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Galileo - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo - Lettura | 34x


Dedica e introduzione al dialogo sul sistema copernicano

Avvio del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” con dedica e premesse teoriche.

Sommario

Il blocco si apre con una dedica umile e devota a un’alta autorità, in cui Galileo si presenta come Umilissimo e Devotissimo Servo e Vassallo. Segue l’indirizzo Al discreto lettore, che contestualizza un editto romano contro l’opinione pitagorica della mobilità della Terra, criticando chi lo attribuisce a passione anziché a esame giudizioso: Non mancò chi temerariamente asserì, quel decreto essere stato parto non di giudizioso esame, ma di passione troppo poco informata. Galileo difende la determinazione prudente, ricordando il suo ruolo a Roma e proponendo di mostrare alle nazioni straniere la superiorità italiana in materia, raccogliendo speculazioni copernicane in ipotesi matematica per confutare i peripatetici che adorano l’ombre, non filosofando con l’avvertenza propria. Struttura il testo in tre capi: prime esperienze terrestri insufficienti a provare la mobilità, indifferenti a Terra mobile o quiescente; seconde, fenomeni celesti a rinforzo dell’ipotesi copernicana per facilità astronomica; terze, una fantasia sul flusso del mare illuminata dal moto terrestre, per prevenire appropriazioni altrui. Sceglie la forma dialogica per digressioni curiose, introducendo interlocutori come Sagredo, Salviati e il peripatetico Simplicio, prolungando la loro fama post mortem. La Giornata prima inizia con Salviati che esamina ragioni aristoteliche e tolemaiche contro Copernico, focalizzandosi su sostanze celesti inalterabili e elementari alterabili, e sulla perfezione del mondo in tre dimensioni. Simplicio difende Aristotele con autorità pitagorica, citando principio, mezzo e fine come numero del tutto, e divisioni in tre modi per il corpo perfetto; Salviati critica queste come vaghezze retoriche, preferendo dimostrazioni necessarie, e inizia una prova geometrica con punti e linee per determinare distanze. Temi minori emergono nelle digressioni sui misteri pitagorici, derisi come favole per il volgo, e sull’ammirazione platonica per i numeri come divini.


Critica aristotelica ai moti naturali e fondamenti del mondo ordinato

Esame delle difficoltà nei principi aristotelici sui movimenti semplici e misti, con transizione a un’ipotesi platonica di accelerazione e uniformità circolare.

Sommario

Il dialogo tra Salviati, Sagredo e Simplicio analizza le definizioni aristoteliche dei corpi naturali e dei loro moti, evidenziando incongruenze. Sagredo dubita della distinzione tra moti semplici, retti e circolari, notando che Aristotele “accomoda i precetti d’architettura alla fabbrica del mondo, e non la fabbrica ai precetti” (frase 157), presupponendo un universo già abitato con termini come “sursum et deorsum” (frase 155). Si critica l’attribuzione di moti retti ai corpi semplici come fuoco e terra, e circolari a un quinto elemento, poiché il moto retto implica disordine in un mondo “perfettissimo” e “ordinatissimo” (frase 179), allontanando i corpi dal loro luogo naturale (frase 185). Salviati argomenta che il moto retto è infinito e impossibile in natura, citando Aristotele: “la natura non intraprende a fare quello che non può esser fatto” (frase 186), proponendo invece che serva solo per ordinare il caos iniziale, mentre nel mondo fabbricato prevale il circolare (frase 187).

Si introduce un’ipotesi platonica: Dio impartisce velocità uniforme ai corpi celesti tramite un moto retto accelerato iniziale, passando poi al circolare perpetuo, come per Giove, dove “la velocità naturalmente convien esser uniforme” (frase 193). Sagredo solleva obiezioni sull’accelerazione, che richiede infiniti gradi di tardità dalla quiete (frase 196), e Salviati conferma che la natura non conferisce velocità immediate, ma progressive, rendendo miracoloso il contrario (frase 198). Temi minori emergono sulla semplicità dei moti, influenzata da velocità e predominanza di elementi, come nel confronto tra terra pura e legno (frase 162), e sulla circolarità come moto perfetto rispetto alla retta “imperfetta” (frase 175). Il discorso sospende Aristotele per fondamenti alternativi, affermando l’impossibilità del moto retto in un cosmo ordinato (frase 184).


Definizione e confronto delle velocità nei moti naturali

Discussione sul moto accelerato lungo piani inclinati e perpendicolari, con estensione ai moti planetari.

