cade sopra Ticone ed altri“, e che il suo scopo era „cavare altrui d'errore e per manifestare il vero“.

Si evidenzia inoltre una tensione tra doveri di cortesia accademica e adesione alla verità: l’autore rifiuta l’idea di „lodare e approvar il Discorso del P. Grassi“ se questo significa avallare „cose conosciute da me per false“, e giustifica la propria risposta pubblica come necessaria per evitare „disprezzo e quasi derision generale“. Il Sarsi viene dipinto come incoerente, capace di „lodare e biasimare, confermare e ributtar, le medesime dottrine“ a seconda di „benevolenza o [...] stizza“, mentre l’autore rivendica la propria integrità intellettuale, sottolineando che „assai più grato mi sarebbe stato che m'avessero levato d'errore e mostratami la verità“. Infine, si accenna a una disputa più ampia sui modelli astronomici, con il Sarsi che critica l’adesione a Ticone Brahe, ma l’autore obietta che „Tycho supererat, quem nobis ignotas inter astrorum vias ducem adscisceremus“, suggerendo che, tra le opzioni disponibili, quella ticonica fosse la meno insostenibile.


Note

Frasi in latino (tradotte)

//: t 4.3

Argomento 4: Lo stile e il metodo tra scherzo e serietà nella disputa sulle comete

Dove la leggerezza argomentativa incontra il rigore scientifico: difese, obiezioni e il confine tra poesia e verità naturale.

Sommario

Il blocco affronta la tensione tra tono faceto e gravità del dibattito sulle comete, con una difesa esplicita dell’uso di “scherzi e soavità poetiche” (214) come strumenti legittimi se non fuorvianti. Si citano esempi concreti — “i natali, la cuna, le abitazioni, i funerali della cometa” (214) — per dimostrare come la forma ludica possa veicolare “verità del concetto” (214) senza tradirne la sostanza, purché il contenuto sia “per sé noto e manifesto” (214). La critica si appunta però su chi, come il signor Mario, respinge “un fioretto poetico” (215) in una “questione massima” (215), dove “la natura non si diletta di poesie” (215): qui si marca il divario tra finzione letteraria — “necessarie le favole e finzioni” (215) — e indagine naturale, che “abborre” (215) ogni invenzione.

Il passaggio a “cose di momento maggiore” (216) segna un cambio di registro: si elencano i “tre argomenti principali” (219) per determinare la posizione delle comete (parallasse, moto, osservazioni al telescopio), contestando la strategia di Galileo che “tenta di privarli di valore” (220). La disputa si focalizza sulla validità delle osservazioni — “sint ne illa […] vera unoque loco consistentia” (221) — e sulla loro rilevanza contro i peripatetici, per i quali “frustra” (224) si escluderebbero le comete dal novero dei fenomeni apparenti. Emergono così due piani: la legittimità dello stile (dove “plures habemus […] quos delectat” (210)) e la solidità dei dati, con un’accusa implicita di elusività (“non erat his opus” (222)) verso chi solleva dubbi metodologici.


//: t 5.4

5. L’infinito apparente: confutazione dell’argomento galileiano sull’ingrandimento telescopico e la visibilità delle stelle

Dall’equivoco logico alla fisica della luce: una critica sistematica alle inferenze su quantità, proporzione e causa nell’osservazione astronomica.

Il blocco espone una disputa serrata sull’interpretazione dell’incrementum — apparente o reale — che il cannocchiale conferirebbe alle stelle prima invisibili, smontando l’argomentazione di Galileo che lo definisce “infinito” («quamplurimæ stellæ [...] per tubum conspiciantur, non insensibile, sed infinitum potius incrementum ab illo accepisse dicendæ erunt»). L’autore contesta la legittimità logica di inferire un “augmentum infinitum” dal semplice passaggio “de non visibili ad visibile”, poiché tale transizione non implica necessariamente un cambiamento quantitativo infinito: «crescere aut augeri non dicitur, quod augmentum omne aliquid semper ante supponat». La critica si articola su quattro piani: 1) l’incoerenza nel trasporre una proporzione finita (l’ingrandimento ottico) in un dominio infinito; 2) l’errore logico di ridurre a una sola causa (l’ingrandimento) un effetto (la visibilità) che può derivare da fattori multipli — «a multis etiam causis pendere possit» —, come l’illuminazione, la rimozione di ostacoli, o la variazione della distanza; 3) la fallacia nella divisione delle proprietà del cannocchiale, che Galileo limita a ingrandimento o illuminazione trascurando meccanismi ottici intermedi; 4) la dimostrazione che il telescopio, oltre ad «obiecta auget», «luminosa omnia magis illuminat», poiché «radios [...] in unum cogendo» intensifica la piramide luminosa che giunge all’occhio. L’autore chiude ribadendo che «tam vere dici stellas tubo illuminari, quam easdem eodem tubo augeri», e smaschera l’accusa di “pessimo logico” rivolta a Galileo come un fraintendimento del contesto relazionale in cui fu formulata l’affermazione sull’infinito.

La seconda parte del blocco (fr. 367–369) riassume la polemica con il Sarsi, che accusa Galileo di aver chiamato “infinito” l’ingrandimento stellare: la replica sottolinea come l’aggettivo fosse usato in opposizione a “nullo”«più tosto chiamare infinito che nullo» —, non come asserzione assoluta, e denuncia nel detrattore la stessa «poca intelligenza di logica» che gli viene rimproverata. Il nucleo della controversia ruota attorno alla distinzione tra “ratio visibilis” (la percezione) e “ratio quanti” (la misura oggettiva), con l’autore che insiste sull’impossibilità di derivare l’une dall’altra senza mediazioni fisiche o matematiche esplicite.


Note

Riferimenti testuali diretti
Temi minori

//: t 6.5

6. La disputa sull’uso del telescopio: tra logica, prospettiva e definizioni

Dall’infinito all’ingrandimento, tra errori attribuiti e difese della terminologia scientifica.


Sommario

Il blocco affronta una controversia sull’uso del telescopio e sulle definizioni di “accrescimento” e “infinito”, in un confronto tra due interlocutori: il signor Mario (Galileo) e il Sarsi (pseudonimo di Orazio Grassi). Il nucleo della disputa verte sulla legittimità di chiamare “accrescimento” il fenomeno per cui oggetti invisibili diventano visibili tramite lo strumento, e se tale effetto possa essere definito “infinito”. Il Sarsi contesta queste scelte terminologiche, accusando l’avversario di violare le leggi logiche: «l’accrescimento suppone prima qualche quantità, e l’accrescersi non è altro che di minore farsi maggiore» (377), e «quando un effetto può derivare da più cause, malamente da quello se n’inferisca una sola» (390). Viene inoltre discussa la natura dell’“infinito” come metafora di «grande o grandissimo» (373), uso che Galileo difende come «un modo di parlare tutto il giorno usitato» (372), citando l’autorità di scrittori e persino della Scrittura: «“Stultorum infinitus est numerus”» (374, «Il numero degli stolti è infinito»).