Sommario

Il dialogo esplora la definizione di moti eguali e velocità proporzionali agli spazi e tempi percorsi. Simplicio propone che i moti eguali siano Figuromi che passino spazi eguali in tempi eguali, mentre Sagredo aggiunge una nozione più universale: Velocità diconsi eguali quando gli spazi passati son proporzionati a i tempi. Salviati conferma che tale definizione include casi di spazi e tempi ineguali ma proporzionali. Si confronta il moto lungo l’inclinata CA e la perpendicolare CB, notando che il mobile muoversi piú velocemente per la perpendicolare che per l’inclinata quando si parte dalla quiete, ma non universalmente senza questa condizione, poiché in certi punti dell’inclinata la velocità può superare quella della perpendicolare. Sagredo riconosce che le proporzioni tra tempi e spazi variano, permettendo casi di velocità eguali: nel tempo che nella perpendicolare il mobile avrà passata tutta la CB, l’altro avrà passata la CT, minore. Si argomenta che il cadente passa per tutti i gradi di tardità, acquistando velocità gradualmente, e che moti su piani poco inclinati richiedono tempi lunghissimi, fino all’infinito sull’orizzontale. L’impeto acquisito in A equivarrebbe a percorrere il doppio del piano in moto uniforme. Si estende al moto circolare, che non si acquista naturalmente senza moto retto precedente, ma si mantiene perpetuamente. Infine, un’ipotesi cosmologica immagina i pianeti creati a un’altezza dal Sole tale da discendere acquisendo velocità proporzionali alle loro orbite: Giove sia sceso più che Saturno, con calcoli che confermano le grandezze orbitali e velocità per tutti i pianeti, dal più esterno al più interno. Il discorso torna ai moti circolari come ordinati e non disordinanti il cosmo.


Dibattito sul moto naturale dei corpi e posizione della Terra

Discussione aristotelica tra esperienza sensibile e ragionamento logico

Il dialogo tra Simplicio e Salviati esamina il pensiero di Aristotele sul moto naturale dei corpi gravi e leggeri, contestando la posizione centrale e immobilità della Terra. Simplicio difende Aristotele, enfatizzando che le sensate esperienze si devono anteporre a i discorsi umani e che i gravi si muovono rettamente verso il centro del mondo, mentre i leggeri ascendono al concavo lunare, come dimostrato dal moto contrario. Salviati ribatte, concedendo al massimo che le parti della Terra, rimosse dal loro tutto, tornerebbero per linea retta, ma nega che ciò implichi lo stesso per il globo intero, poiché le parti della terra nel ritornare al suo tutto si movessero per linea retta, e non per circolare o altra mista. Evidenzia il paralogismo aristotelico nel supporre il centro della Terra coincidente con quello dell’universo, notando che il moto de i gravi è contrario a quello de i leggieri; ma il moto de i leggieri si vede esser dirittamente all’insú, cioè verso la circonferenza del mondo; adunque il moto de i gravi è rettamente verso il centro del mondo.

Sagredo integra l’argomentazione, osservando che qualsiasi punto interno a un cerchio, se preso come origine di un moto retto, porta alla circonferenza, ma non necessariamente al centro se non dal centro vero: il dire: ‘Il fuoco, movendosi rettamente, va verso la circonferenza del mondo; adunque le parti della terra, le quali per le medesime linee si muovono di moto contrario, vanno verso ’l centro del mondo’, non conclude altrimenti, se non supposto prima che le linee del fuoco, prolungate, passino per il centro del mondo. Salviati conclude criticando l’attribuzione di attributi ai corpi celesti basati sul moto circolare esclusivo, affermando che negato che il moto circolare sia solo de i corpi celesti, ed affermato ch’ei convenga a tutti i corpi naturali mobili, bisogna per necessaria conseguenza dire che gli attributi di generabile o ingenerabile, alterabile o inalterabile, partibile o impartibile, etc., egualmente e comunemente convengano a tutti i corpi mondani. Temi minori emergono nella difesa della logica aristotelica da Simplicio, che invoca contra negantes principia non est disputandum, e nella metafora salviatiana sulla logica come organo da suonare, non solo da fabbricare.

Riferimenti minori


Critica alla vanità dei giudizi popolari sulla nobiltà della Terra

Vanità dei discorsi sul valore delle cose e perfezione della corruttibilità terrestre.

Sommario

Il blocco discute la stoltezza dei giudizi popolari che esaltano l’oro e le gemme come preziose, mentre disprezzano la terra, invertendo i veri valori naturali. Si argomenta che la scarsità determina il prezzo: qual maggior sciocchezza si può immaginar di quella […] che chiama cose preziose le gemme, l’argento e l’oro, e vilissime la terra e il fango?. La penuria e l’abbondanza influenzano le valutazioni volgari, come nel caso del diamante paragonato all’acqua pura, che non si scambierebbe per botti d’acqua. Si critica l’esaltazione dell’incorruttibilità, motivata dal terrore della morte: Questi che esaltano tanto l’incorruttibilità, l’inalterabilità, etc., credo che si riduchino a dir queste cose per il desiderio grande di campare assai e per il terrore che hanno della morte. I detrattori della corruttibilità meriterebbero di trasformarsi in statue per sperimentare l’immobilità, preferibile al discorrere a rovescio. La Terra è più perfetta nella sua alterabilità che come massa inalterabile di diamante: E’ non è dubbio alcuno che la Terra è molto piú perfetta essendo, come ella è, alterabile, mutabile, etc., che se la fusse una massa di pietra.

Si contrappone la nobiltà della Terra, che beneficia di generazioni e alterazioni, ai corpi celesti, ordinati al suo servizio mediante moto e lume, senza bisogno di ulteriori mutazioni: i corpi celesti, cioè il Sole, la Luna e l’altre stelle, che non sono ordinati ad altro uso che al servizio della Terra, non hanno bisogno d’altro per conseguire il lor fine, che del moto e del lume. Si ironizza sull’idea di corpi celesti immortali al servizio di una Terra “caduca e mortale”, definita “feccia del mondo”: Adunque la natura ha prodotti ed indrizzati tanti vastissimi, perfettissimi e nobilissimi corpi celesti, impassibili, immortali, divini, non ad altro uso che al servizio della Terra, passibile, caduca e mortale? […] al servizio di quello che voi chiamate la feccia del mondo, la sentina di tutte le immondizie?. Senza interazioni con la Terra, i cieli sarebbero inutili, privi di operazioni reciproche data la loro impassibilità. Si propone che i corpi celesti possano alterarsi nelle parti esterne, guadagnando ornamento e azioni reciproche, senza perdere perfezione: Corpi celesti parimente alterabili nelle parti esterne de i globi celesti, aggiugnendo loro ornamento, senza diminuirgli perfezione o levargli l’azioni, anzi accrescendogliele. L’alterabilità della Terra è limitata alle parti superficiali, mentre l’intero globo è eterno, richiedendo cieli eterni per operazioni perpetue.

Si ribatte che generazioni lunari non sarebbero vane, poiché dirette al beneficio umano, ma si nega l’esistenza di uomini o fenomeni simili sulla Luna: Generazioni e mutazioni fatte in Terra son tutte per benefìcio dell’uomo […] tutte, o mediatamente o immediatamente, sono indrizzate all’uso, al comodo ed al benefizio dell’uomo. Si ipotizzano generazioni inescogitabili, diverse da quelle terrestri, come un abitante di una selva non potrebbe immaginare l’oceano e i pesci: nella Luna, per tanto intervallo remota da noi e di materia per avventura molto diversa dalla Terra, sieno sustanze e si facciano operazioni non solamente lontane, ma del tutto fuori, d’ogni nostra immaginazione. Si evocano creature lunari che lodano Dio, in modo diversissimo dal nostro: cose che l’adornino, operando e movendo e vivendo e, forse con modo diversissimo dal nostro, veggendo ed ammirando la grandezza e bellezza del mondo. Il dialogo devia dal tema principale, proponendo di rimandare la discussione lunare a una sessione separata, per non allungare il cammino: questa sarà la terza volta che noi così di passo in passo, non ce n’accorgendo, ci saremo deviati dal nostro principale instituto.


Esperimento sulla riflessione lunare

Dimostrazione empirica dell’asprezza superficiale della Luna attraverso confronti con muro e specchio.

Sommario

Il dialogo tra Salviati, Simplicio e Sagredo esplora la natura della superficie lunare mediante un esperimento con uno specchio attaccato a un muro esposto al sole. Salviati introduce l’osservazione: “Noi cerchiamo […] se per fare una reflession di lume simile a quello che ci vien dalla Luna, sia necessario che la superficie da cui vien la reflessione sia così tersa e liscia come di uno specchio, o pur sia piú accomodata una superficie non tersa e non liscia, ma aspra e mal pulita”. Confrontando le riflessioni, notano che il muro appare più chiaro da ogni posizione rispetto allo specchio, che riflette intensamente solo in un punto specifico: “Voi vedete dunque la differenza che cade tra le due reflessioni, fatte dalle due superficie del muro e dello specchio”. Sagredo conclude che la Luna, mostrando uniformemente la sua parte illuminata, deve avere una superficie aspra come il muro: “Provasi a lungo, la Luna esser di superficie aspra”.

Si affrontano obiezioni: Simplicio suggerisce che una superficie sferica potrebbe riflettere ovunque come uno specchio curvo, ma Sagredo ribatte che ciò renderebbe la Luna quasi invisibile, con solo una minima parte illuminata visibile: “Quando dunque la Luna fusse tersa come uno specchio, piccolissima parte si mostrerebbe a gli occhi di un particulare illustrata dal Sole”. Temi minori emergono nella distinzione tra corpi celesti ed elementari, con Simplicio che argomenta una “maggiore sfera di attività ne i corpi celesti”, e nella tollerabilità della luce lunare rispetto a un ipotetico specchio lunare, che sarebbe “assolutamente intollerabile”. Salviati prepara ulteriori chiarimenti per risolvere dubbi residui.


Esperimento sulla riflessione della luce e irregolarità superficiali

Sperimentazione sensoriale con specchi per confutare l’apparenza ingannevole della riflessione solare.