Un tema minore riguarda la distinzione tra “ingrandimento” (dell’angolo visivo) e “unione dei raggi” come meccanismi del telescopio. Il Sarsi sostiene che siano operazioni separate, mentre Galileo obietta che «si fanno sempre ambedue insieme» (408) e che «non si deve da questo effetto inferire una sola di quelle cause» (398) se non sono separabili. La polemica si estende alla pretesa capacità del telescopio di “illuminare” gli oggetti, tesi che Galileo respinge come «manifesto impossibile» (410), contrapponendola all’«ingrandir la loro specie» (410) come unico effetto reale. Si toccano infine questioni di percezione ottica, come la natura «pura affezzione dell’occhio» (385) delle nubi stellari (Via Lattea), visibili solo perché «i fulgori di che ciascheduna stellina s’inghirlanda» (384) si sommano nel senso umano.

La disputa, pur tecnica, rivela una tensione tra rigore logico-formale (Sarsi) e pragmatismo empirico (Galileo), dove quest’ultimo accusa l’avversario di «sofisma» (411) e di «vanissima chimera» (408) nel fraintendere i principi ottici. Le citazioni latine («Stultorum infinitus est numerus») e i riferimenti alla Scrittura servono a legittimare l’uso linguistico contestato, mentre gli esempi concreti (lenti ustorie, intervalli tra stelle) mirano a smontare le obiezioni logiche con prove sensibili. La chiusa ironizza sulla «pietosa» selezione degli errori da parte del Sarsi, suggerendo che le sue critiche siano «leggerezze» (409) più che fallacie sostanziali.


Note

Termini chiave ricorrenti
Riferimenti impliciti

//: t 7.6

7. L’errore logico del Sarsi: ingrandimento e luminosità nel telescopio tra premesse vere e conclusioni false

L’analisi di un paradosso ottico e la confutazione di una tesi che, pur partendo da osservazioni corrette, giunge a deduzioni infondate sulla relazione tra ingrandimento e luminosità degli oggetti celesti osservati al telescopio.


Sommario

Il blocco espone una critica serrata alla tesi del Sarsi, il quale sostiene che il telescopio „illumina le stelle“ tanto quanto „le ingrandisce“, affermazione definita „falsissima“ nonostante le „proposizioni vere“ da cui trae origine. L’autore riconosce la validità di alcune premesse — „il telescopio ingrandisce gli oggetti col portargli sotto maggior angolo“, „i raggi della piramide luminosa maggiormente uniti la rendono più lucida“ — ma smaschera l’errore nel trascurare „il vetro concavo“, componente chiave che „dilata i raggi“ e „forma il cono inverso“, annullando l’effetto di amplificazione luminosa attribuito alla lente convessa. La confutazione si avvale di esperimenti concreti: „sopra la qual carta, secondo ch’ella più e più si discosta dall’estremità del telescopio, maggiore e maggior cerchio vi viene stampato dal cono de’ raggi, e quanto si fa tal cerchio maggiore, tanto è men luminoso“, dimostrando che „gli oggetti per essa veduti“ appaiono „assai più oscuri“ di quanto percepito „coll’occhio libero“. L’autore paragona il ragionamento del Sarsi a quello di un „mercante che leggesse solamente le facce dell’avere“, ignorando „le facce del dare“, e sottolinea come la luce „ingagliardita“ non renda l’oggetto „più luminoso“ ma „offenda la vista“ e „renda il mezo più luminoso“, effetto che „fa apparir gli oggetti più oscuri“. Emergono temi minori: l’accusa di „paradosso“ mosso al Sarsi per „mostrar la vivezza del suo ingegno“, la menzione della „Luna“ e delle „stelle fisse“ come casi esemplari, e il riferimento polemico alla „lunga esperienza“ e alle „ragioni ottiche“ che contraddicono la tesi avversaria. La chiusura allude a una „conclusione“ successiva, dove il Sarsi persiste nel negare „ch’ei [il telescopio] l’ingrandisce punto“, preannunciando un ulteriore scontro dialettico.


//: t 8.7

8. L’equivoco delle distanze e l’inganno del telescopio: confutazione delle argomentazioni del Sarsi sull’ingrandimento degli oggetti celesti

Tra geometria e sofisma: come la manipolazione dei concetti di vicinanza, strumento e angolo visuale serve a sostenere tesi insostenibili.

Il blocco espone una critica serrata alle argomentazioni del Sarsi — e, per suo tramite, del Grassi — sulla presunta correlazione tra distanza degli oggetti, lunghezza del telescopio e loro ingrandimento apparente. L’autore smaschera l’uso strumentale di „divisioni ambigue“ („Degli oggetti visibili altri son vicini, altri lontani, ed altri posti in mediocre distanza“) per eludere definizioni precise, necessarie a evitare „equivochi“ che „prestigiano le persone semplici“. Il nucleo della confutazione verte su tre punti: 1) l’arbitrarietà nel definire „distanza mediocre“, usata per adattare la tesi a oggetti celesti (Luna, stelle) o terrestri a piacimento („Le stelle fisse [...] ricrescon pochissimo; ma la Luna, assai, perché è vicina“; „Gli oggetti di camera [...] crescono assaissimo; ma la Luna, poco, perché è lontanissima“); 2) lo slittamento logico dal „per se“ al „per accidens“, dove la vicinanza dell’oggetto — „causa d’allungare il telescopio“ per „rimuover la confusione“— viene spacciata per „causa del maggior ricrescimento“, quando in realtà quest’ultimo „depende solo dall’allungamento, e non dall’avvicinamento“; 3) la smentita matematica dell’idea che „l’angolo visuale“ si riduca „con minor proporzione“ alle grandi distanze, dimostrando invece che „la diminuzione dell’angolo si va facendo sempre con maggior proporzione“.