Sommario

Nel dialogo, Salviati dimostra con un esperimento l’effetto limitato della riflessione solare in uno specchio convesso sferico, che non illumina sensibilmente i luoghi circonvicini, contrariamente all’apparenza di un grande splendore diffuso. Simplicio osserva: «Io veggo pure, nel riguardar quello specchio, uscire un grande splendore, che quasi mi toglie la vista», ma Salviati spiega che tale irradiazione è illusoria, simile a quella intorno a una stella, e che il vero riverbero proviene da una piccola parte dello specchio, rendendolo impercettibile rispetto alla riflessione uniforme di un muro ruvido. Si discute come superfici aspre, composte di innumerevoli inclinazioni, diffondano la luce universalmente: «non è luogo alcuno al quale non arrivino moltissimi raggi reflessi da moltissime superficiette sparse per tutta l’intera superficie del corpo scabroso», rendendo visibile la Luna nonostante la sua distanza, a differenza di una superficie liscia che la renderebbe invisibile. Simplicio propone un’obiezione sulla Luna come specchio, paragonandola a una «piastra dorata e ben brunita» che appare tutta risplendente da lontano, ma Salviati ribatte che per superfici grandi e piane l’immagine del Sole occupa solo una parte, inghirlandata di raggi illusori, e per quelle sferiche il resto appare oscuro se perfettamente levigate. Si esplora come l’inesatta levigatura, come in vasi d’argento non bruniti, produca illuminazione diffusa, mentre il brunimento la concentra in direzioni determinate, causando oscurità altrove. Sagredo interviene chiedendo se una superficie meno tersa basterebbe per la visibilità dei pianeti, e Salviati conferma che eminenze e cavità, come montagne lunari, aumentano la riflessione potenziando l’illuminazione con raggi meno obliqui, eliminando ombre grazie ai raggi solari che coincidono con la vista umana. Si affronta la difficoltà delle ombre nelle valli lunari durante il plenilunio, risolta notando che «i raggi della vista e quelli del Sole» percorrono le medesime linee, rendendo invisibili le ombre dal nostro punto di vista. Infine, si considera l’apparente uniformità luminosa della Luna piena, dove parti estreme, viste in scorcio, ricevono raggi obliqui ma appaiono egualmente luminose sotto angoli visivi uguali, verificato con un’esperienza su carta piegata che mostra l’illuminazione decrescente con l’obliquità, bilanciata dalla prospettiva.


La luce secondaria della Luna e l’affinità con la Terra

Dialogo galileiano sul chiarore lunare riflesso e le somiglianze tra Luna e Terra.

Sommario

Nel dialogo, Salviati dimostra che la luce secondaria della Luna deriva dalla riflessione della Terra, paragonando il suo splendore a quello di nubi e montagne illuminate: le montagne non esser men luminose di quelle nugole. Egli confuta l’idea che sia propria della Luna o derivata dalle stelle, osservando che durante gli eclissi totali appare oscura, del color del rame ed un poco albicante; ma altre volte è rimasta tanto oscura, che l’ho del tutto persa di vista, e che nel crepuscolo è offuscata dalle corna solari. Simplicio cita un autore moderno che attribuisce tale luce alla penetrazione solare attraverso una Luna semitrasparente, che deriva dalla medesima illuminazion del Sole, supportata da autorità come Cleomede e osservazioni negli eclissi solari, ma Salviati la smonta come fallace, notando che le ombre lunari sono nitide, ombre negrissime, terminate e taglienti, incompatibili con una sostanza diafana. Si discute la riflessione del mare, meno intensa di quella terrestre per l’ineguaglianza della superficie, come provato dall’esperimento sul pavimento bagnato: non si mostr’egli questo mattone bagnato più oscuro assai degli altri asciutti?. Emergono temi minori come la solidità lunare dalle montagne e l’affinità tra Terra e Luna per vicinanza, grandissima affinità esser tra la Terra e la Luna, culminando nella reciprocità delle influenze luminose, contro la tradizione aristotelica. Infine, le macchie lunari potrebbero essere mari, selve o terre oscure, quelle gran macchie che si veggono nella faccia della Luna siano mari, e il resto più chiaro terra.


Osservazioni lunari e limiti della conoscenza umana

Osservazioni telescopiche sulla Luna e confronto con la Terra, esteso ai confini dell’intelletto e della sapienza divina.

Il blocco di testo esplora le caratteristiche fisiche della Luna, desunte da osservazioni telescopiche, e contrappone la sua natura alla Terra, negando somiglianze in termini di vita e generazioni. Galileo nota che le parti più oscure della Luna son tutte pianure, mentre le luminose sono montuose, con confini netti nelle zone oscure che indicano superfici piane, a differenza delle parti chiare anfrattuose. Si discute l’assenza di aspetti solari variabili simili a quelli terrestri, dove i giorni naturali nella Luna sono di un mese l’uno, causando un calore eccessivo che renderebbe impossibile la vita come la conosciamo, con effetti come l’azion del Sole dentro alla zona torrida quando e’ durasse quindici giorni continui. Si esclude la presenza di piogge, data l’uniforme serenità osservata, e si ipotizza che eventuali generazioni lunari sarebbero diversissime ed a noi del tutto inimmaginabili. Il discorso si allarga ai limiti della capacità umana, criticando la presunzione di misurare la natura con l’intelletto umano, come in questa così vana prosunzione d’intendere il tutto non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai nulla. Si evoca Socrate, sapientissimo per riconoscere l’ignoranza relativa all’infinito divino, e si distingue l’intendere umano “extensive” (limitato) da quello “intensive” (perfetto in proposizioni matematiche), dove l’intellecto umano ne intende alcune così perfettamente. Si ammirano le invenzioni umane, culminando nell’ invenzione dello scrivere stupenda sopra tutte l’altre, che permette di comunicare attraverso spazio e tempo. Note marginali dell’edizione originale integrano riflessioni su moto e velocità, con aggiunte manoscritte di Galileo su dubbi matematici e passaggi sensati per chiarire il moto dei gravi.


Critica all’autorità aristotelica e discussione sul moto della Terra

Esempi di interpretazioni forzate e difesa dell’empirismo contro il dogmatismo peripatetico.

Sommario

Il dialogo si apre con un aneddoto su un filosofo peripatetico che, di fronte a una dissezione anatomica, ammette l’evidenza dell’origine dei nervi dal cervello ma la subordina al testo di Aristotele, affermando: Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d’Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera. Simplicio difende l’autorità di Aristotele, sostenendo che i suoi testi contengano “ogni scibile” e richiedano un’interpretazione profonda per estrarne dimostrazioni, mentre Sagredo ironizza paragonando tale pratica alla formazione di centoni da poeti come Virgilio o Ovidio, o all’uso dell’alfabeto per comporre scienze intere, notando che “quello che saprà ben accoppiare e ordinare questa e quella vocale con quelle consonanti […] ne caverà le risposte verissime a tutti i dubbi”. Salviati critica i seguaci pusillanimi che detraggono reputazione ad Aristotele difendendone ogni detto contro l’evidenza, citando casi come l’attribuzione del telescopio a un passo su un pozzo o le interpretazioni alchemiche delle favole poetiche per segreti sull’oro, e conclude che veri filosofi devono privilegiare sensi ed esperienze su autorità nude, esortando: “i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta”.

La discussione transita al moto della Terra, esaminando il diurno come impercettibile agli abitanti ma apparente in tutto l’universo eccetto il globo terrestre, con Salviati argomentando che è più probabile attribuirlo alla Terra sola data la vastità della sfera stellata, e Sagredo paragonandolo all’assurdità di far ruotare un paesaggio per evitare di girare la testa. Aristotele e Tolomeo si oppongono solo a questo moto, mentre Copernico ne propone un altro con corrispondenza celeste che Tolomeo non vide; il testo insiste che moti comuni a tutti gli oggetti sono come nulli rispetto a essi, illustrando con la nave in viaggio: “il moto da Venezia in Sorìa è come nullo […] perchè è comune a tutti ed egualmente da tutti è participato”. Temi minori emergono nelle metafore, come lo scultore atterrito dalla propria statua o le profezie post-eventum, sottolineando l’ostinazione dogmatica contro l’osservazione razionale.

Note

Frasi da (1221) a (1304), tratte dal “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” di Galileo Galilei, focalizzate su epistemologia e cosmologia.


Argomenti aristotelici e tolemaici sulla quiete della Terra

Esame di prove classiche contro il moto terrestre, dall’evidenza quotidiana alle osservazioni celesti.

Sommario

Il dialogo presenta argomenti di due generi sulla quiete della Terra: quelli basati su accidenti terrestri, senza relazione alle stelle, e quelli tratti dalle apparenze celesti. Salviati elenca prove aristoteliche e tolemaiche, come il caduta dei gravi per linea retta verso il centro della Terra, che “viene per una linea retta e perpendicolare alla superficie della Terra”, confermata dall’esempio della palla su una nave ferma, dove “ella batte, che è vicino al piè dell’albero”. Si fortifica con proiettili lanciati in alto, che non seguirebbero il moto terrestre, e con tiri d’artiglieria: verso ponente il tiro risulta maggiore, ma l’esperienza mostra parità, indicando immobilità. Analogamente, tiri verso mezzogiorno o tramontana deviano verso ponente, e quelli orizzontali orientali appaiono alti, occidentali bassi, per l’ipotetico abbassamento dell’orizzonte; poiché “mai non si potrebbe verso nissuna parte tirar giusto”, la Terra sta ferma. Simplicio ammira queste “ragioni, alle quali è impossibile trovar risposta che vaglia”, mentre Sagredo nota come una verità si accordi con l’altra.

Si passa a esperienze di cose in aria, come nubi e uccelli, che non seguono il supposto moto terrestre di “almeno sedici mila miglia” in ventiquattr’ore, eppure volano senza differenza verso levante o ponente. Sagredo riflette su seguaci di Copernico, tutti ex-contrari ma persuasi da “forza delle ragioni”, a differenza dei peripatetici che ignorano il testo copernicano. Enfatizza il dilemma tra quiete terrestre e moto celeste, o viceversa, con moto e quiete come “accidenti principali in natura”. Argomenta che la proposizione vera è dimostrabile con “molte dimostrazioni potissime”, mentre la falsa solo con “fallacie, sofismi, paralogismi”; dunque, chi sostiene il vero persuaderà, non per ignoranza ma per efficacia delle prove. Salviati chiarisce di impersonare il copernicista, promettendo ulteriori ragioni.

Note

Frasi da 1411 a 1505, inclusi dialoghi di Salviati, Simplicio e Sagredo.


Disputa sulla caduta del sasso e il moto della Terra

Esame dell’argomento aristotelico contro il moto terrestre attraverso l’esperimento della torre e della nave.