L’analisi si estende alla metafora dello „strumento“ (telescopio, voce, canna d’organo), dove il Sarsi sostiene che variazioni di lunghezza non ne alterino l’identità („non idem semper erit instrumentum“). L’autore ribatte che tale variazione è „essenzialissima“: come „le canne dell’organo“ producono „tuoni diversi“ a seconda della lunghezza, così il telescopio allungato „è un altro strumento“, e „il ricrescimento [...] fuor della primaria intenzione“ (chiarificare, non ingrandire). La polemica culmina nell’accusa di „ridursi al *saltem**“ — un „debolissimo attacco“ che, „come la serpe lacerata“, agita „l’estremità della coda“ per simulare vigore: il Sarsi, pur ammettendo che le stelle fisse „ricrescano novecento novantanove“ volte contro le „mille“ della Luna, „aveva bisogno“ che non crescessero „né anco una meza volta“ per salvare la tesi dell’„impercettibilità“. La confutazione si chiude con il rovesciamento dell’esempio sarsiano sull’„angolo visuale“: non solo „la diminuzione [...] vien sempre fatta in maggior proporzione“, ma „l’apparenti grandezze“ vanno misurate „dalle corde degli archi“, non dagli angoli, „errore“ che falsifica la percezione delle distanze.


//: t 9.8

9. La disputa sul telescopio e l’ingrandimento apparente: equivoci, illusioni ottiche e logica delle distanze celesti

Frammento di una controversia scientifica in cui si smonta l’argomentazione avversaria sull’uso del telescopio, sull’ingrandimento differenziato degli oggetti celesti e sulle implicazioni logiche della loro lontananza, con particolare riferimento a stelle, Luna e comete.


Sommario

Il blocco ruota attorno a una confutazione serrata di tesi astronomiche, incentrata su tre nuclei: l’equivoco strumentale, l’illusione ottica e l’incoerenza logica. L’autore contesta innanzitutto la definizione di “strumento medesimo diversamente usurpato” applicata al telescopio, sostenendo che «lo strumento sia diverso, e l’usurpamento [...] la medesima» (563), poiché «l’uso [...] è sempre il medesimo» (565) mentre «l’intervallo da vetro a vetro» — elemento essenziale — muta. L’errore dell’avversario (Sarsi) viene esplicitato come «manifest[o]» (566), ma la critica si estende alla sua successiva ritirata: inizialmente si affermava che «niuna cosa esser più vera del ricrescer gli oggetti [...] tanto più quanto più son vicini» (573), salvo poi ammettere che «la diversità delle lontananze [...] non sia più la vera causa» (574) e invocare fattori estranei, come «l’allungamento e scorciamento del telescopio» (574) — soluzione mai menzionata prima.

Il secondo tema riguarda «l’illusione dell’occhio» (575): le stelle, «vedute liberamente» (575), appaiono avvolte da «un grandissimo irraggiamento non reale» (575), mentre il telescopio ne mostra «il nudo corpo» (575), ingrandito ma percepito come più piccolo «in relazion delle medesime stelle vedute liberamente» (575). L’autore ironizza sulla pretesa di «non ricercare la causa [...] ma solo l’aspetto istesso» (575), smascherando una contraddizione: se «l’insensibil ricrescimento» (581) delle stelle non dipendesse dalla lontananza, non si potrebbe dedurre «che la cometa è lontanissima» (581) solo perché «ricresce insensibilmente» (581), così come non si potrebbe inferire che «scintilla» (581) o «risplende di propria luce» (581). La logica dell’avversario viene bollata come «senza dramma di logica» (581), poiché «niuna di queste conclusioni si può concludere» (581) senza aver prima stabilito un «nesso necessarissimo» (581) tra lontananza e ingrandimento apparente.

Infine, si passa a una disamina delle proprietà ottiche dei corpi celesti: le «stelle fisse» (586) sono distinte dai «planeti» (586) per «quell’inane [...] coronamentum» (586) di luce non propria, mentre «Luna, Giove e Saturno» (586) ne sono privi. La cometa, «temporario pianeta» (587) che «lumen [...] a Sole acceptum referat» («riceve la luce dal Sole» – 587), viene paragonata a Mercurio per il «minore ingrandimento» (587) osservato, da cui si deduce una «maggior vicinanza al Sole» (587). L’autore chiude accusando l’avversario di «errori in logica» (582) attribuiti ingiustamente al suo maestro, quando in realtà «son vostri, e non suoi» (582).


Note

(567), (583): Numerazione originale dei paragrafi nel testo fonte, qui mantenuta per fedeltà. (568–571): Passaggi in latino tradotti sistematicamente; es. «At dicet: verissima hæc quidem esse»«Ma dirà: queste cose sono senza dubbio verissime» (568). (575): «Deo placet» («se piace a Dio») tradotto implicitamente nel contesto.


//: t 10.9

10. L’illusione ottica e la natura riflessa dei fenomeni celesti: tra vapori, specchi e simulacri solari

Fenomeni apparenti e meccanismi di riflessione nella percezione dei corpi luminosi.

Il testo analizza la natura illusoria di fenomeni ottici come aloni, parelii e riflessi solari su superfici irregolari, dimostrando come la percezione della luminosità dipenda dalla posizione dell’osservatore, dalla conformazione della materia riflettente e dalla distanza. Si descrivono esperimenti con specchi, superfici acquose increspate e nuvole per spiegare come un’“immagine del Sole” possa apparire mobile o fissa, amplificata o ridotta, a seconda della “superficie tersa” o “sinuosa” che la riflette (“in alcune [superfici] ci si mostra il disco solare terminato ed eguale al vero, nelle convesse pur lisce ci apparisce minore, e nelle concave talor minore, talor maggiore”). La riflessione non richiede necessariamente umidità o liscia superficie, come provano esempi tratti da “piume di uccelli”, “nuvolette crepuscolari asciutte” o “vapori aridissimi” che generano “un sol campo sparso di luce continuata”.

Si confuta l’idea che la densità della materia determini la visibilità dei fenomeni celesti, citando “una nuvola illuminata come una montagna di marmi” pur essendo “più rara e perspicua”. La cometa, in particolare, viene paragonata a un “simulacro intero” del Sole, la cui forma regolare esclude che sia un frammento di riflessione parziale. Attraverso analogie (“una boccia di vetro unta”, “una riga di legno obliqua”), si dimostra come superfici irregolari possano produrre “una striscia lucida” simile a una coda cometaria, senza richiedere “una gran caraffa in cielo”. La discussione si estende alle “refrazzioni nelle essalazioni” e alla “variabilità dello splendore” in base all’angolo di osservazione, concludendo che “la cometa non può esser prodotta da vapori umidi” solo perché altri fenomeni ottici lo sono, ma che “in natura sia ancora una materia proporzionata a renderci un altro simulacro diverso”.