Sommario

Il dialogo affronta l’obiezione aristotelica alla rotazione della Terra, basata sull’osservazione che un sasso cadente rade la torre perpendicolarmente, implicando la stabilità terrestre: “Voi dite: Il veder rader la torre non basta per assicurarsi che ’l moto del sasso sia perpendicolare, che è il mezo termine del silogismo, se non si suppone che la Terra stia ferma”. Salviati ribatte che, se la torre si muovesse con la Terra, il sasso non potrebbe radere la torre, inferendone la stabilità: “Ma io risponderò, che quando la torre si movesse, sarebbe impossibile che ’l sasso cadesse radendolo, e però dal cader radendo s’inferisce la stabilità della Terra”. Si discute l’impossibilità per Aristotele di un moto misto retto e circolare nel sasso, ma Salviati lo contesta citando il fuoco che mescola moti rettilinei e circolari: “Aristotile ammette che il fuoco si muova rettamente in su per sua natura ed in giro per participazione”. Simplicio obietta con l’esperimento della nave, dove il sasso cade lontano dall’albero se la nave si muove: “Oltre che ci è l’esperienza tanto propria, della pietra lasciata dalla cima dell’albero della nave, la qual, mentre la nave sta ferma, casca al piè dell’albero, ma quando la nave camina, cade tanto lontana dal medesimo termine”. Salviati evidenzia la disparità, poiché il moto della nave è accidentario, mentre quello terrestre è naturale e impresso in tutte le parti, inclusa l’aria: “Gran disparità è tra ’l caso della nave e quel della Terra, quando ’l globo terrestre avesse il moto diurno”. Si argomenta che l’aria segue il moto terrestre, favorendo il sasso, a differenza del vento improvviso su un sasso fermo: “Voi fate sopraggiugnere il vento a quel sasso posto in quiete; e noi esponghiamo nell’aria, che già si muove, il sasso, che pur si muove esso ancora con l’istessa velocità”. Il dialogo culmina nel riconoscimento che l’esperienza della nave non prova l’immobilità terrestre, poiché un’ipotetica caduta invariata non distinguerebbe moto da quiete: “Se la pietra lasciata dalla cima dell’albero, quando la nave cammina con gran velocità, cadesse precisamente nel medesimo luogo della nave nel quale casca quando la nave sta ferma, qual servizio vi presterebber queste cadute circa l’assicurarvi se ’l vassello sta fermo o pur se cammina?”. Temi minori emergono nella distinzione tra moti naturali e accidentari, e nell’analogia con l’aquila che lascia cadere una pietra nel vento.


Dibattito sull’esperienza della caduta della pietra sulla nave

Dialogo tra Simplicio e Salviati sull’affidabilità dell’esperienza della pietra che cade da un albero di nave, con intervento di Sagredo.

Sommario

Nel dialogo, Simplicio dubita dell’esperienza diretta della pietra che cade sempre nello stesso punto della nave, sia ferma o in moto, rimettendosi alla fede negli autori antichi, come indicato in la pietra cadente dall’albero della nave batte nell’istesso luogo, muovasi la nave o stia ferma. Salviati ribatte che l’esperienza mostra il contrario e che la stessa ragione vale per la Terra ferma o in moto, concludendo che dal cader la pietra sempre a perpendicolo al piè della torre non si può inferir nulla del moto o della quiete della Terra. Simplicio insiste sulla sua incredulità senza prove personali, affermando io ritorno nella mia incredulità, e nella medesima sicurezza che l’esperienza sia stata fatta da gli autori principali. Salviati, sicuro del risultato per necessità razionale, sfida Simplicio con un esperimento su una superficie inclinata, chiedendo se una palla vi resterebbe ferma: quando voi aveste una superficie piana… e che sopra di essa voi poneste una palla… che credete voi che ella facesse?. Simplicio, inizialmente esitante, conclude che la palla si muoverebbe verso il declive, ella si moverebbe verso il declive spontaneamente, mentre Salviati insiste che si fermerebbe, preparando una dimostrazione logica. Sagredo interviene con curiosità, incoraggiando Salviati a forzare la confessione di Simplicio, che accetta di rispondere solo su ciò che sa per certo, legando la scienza ai veri e non ai falsi. Il dibattito tocca temi minori come la credibilità delle supposizioni e la distinzione tra probabilità e certezza, senza risolvere la disputa.

Riferimenti

Frasi da (1695) a (1730).


Dibattito sul moto dei proietti e la virtù impressa

Esame della resistenza del mezzo e dell’impulso residuo nei corpi proiettati.