Note

Riflessioni su superfici non lisce

„Ma se la superficie sarà non eguale, ma sinuosa e piena d’eminenze e cavità [...] allora l’istessa immagine del Sole da mille e mille parti, ed in mille e mille pezzi divisa, verrà all’occhio nostro, i quali per grande ispazio s’allargheranno, stampando in essa superficie un ampio aggregato di moltissime piazzette lucide.“ (720)

Mobilità apparente del simulacro

„Questo gran simulacro è esso ancora mobile al movimento dell’occhio, pur che oltre a i suoi termini si vada continuando la superficie dove si fanno le reflessioni.“ (721)

Confutazione della necessità di umidità

„Non si veggono le medesime illusioni di colori diversi nelle piume di molti uccelli, mentre il Sole in varie maniere le ferisce?“ (736)

Esempio pratico della boccia unta

„Prenda V. S. Illustrissima una boccia di vetro ben netta [...] vada, quanto più sottilmente può, ungendo in quella parte dove si vede l’immagine del lume [...] subito vederà derivare un raggio dritto ad imitazion della chioma della cometa.“ (745)


//: t 11.10

11. Accuse di dissimulazione e distorsione argomentativa: la disputa sul moto delle comete e l’integrità intellettuale

La polemica tra Galileo e Orazio Grassi (sotto lo pseudonimo di Lottario Sarsi) sul moto delle comete si fa asprissima: al centro non solo questioni astronomiche, ma l’onestà dialettica e la manipolazione delle parole altrui. Si denuncia un metodo che «delle 10 volte le 9 fingete di non intendere quel che ha scritto il signor Mario» (885), trasformando affermazioni dubitative in certezze mal interpretate — come l’equivoco tra «muoversi verso il vertice» (ipotesi geometrica) e «arrivare al vertice» (conclusione fisica impossibile, attribuita falsamente all’avversario). Emergono due temi minori: la simulazione come strategia retoricaben altrettanto è piena di simulazioni la vostra, signor Lottario», 885) e la fragilità delle ipotesi scientifiche quando deformate da «qualch’altro moto» (902) inventato ad hoc per confutare tesi mai sostenute. La disputa scivola così dalla fisica alla psicologia dell’inganno: «verrà anco a stimare che [...] la pietra in cielo» (996) arrivi davvero, se si prende alla lettera ogni metafora scientifica.

Il sommario non può ignorare la doppia asimmetria che strutturalmente vizia il confronto: da un lato, la «profession mia [...] di liberamente confessare» (883) l’ignoranza come premessa alla ricerca; dall’altro, l’accusa di «scrivere che noi abbiamo sommamente voluto, ma non potuto dissimulare» (886) ciò che invece si è esplicitato senza riserve. La contraddizione logica diventa arma: «uno ingenuamente porti [...] una proposizione, e [...] voi poi diciate [che] abbia desiderato di dissimularla» (890). Sul piano tecnico, si contesta l’arbitrarietà delle correzioni testuali — «mutare “qualche altra cagione” in “qualch’altro moto”» (997) — che stravolge il senso per dragare il dibattito verso il moto terrestre, tema estraneo alla questione cometaria. La chiusa ironizza sulla presunta «incapacità di indovinare» (882, 998) di chi, tuttavia, «assai frequentemente [...] penetra gl’interni sensi altrui» (998), smascherando l’ipocrisia di chi accusa altri di «gran semplicità» (991) mentre pratica «finzione o dissimulazione» (883).


//: t 12.11

12. L’impossibilità geometrica del moto apparente della cometa e la critica alla dimostrazione del Sarsi

Tra parallele, vertici inraggiungibili e proporzioni errate: una disputa su traiettorie, osservatori e calcoli trigonometrici

Il blocco analizza l’incapacità del moto apparente di una cometa di raggiungere un punto verticale rispetto all’osservatore, dimostrando come una linea parallela alla direzione visuale (“linea AR ipsi BO parallela”) escluda tale possibilità: “nunquam radius per quem cometa videtur, poterit ad R pervenire”. La critica si estende alla dimostrazione del Sarsi, accusato di fraintendere la geometria delle parallele e di costruire argomenti su “fondamenti non più profondi della sola intelligenza della diffinizione delle linee parallele”, oltre a ignorare che “in astronomia [...] si tratterebbe poco meno che dell'impossibile a voler mantenere nelle figure le proporzioni” reali. Si sottolinea come il moto perpendicolare alla Terra non giunga “mai al vertice”, tranne nel caso specifico in cui “si parte dall’istesso luogo del riguardante”, e si confuta l’idea che la velocità apparente della cometa decresca secondo proporzioni geometriche fisse, evidenziando come “primis diebus adeo exiguum ipsius decrementum fuisse, ut non facile animadverteretur”. La discussione include calcoli trigonometrici per determinare l’angolo massimo di spostamento apparente (“gradus 1, minuta 31”), ribadendo che “nunquam absolvet motum gradum 1, minuta 31”, e critica la pretesa del Sarsi di applicare regole proporzionali universali, trascurando che “in gran lontananza la disugualità [...] resterà insensibile”. Emergono temi minori come l’inadeguatezza delle rappresentazioni grafiche in astronomia e la variabilità delle percezioni a seconda della posizione dell’osservatore.


Note

Frasi in latino tradotte:


//: t 13.12

13. L’errore logico e geometrico nel dibattito sul moto apparente della cometa

Quando le ipotesi arbitrarie sostituiscono le dimostrazioni e le figure tradiscono le proporzioni reali.

Sommario

Il blocco analizza la confutazione delle tesi sul moto retto e uniforme della cometa, attribuito al "signor Mario", attraverso una critica serrata alle argomentazioni del Sarsi. Quest’ultimo, basandosi su „figure“ in cui „gli archi GF, FI, IL [...] decrescono grandemente“ e su „misurar colle seste le sue figure“, nega la validità del modello, trascurando che „cotali decrementi possano apparir meno e meno disuguali, secondo che l'altezza del mobile sarà posta maggiore“. Il nucleo della contestazione verte sull’arbitrarietà delle premesse: il Sarsi „suppone la cometa [...] lontana dalla superficie della Terra 32 semidiametri terrestri“ e „il riguardante [...] 60 gradi lontano“, per dedurne un „moto apparente“ massimo di „un grado e mezzo“, in contrasto con l’osservazione di „molte e molte decine di gradi“. La fallacia logica emerge quando si evidenzia che „a questo moto retto ne possono seguir mutazioni piccole, mediocri ed anco grandissime“, a seconda di „altezza“ e „lontananza“, parametri „accomodati al suo bisogno“ ma non dimostrati. Il passaggio chiave rivela come „il signor Mario“ abbia già „scritto che un semplice moto retto non può bastare“, introducendo „qualch’altra cagione della sua deviazione“ — elemento omesso dal Sarsi, che „snerva del tutto ogni sua illazione“.

La seconda parte estende la critica all’uso distorto delle ipotesi, paragonando il metodo del Sarsi a quello del suo maestro: entrambi „senza licenza degli avversari“ pongono „la cometa nella più sublime parte della sfera elementare“ per calcolarne una „smisurata mole“ (es. „cinquecento milioni di miglia cubiche“), ignorando che gli avversari potrebbero collocarla „lontana dalla terra 50 o 60 miglia“. La conclusione smaschera l’incoerenza: „se l’avversario dirà ch’ella non era tanto lontana [...] che farete voi del vostro sillogismo?“. L’errore sta nel „fingervele“ distanze e „elegger delle più pregiudiciali“, invece di „provare, tali essere state in fatto“. Il testo chiude con l’ironia di un „oppugnatore“ costretto a „istringersi nelle spalle e tacere“, di fronte all’evidenza che „la vittoria“ spetti „nel più loquace“, non nel più rigoroso. Tematiche minori includono la satira sulla „semplicità“ di chi „misura le dipinture“ e la denuncia della „fallacia“ nel manipolare dati per „trafiggerci colle [proprie] armi“.


//: t 14.13

14. La disputa sulla natura del concavo lunare: liscia uniformità o asprezza necessaria?

Tra argomenti *ad hominem, petizioni di principio e l’illusione di prove risolutive: un confronto serrato su refrazioni, moto celeste e la presunta solidarietà tra cielo e elementi.*

Il blocco ruota attorno a una contesa dialettica sulla morfologia del “concavo lunare”, dove la tesi della “superficie perfettamente sferica e liscia” — avanzata non per convinzione propria ma come “disputa *ad hominem contro Aristotile”* — si scontra con l’ipotesi di un “concavo sinuoso ed aspro”. La posta in gioco non è meramente descrittiva: dalla natura della superficie lunare dipende la “connessione dei corpi mobili” e il “ratto degli elementi superiori” da parte del moto celeste, come enuncia la conclusione contestata: «Aër et exhalatio ad motum cæli moveri non possunt». L’argomentazione si regge su due pilastri opposti: da un lato, l’“uniformità delle refrazioni” delle specie visibili delle stelle, che escluderebbe qualsiasi “infinità di stravaganze” se il concavo fosse irregolare (“tal superficie concava esser pulita e tersa più di qualsivoglia specchio”); dall’altro, la “petizione di principio” dell’avversario, che assume come provato ciò che è in discussione (“che gli elementi superiori si muovano”).

Emergono temi minori ma ricorrenti: l’accusa di incoerenza logica (“pensieri e discorsi appunto fanciulleschi”), la derisione delle prove avversarie (“fantasie fondate appunto in aria”), e il richiamo all’autorità (Aristotile, il “gran Poeta”). La disputa si estende alla natura stessa della Luna, descritta altrove come “non aspera modo, sed […] Alpes suas, Olympum, Caucasum suum” — una contraddizione che l’interlocutore sfrutta per smontare la tesi avversaria. Le “quattro conclusioni” (due per parte) si riducono a un circolo vizioso: l’asprezza del concavo giustificherebbe il moto degli elementi, ma la prova di tale asprezza presuppone proprio quel moto che si vuole dimostrare. La frivolezza delle argomentazioni viene sottolineata con sarcasmo: «per connetterle [le cose inferiori colle superiori] basta il semplice toccamento», e «tardi ci riscalderemmo se avessimo aspettare l’espulsione del fuoco verso la Terra».


Note

Struttura argomentativa
Citazioni chiave

//: t 15.14

15. L’aderenza dei corpi e il moto relativo: confutazione delle teorie sul rapimento dell’aria e dell’acqua

Dall’attrazione tra superfici solide e liquide alla critica dell’ipotesi di una compressione perpetua nel concavo lunare: osservazioni su resistenza, scorrimento e falsificazione sperimentale.

Il blocco analizza la natura dell’aderenza tra corpi solidi e liquidi (o gassosi), smontando l’idea che una mera compressione o un contatto superficiale possano spiegare il rapimento di un corpo da parte di un altro in movimento. L’autore contesta la tesi secondo cui l’aria o le esalazioni, rarefacendosi nel concavo lunare, genererebbero una pressione tale da trascinare con sé la Luna: „dum enim rarefiunt, prioris loci angustiis contemptis, ampliori extenduntur spatio, atque ambientium corporum [...] partes omnes, si qua obstent rarefactioni, quantum in ipsis est, premunt” (1127). L’aderenza viene distinta in due forme: una „grandissima” che resiste alla separazione („la superficie [...] dell’acqua non si staccherà da quella d’una falda di rame [...] se non con un’immensa violenza”, 1130), e una debole che non impedisce lo scorrimento reciproco („minima è la resistenza che si sente nel muoversi l’una superficie sopra l’altra”, 1132). Esempi pratici — come la nave che perde il „velo d’acqua” circostante o i marmi che sdrucciolano se inclinati „un sol capello” (1131) — dimostrano che il moto relativo annulla l’ipotesi di un trascinamento forzato.

La seconda parte confuta l’argomento avversario con un esperimento: un recipiente rotante contenente aria o acqua non trascinerebbe il fluido al suo interno, come sostenuto da „Galilæi sententia” (1142). L’autore smaschera la fallacia osservando che „si ulterius movere pergat, tunc enimvero intelliget, moveatur ne aqua ad catini motum, an vero resistat” (1148), e ironizza sulla „rarefazzione eterna” (1140) proposta dal Sarsi, definendola „superflua” e logicamente insostenibile („niuna ragione mi può ritenere ch’io non dica [...] che alcune sostanze materiali si vadano rarefacendo e dilatando in perpetuo”, 1139). Tematiche minori includono la critica alla metodologia sperimentale („parcat mihi vera narranti Galilæus”, 1147) e la distinzione tra connessione interna dei solidi e comportamento dei fluidi („le cui parti non ànno tal connessione insieme”, 1135).


Note
Testo estratto da una disputa scientifica seicentesca. Le frasi in latino (1126–1127, 1142–1146) sono tradotte in italiano nel sommario. I riferimenti a „Sarsi” e „Galileo” (o „Galilæus”) sono conservati come nel testo originale. L’esempio della „falda di rame” (1130) e quello della „nave bagnata con vino o con inchiostro” (1132) illustrano rispettivamente l’aderenza statica e dinamica. La sezione finale (1142–1148) introduce un controesperimento centrale per la confutazione.