Sommario

Nel dialogo, Salviati sfida l’idea aristotelica che il mezzo, come l’aria mossa, continui il moto dei proietti, sostenendo invece la presenza di una “virtù impressa” residua nel corpo separato dal proiciente. Simplicio difende l’azione del mezzo, affermando che “il proiciente ha il sasso in mano; muove con velocità e forza il braccio, al cui moto si muove non più il sasso che l’aria circonvicina, onde il sasso, nell’esser abbandonato dalla mano, si trova nell’aria che già si muove con impeto, e da quella vien portato”. Salviati controbatte con esempi empirici, notando che corpi pesanti come la pietra resistono al vento più di quelli leggeri come la bambagia, e che “l’aria mossa molto più velocemente e ’n maggior distanza traporta le materie leggierissime che le gravissime”, contraddicendo l’ipotesi del mezzo come causa primaria. Si discute il moto dei pendoli, dove “la palla di piombo andrà in qua e ’n là mille volte, e quella di bambagia dua o tre al più”, evidenziando come l’impeto si conservi più a lungo nei gravi che nei leggeri. Sagredo introduce obiezioni sulle frecce, osservando che una freccia traversa resiste meno all’aria ferma rispetto a una per punta, poiché “il mezo impedisce ‘l moto de’ proietti, e non lo conferisce”. Il dibattito si estende al moto relativo su navi e cavalli, con Salviati spiegando che la palla caduta da un cavallo in corsa segue il suo moto, conservando l’“impeto” impartito, e che “la palla, arrivata che sia in terra, correrà insieme col cavallo”. Si esplorano problemi curiosi, come l’accelerazione delle ruzzole in terra rispetto all’aria, dove “si veggono, uscite che son della mano, andar per aria con certa velocità, la qual poi se gli accresce assai nell’arrivare in terra”, attribuibile a minori impedimenti superficiali. Simplicio resiste, ma il discorso rivela temi minori come la penetrazione dell’aria e l’assenza di gravità relativa, culminando in riflessioni su dimostrazioni necessarie e osservazioni empiriche contro dottrine tradizionali.

Note

Frasi da (1808) a (1952): estratto dal dialogo galileiano sul moto naturale e violento, focalizzato su proiettili e resistenza media.


Il moto della ruzzola e la traiettoria dei gravi

Analogie dinamiche tra ruzzola e proiettili

Il dialogo esplora il moto della ruzzola come modello per comprendere l’accelerazione dei corpi in caduta, distinguendo l’impulso aereo da quello terrestre. Sagredo spiega che “quell’attaccarsi, per così dire, le parti di sotto alla terra, fa ch’elle restano, e solo si spingono avanti le superiori”, mentre Simplicio osserva che su superfici lisce “non così bene scorrerebbe innanzi, ma potrebbe per avventura continuar di girare in se stessa, senza acquistar altro moto progressivo”. La vertigine acquisita in aria non progredisce, ma “arrivata che sia in terra, assai velocemente” spinge la ruzzola, raddoppiando la velocità con l’aggiunta del moto impresso dal braccio. Si discute il ruolo dello spago, che “la costringe a girare in se stessa, per isvilupparsi dalla corda”, e casi di rimbalzo dove il moto si attenua in aria ma si ravviva a terra. Temi minori emergono nei rimbalzi su pendenze, che possono “acquistar nuova vertigine”, e nelle applicazioni ludiche, come il “trinciar la palla” per ingannare l’avversario o il lancio di palle di legno con vertigine contraria per fermarle vicino al segno.

Estensione al moto dei gravi e digressioni

Il discorso si allarga a proiettili da carrette, dove una palla su tavola pendente “acquisterà vertigine in se stessa, la quale, aggiunta al moto impresso dalla carretta, porterà la palla per terra assai più velocemente della carretta”. Salviati difende le digressioni, notando che “dependono i ragionamenti da quelle cose che si vanno destando per la fantasia”, e Sagredo introduce la traiettoria del grave cadente, chiedendo la linea descritta “dal mobile grave, naturalmente cadente dalla cima della torre a basso”. Si conclude che il moto semplice verso il centro è rettilineo, “quale appunto sarebbe quando la Terra fusse immobile”, confermato dall’esperienza nonostante il moto composto circolare e discendente.


Scioglimento degli argomenti contro il moto della Terra attraverso esperimenti di tiri e moti relativi

Dialogo galileiano su relatività del moto e artiglieria, con analogie navali e venatorie per confutare l’immobilità terrestre.

Sommario

Nel dialogo, Salviati e Sagredo illustrano come il moto della Terra non alteri i tiri d’artiglieria o i proiettili, poiché tutto partecipa del moto comune. Si parte dall’esperimento della freccia scagliata da una carrozza in movimento: “tirandosi verso il corso, delle trecento braccia del tiro la carrozzetta ne passa cento, onde nella percossa del bolzone in terra lo spazio tra esso e la carrozza sarà braccia dugento solamente”. Questo dimostra che i tiri verso il corso della carrozza risultano più corti, mentre quelli opposti più lunghi, ma regolando la velocità dell’arco si pareggiano gli effetti, rivelando che “senza mutar arco, l’istesso corso della carrozza è quello che aggiusta le partite”. Applicando ciò all’artiglieria, i tiri verso levante e ponente sono uguali sia che la Terra si muova sia che stia ferma, poiché “muovasi la Terra o stia ferma, […] i tiri fatti dalla medesima forza hanno a riuscir sempre eguali, verso qualsivoglia parte indrizzati”. Si critica l’errore di Aristotele e Ticone, radicato nella “fissa e inveterata impressione, che la Terra stia ferma”.