//: t 16.15

16. Dinamica dei corpi in rotazione e resistenza dell’aria: esperimenti con sfere, catini e liquidi

Indagine sperimentale su come la forma, la velocità e il mezzo influenzino il trascinamento dell’aria e dei fluidi in sistemi rotanti, con confutazioni di teorie avversarie e osservazioni sulla coerenza dei fenomeni fisici.

Il blocco descrive una serie di esperimenti volti a dimostrare come un corpo sferico o un recipiente in rotazione trascinino l’aria circostante, con risultati che variano in base a dimensioni, velocità e configurazione del sistema. Si parte dall’osservazione che «se una sfera viene fatta ruotare rapidamente, un foglio sospeso vicino viene spostato dalla stessa parte»dum enim sphæra in unam rotatur partem, in eamdem charta F ab aëre commoto fertur») per arrivare a confronti tra il comportamento dell’aria in un catino e in una cavità lunare, dove «sempre ciò che muove è maggiore di ciò che è mosso»semper maius sit id quod movet quam quod movetur»). Gli esperimenti includono l’uso di una lamina trasparente per isolare l’aria all’interno del catino, rivelando che «quando il coperchio viene applicato, la bilancia sospesa segue il moto del vaso con velocità uguale»tunc enimvero ad vasis motum ferri citius visa est libra F»), confermando che la superficie interna del sistema (contenente) prevale sulla resistenza del fluido (contenuto).

Si passa poi a una critica esplicita alle teorie di Galileo, secondo cui «l’aria non aderirebbe ai corpi lisci»quæ constanter adeo pernegavit Galilæus»), e a una difesa del metodo sperimentale attraverso la riproduzione dei fenomeni in condizioni controllate, come l’uso di una sfera di vetro forata o di un vaso d’acqua con una palla galleggiante. Emergono temi minori: la stagione estiva come condizione ottimale per gli esperimenti («æstivo nos tempore […] calidior, ita siccior aër existit»), la polemica con Sarsi sulla corretta interpretazione dei fenomeni osservati, e la distinzione tra moto apparente e moto reale, con riferimento al «terzo moto» copernicano della Terra. La sezione si chiude con una rivendicazione dell’autonomia nella pubblicazione delle proprie idee e con una precisazione sul «non-moto» come quiete relativa, dove «la palla, rispetto alle mura esterne, non gira né muta inclinazione»la medesima palla paragonata colle mura della stanza […] non gira altrimenti né muta inclinazione»).


Note

Riferimenti testuali
Temi secondari

//: t 17.16

Argomento 17: Sull’origine del calore e dell’incendio: confutazione delle teorie tradizionali e osservazioni empiriche

Tra attrito, essalazioni e fenomeni naturali: dubbi sulla generazione del fuoco e critiche alle spiegazioni correnti

Il blocco esamina le teorie sull’origine del calore e dell’incendio, contestando le spiegazioni basate sull’attrito e sulle proprietà intrinseche dei materiali. Si osserva che „più si scaldano quei corpi che son più caldi o più disposti allo scaldarsi, e meno quelli che son più freddi“ (1269), ma tale affermazione viene giudicata „troppo manifesta e notoria“ per essere utile. Vengono messi in dubbio i meccanismi proposti per l’accensione delle essalazioni nell’aria, soprattutto l’ipotesi che „per l’attrizione cagionata per alcun movimento“ (1271) si generi il fuoco, dato che „senza l’arrotamento de’ corpi solidi [...] non si suscita l’incendio“ (1273) e che „niuna commozione si scorge in aria o nelle nuvole“ durante i fulmini (1274). Si citano fenomeni alternativi, come „la reflessione de’ raggi solari in uno specchio concavo“ o „l’eccessivo caldo“ che infiamma „le paglie [...] senza alcuna commozione“ (1272), per sostenere che esistono „altri modi“ di generare il fuoco oltre all’attrito e al contatto con fiamme preesistenti.

Si critica inoltre l’incoerenza delle teorie tradizionali, che attribuiscono „il gran romor de’ tuoni allo stracciamento delle nuvole“ (1274) pur non osservando „pure un minimo movimento“ (1274) durante i lampi, e che ammettono la percussione solo per „corpi duri“ (1275) ma poi invocano urti tra „nebbia e [...] nuvole“ per spiegare i tuoni. La „filosofia trattabile e benigna“ (1276) viene accusata di adattarsi „alle nostre voglie“ (1276) senza fondamenti solidi. Infine, si passa a esaminare esempi classici, come „la freccia tirata coll’arco“ (1278) e „le palle di piombo“ (1279) che si infiammerebbero in volo, citando autori come Ovidio („volat illud et incandescit eundo“, „vola e s’infiamma nel suo corso“ – 1283) e Lucano per avvalorare o confutare tali resoconti.


//: t 18.17

18. L’autorità dei testi e l’evidenza dell’esperienza: confutazione delle teorie aristoteliche sul calore da attrito

Quando la tradizione scritta si scontra con la prova dei fatti: tra frecce infuocate, poeti e filosofi

Il blocco affronta la contrapposizione tra la fiducia nelle “attestazioni d’uomini” — siano essi filosofi come Aristotele, poeti come Ariosto o storici come Suidas — e la “forza dell’umane autorità sopra gli effetti della natura, sorda ed inessorabile a i nostri vani desiderii”. L’autore smonta l’argomento d’autorità con un ragionamento per assurdo: anche se “molti abbiano scritto e creduto tal cosa”, ciò non ne prova la verità, poiché “non si farà che quei che l’ànno scritto e creduto non l’abbian creduto e scritto”. L’esperienza diretta — come il test con “arcieri e scagliatori” o “un robustissimo arco d’acciaio”— diventa il criterio decisivo: se le frecce non si infuocano “neppur le penne rimangono abbronzate”, ogni teoria basata su “attrizzioni d’arie ed essalazioni” cade, rivelandosi “chimere”.

Emergono temi minori: la distorsione poetica (“scritto iperbolicamente”), dove Ariosto e Turpino sono citati come esempi di “verace” narrazione solo perché “ognun sa quanto sia veridico”; la fisica dell’attrito, dove si obietta che “l’aria, ch’è quella che s’ha poi ad accendere, […] non si assottiglierà mai più che prima”; la contraddizione interna nelle argomentazioni avversarie, che invocano ora la “rarefazzione” ora la “condensazione” dell’aria a seconda della convenienza. La conclusione è netta: “poco aiuto e sollevamento” viene da “gragnuola, gocciole d’acqua” o “frombole”, quando il nocciolo è “liquefare e struggere per via di calore”, non “consumare per via di percosse”.


Note

Riferimenti testuali

//: t 19.18

19. La disputa sull’attrizione e l’accensione: tra cause naturali e argomenti di autorità

Quando il fuoco non nasce dallo sfregamento, ma da condizioni misteriose: una confutazione delle teorie aristoteliche su comete, fulmini e fenomeni celesti.

Il blocco affronta la critica alle teorie che attribuiscono l’accensione di fenomeni naturali — come „fiamme de' cimiteri", „comete e baleni", „stelle discorrenti" — all’attrizione di corpi solidi, rigettando l’idea che aria, venti o „esalazioni" possano generare fuoco per semplice sfregamento. Si obietta che „l’aria, così sottile e di parti tutte aderenti senza separazione", non è „materia né tritabile né combustibile", e che gli incendi avverrebbero „nelle maggiori tranquillità d’aria" anziché in presenza di moto. Emerge una polemica contro l’uso di „testimonii de' poeti e de' filosofi" come prove, quando „mille e mille esperienze" non confermano le loro affermazioni, ridotte a „miracoli" troppo rari per essere verificabili. La discussione si estende alla presunta „liquefazzione del piombo" e alla „cottura delle uova" in condizioni atmosferiche eccezionali, smascherando l’argomento del „si quid aliud" („qualche altra cosa che concorra allo stesso effetto") come una „franchigia troppo sicura" per eludere confutazioni empiriche.

Si delinea inoltre una distinzione tra fuochi „sciolti e rari", che „conflagrano [...] con fulgore claro e largo ma caduco", e materie „viscide e glutinose", capaci di ardere „a lungo" come „fiamme notturne". La conclusione ribadisce che, pur ammettendo teoricamente l’accensione per attrizione, „in uno ordinario" i fenomeni celesti non seguono tale meccanismo, e le eccezioni — „una volta in mill’anni" — restano „più tosto da credersi all’altrui relazione che da cercarsi per prova". La disputa si chiude con il rifiuto delle „attestazioni false" e la richiesta di „cause naturali" non riducibili a „caso" o „miracolo".


Note

(1386) „Sed obiicit præterea: Quamvis admittatur, ex motu accendi exhalationes aliquando posse, nescire tamen se intelligere, qui fiat ut statim atque ignem conceperint, non consumantur"„Ma obietta inoltre: sebbene si ammetta che talvolta le esalazioni possano accendersi per il moto, non si comprende però come, non appena abbiano preso fuoco, non si consumino subito". (1391) „satis [...] apparet, aërem succendi posse, si ea præsertim adsint quæ calori ex attritu excitando plurimum conferunt"„appaiono sufficienti prove che l’aria possa accendersi, se soprattutto siano presenti quelle condizioni che maggiormente favoriscono il calore generato dall’attrizione".


//: t 20.19

20. Sulla natura soggettiva delle qualità sensibili e la riduzione dei fenomeni a moti, figure e contatti

La percezione come prodotto dell’incontro tra corpi esterni e sensibilità animale, dove sapori, odori, suoni e calore esistono solo nell’esperienza soggettiva.


Il testo argomenta che le qualità attribuite ai corpi naturali — „sapori, odori, colori“ (1405) — non sono proprietà intrinseche della materia, ma effetti generati dall’interazione tra „minimi corpicelli“ in movimento e gli organi di senso. La „titillazione“ (1403) provocata da una penna sulla pelle, „tutto di noi, e non della penna“ (1404), diventa paradigma per spiegare come il tatto, i sapori („arrecano i sapori, soavi o ingrati“ 1407), gli odori („ferire in alcune mammillule che sono lo strumento dell’odorato“ 1407) e i suoni („un frequente tremor dell’aria“ 1409) dipendano da „grandezze, figure, moltitudini e movimenti“ (1411) di particelle che „penetrano“ (1414) il corpo sensitivo. Il calore, in particolare, è descritto come „toccamento“ (1414) di „minimi ignei“ in moto, la cui „penetrazione“ (1416) genera sensazioni gradevoli o dolorose a seconda della velocità e quantità; „rimosso il corpo animato e sensitivo, il calore non resti altro che un semplice vocabolo“ (1415).

La luce, accennata come „senso eminentissimo“ (1412) e legata a una „proporzione d’eccellenza“ rispetto agli altri sensi, viene solo sfiorata e „posta in silenzio“ (1413) per la sua complessità, mentre il fuoco è analizzato come „moltitudine di corpicelli minimi“ (1414) la cui azione si riduce a „movimento, penetrazione e dissoluzione“ (1418) dei corpi. Il passaggio dalle particelle ignee alla luce („arrivando all’ultima risoluzione in atomi indivisibili, si crea la luce“ 1421) introduce una cesura concettuale: la luce, „di moto instantaneo“ (1421), sfugge alla spiegazione meccanica riservata agli altri fenomeni. Il testo si chiude con un riferimento polemico alle tesi galileiane sulla „luminosità dei corpi“ (1424-1429), dove si contesta la possibilità che „l’aria pura“ (1426) possa illuminarsi, ammettendo invece che solo „aere impuro“ (1428) — carico di vapori — rifletta o termini la luce.


Note

(1424-1429) Le frasi in latino, tratte da una disputa su Galileo, sono tradotte come segue:


//: t 21.20

21. L’illuminazione dell’aria e il dibattito sull’ingrandimento apparente dei corpi celesti

L’aria come mezzo riflettente e la controversia sull’origine dei fenomeni luminosi attornianti astri e fiamme.


Il testo affronta la questione se l’aria impura, carica di vapori, possa illuminarsi per riflessione della luce di corpi celesti o fiamme, confutando parzialmente le tesi di Galileo. Si sostiene che «aër impurum ac mixtum illuminari posse» (1434) e che «aër etiam illuminari, atque ex hoc fieri posse ut sidus maius appareat quam revera sit» (1458), citando come prova l’«aurora lunare» (1430) visibile prima dell’alba e l’«ampliori orbe» (1437) di Sole e Luna all’orizzonte. L’autore ammette però che i raggi iridescenti attorno alle stelle, mobili e variabili, siano un «oculi affectio» (1440), mentre la «corona luminosa stabile» (1440) potrebbe derivare sia dall’aria illuminata sia da fenomeni oculari.

Si obietta a Galileo che il suo esperimento con la mano interposta tra luce e occhio (1442-1443) non esclude del tutto l’illuminazione atmosferica: «non probavit Galilæus, nullam partem illius luminis [...] ex aëre illuminato existere» (1440). Inoltre, si nota che anche attraverso il tubo ottico persiste un «fulgore» (1454) attorno a pianeti come «Mars, Venus atque Mercurius» (1456), il che suggerisce che «aër illuminari» (1434) contribuisca all’ingrandimento apparente, pur non essendo l’unica causa. L’autore conclude che Galileo, negando ogni ruolo all’aria, «alteri levare» (1461) parti della dottrina avversaria per «offuscar la mente del lettore» (1461), mentre la realtà è più complessa: «non de sincero [...] aëre locuti existimandi sunt, sed de eo aëre qui [...] lumen stellarum sistere ac cohibere possit» (1436).


Note

(1430) «Præterea, si quis Lunam post alicuius domus tectum adhuc latitantem [...] maximam aëris partem eiusdem Lunæ lumine illustratam, quasi lunarem auroram, prius intuebitur»«Se qualcuno osserva la Luna ancora nascosta dietro il tetto di una casa, poco prima che sorga, vedrà dapprima una grande parte dell’aria illuminata dalla sua luce, come un’aurora lunare». (1442) «Si manum [...] inter lumen atque oculum collocatam ita moveris [...] fulgor ille circumfusus nunquam tegetur»«Se muovi una mano posta tra la luce e l’occhio come per oscurarla, quel bagliore diffuso non sarà mai coperto finché non nascondi la luce vera». (1461) «voler [...] meschiarlo con cose aliene dal proposito, offuscar la mente del lettore» → riferimento esplicito alla strategia retorica attribuita a Sarsi.


//: t 22.21

22. L’illusione ottica dell’ingrandimento celeste: tra vapori, irraggiamento e lenti

L’errore di attribuire all’“illuminazione dell’aria vaporosa” l’apparente ingrandimento del Sole e della Luna all’orizzonte, smascherato attraverso la geometria della rifrazione, l’anatomia dell’occhio e l’osservazione telescopica.


Il blocco confuta la tesi secondo cui “il Sole e la Luna vicini all’orizonte appariscono maggiori che inalzati verso il mezo cielo” a causa di “una ghirlanda d’aria illuminata che s’aggiunga al lor disco”. L’argomento si articola su tre piani: 1) la sfera vaporosa, pur illuminata, non altera la grandezza apparente dei corpi celesti, poiché “il lume de’ vapori è incomparabilmente minore della primaria luce” e “il disco del Sole e quel della Luna [...] dovrebbono mostrarsi grandi quanto gl’immensi cerchi delle loro aurore” se l’ipotesi fosse vera; 2) l’ingrandimento è invece un effetto ottico dovuto “alla figura sferica dell’esterna superficie” dei vapori e “alla lontananza maggiore” delle linee visuali verso l’orizzonte, dimostrabile con “una lente convessa” che, allontanata, “successivamente” ingrandisce l’oggetto; 3) l’“irraggiamento avventizio” — prodotto dall’occhio o dalle palpebre — nasconde la forma reale dei corpi piccoli (stelle, Venere), mentre “il telescopio spoglia le stelle di quel coronamento risplendente”, rivelando “i lor corpi terminati e figurati”.

Temi minori includono: la distinzione tra “lume primario” e “splendore circunfuso” (visibile nelle aurore ma irrilevante per le dimensioni apparenti); la “figura ovata” del Sole e della Luna all’orizzonte, spiegata con “la gran lontananza dell’occhio dal centro della Terra”; la confutazione empirica tramite “le macchie lunari” (visibili anche al bordo del disco ingrandito) e “Venere cornicolata”, osservabile solo col telescopio. L’autore chiude con una dimostrazione geometrica: “quattro bacchette” allineate, ingrandite proporzionalmente dal telescopio, provano che “tutte quelle linee ricrescono secondo la medesima proporzione”, senza privilegiare corpi vicini o lontani.


//: t 23.22

23. La trasparenza della fiamma e la visibilità degli oggetti retrostanti: confutazione empirica e teorica

Dalle Sacre Scritture agli esperimenti con zolfo e alcol: come la luce e la distanza smentiscono l’opacità attribuita alle fiamme, tra citazioni bibliche, osservazioni ottiche e repliche a Galileo.


Argomento

Il blocco dimostra che «la fiamma è trasparente» (1550) attraverso un ragionamento articolato in prove testuali, osservazioni fenomenologiche ed esperimenti controllati. L’autore parte da un’affermazione categorica: «dichiaro che la fiamma di una candela non nasconde gli oggetti posti oltre sé agli occhi, ed è trasparente» (1545), sostenuta da un passaggio biblico in cui «quattro uomini camminano illesi in mezzo al fuoco» (1547) senza subire corruzione, esempio che «non va considerato un miracolo» (1548) poiché anche «un lucignolo posto al centro di una fiamma rimane visibile, sia annerito sia luminoso» (1548). La trasparenza è confermata dall’osservazione di «legna semiusta e carboni accesi» (1549) distinguibili tra le fiamme, nonostante «la violenza massima del fuoco» (1549).

La seconda parte introduce un confronto sistematico con gli oggetti opachi: mentre «qualunque corpo opaco, posto tra l’occhio e l’oggetto, ne impedisce la vista a qualsiasi distanza» (1551), la fiamma «permette sempre di vedere gli oggetti retrostanti se li illumina da vicino» (1551), come dimostra l’esempio di «caratteri scritti dietro una fiamma, leggibili a un dito di distanza» (1551). L’autore spiega poi perché gli oggetti lontani scompaiono: «la fiamma, essendo più luminosa, esaurisce la capacità visiva» (1552), ma «se l’oggetto retrostante è anch’esso luminoso o illuminato, la fiamma non lo nasconde» (1554). Seguono esperimenti con «fuoco di alcol» (1556), «fiamma di zolfo» (1557) e «luce di una seconda candela» (1558) per provare che anche «fiamme poco chiare» (1556) o «colorate» (1557) non ostacolano la visione. La conclusione estende il principio alle «stelle, corpi luminosi molto più chiari di qualsiasi fiamma» (1559), smentendo l’argomento di Galileo secondo cui «la fiamma di una cometa avrebbe dovuto nascondere le stelle» (1559) e ribadendo che «le fiamme sono trasparenti» (1562), senza «pregiudicare l’opinione aristotelica» (1559).


Note

Riferimenti testuali diretti

Temi minori