Sagredo propone un’analogia con una penna su una nave in viaggio da Venezia ad Alessandretta: “se la punta di una penna da scrivere […] avesse avuto facultà di lasciar visibil segno di tutto il suo viaggio, che vestigio, che nota, che linea avrebb’ella lasciata?”, risultando in una linea arcuata quasi impercettibile, dove il moto comune della nave rende invisibili le deviazioni, simile al moto diurno terrestre che “resta insensibile” rispetto alla caduta della pietra dalla torre. Si risolve l’istanza del tiro perpendicolare: la palla torna sul pezzo perché partecipa del moto terrestre, come in una balestra su nave in moto. Ulteriori obiezioni, come i tiri di punto bianco orientali alti e occidentali bassi, si dissolvono poiché “lo scopo orientale per il moto della Terra si va continuamente abbassando sotto una tangente che restasse immobile, così anco il pezzo […] si va continuamente inclinando”. Si discute il volo degli uccelli, sostenendo che l’aria, partecipando del moto diurno, li trasporta senza sforzo, contrariamente ai proiettili che perdono velocità. Infine, si avverte sulla cautela con esperienze non verificate, come i cadenti dall’albero della nave, e si calcola che deviazioni minime, come “un dito” nei tiri, resterebbero inosservabili tra errori ordinari.


Scioglimento delle obiezioni al moto della Terra attraverso uccelli, esperimenti navali e analisi della vertigine

Risoluzione delle istanze contro la rotazione terrestre mediante osservazioni su voli animali, prove in navi e confutazione dell’argomento tolemaico.

Il dialogo affronta obiezioni al moto diurno della Terra, focalizzandosi sul volo degli uccelli e sull’aria mossa. Salviati replica che l’aria, pur veloce quanto la Terra, non ristora adeguatamente la perdita di moto negli uccelli, ma questi, animati, usano forza interna per volare contro la gravità, come “volar anco all’insù, moto impossibile ad essi come gravi”. Il volo verso occidente detrae dal moto diurno, mentre verso levante lo accresce, risolvendo l’argomento: “lo spiccar il volo verso ponente non fu altro che un detrar dal moto diurno”. Si estende a proietti, distinguendo principi interni ed esterni, e culmina in un esperimento navale per sigillare la nullità delle obiezioni. In una nave in moto uniforme, insetti, pesci e gocce d’acqua si comportano indifferentemente, poiché “l’esser il moto della nave comune a tutte le cose contenute in essa ed all’aria ancora”. Sagredo conferma l’esperienza, soddisfatto della “nullità del valore di tutte l’esperienze prodotte”. Si passa all’istanza della vertigine tolemaica, che estraderebbe corpi dalla Terra rotante, ma Salviati critica l’assunto aristotelico-tomaioco di un moto iniziato con Pitagora, ridicolizzandolo come “stupidità di alcuni che stimano, la Terra essersi cominciata a muovere quando Pittagora cominciò a dire che ella si moveva”. L’argomento tolemaico presuppone una Terra inizialmente ferma per permettere edifizi, confutando un moto improvviso: “La Terra non si muove, perchè le fiere gli uomini e le fabbriche, già poste in Terra, precipiterebbono”. Simplicio obietta, ma Salviati illustra con esperimenti rotatori, come il secchiello d’acqua che non versa per forza centrifuga, dimostrando impeto verso la circonferenza in moti veloci. Il dialogo digredisce su Platone, con Salviati evocando il “nostrum scire sit quoddam reminisci”, preparando lo scioglimento mediante richiamo a conoscenze pregresse sul moto dei proietti.


Discussione sulle cose leggere e la proiezione dalla Terra

Esame delle obiezioni relative al moto di corpi leggeri come penne e lana in un’ipotetica rotazione terrestre.

Sommario

Nel dialogo, Simplicio solleva dubbi sulle “cose leggiere” come “penne, lana, bambagia e simili”, che pur avendo “debolissima inclinazione di calare al centro” dovrebbero essere “estruse” dalla rotazione terrestre, mancando la forza per “ritirarsi alla superficie”. Salviati risponde analizzando i moti: quello “per la tangente nel punto della separazione” della proiezione e quello “per quella che va da lei al centro della Terra” dell’inclinazione verso il basso. Per la proiezione, l’“impeto per la tangente prevaglia all’inclinazione per la segante”, richiedendo che il moto tangenziale sia “centomila volte maggiore” di quello verso il basso, rendendo impossibile il distacco anche per oggetti leggerissimi. Simplicio, inizialmente confuso su come un mobile “superare nel moto e prevalere a se stesso”, conclude che “le pietre, gli elefanti, le torri e le città volerebbero verso il cielo per necessità” se la Terra ruotasse, confermando la sua immobilità. Salviati ribatte che il moto diurno è tanto rapido da non permettere al corpo di “muoversi un sol dito all’ingiù” in quel tempo, e sfida Simplicio: “perchè non potrebbe esser quello per la tangente tanto veloce, che non desse tempo alla penna d’arrivar alla superficie della Terra?”, integrando temi minori come la velocità relativa e l’assenza di percezione del moto.

Riferimenti minori

Frasi chiave: (2474-2475) per l’obiezione su penne; (2485) per i due moti; (2503-2505) per la conclusione di Simplicio; (2510-2512) per la replica finale di Salviati.


Dimostrazione geometrica della proiezione circolare

Ragionamento matematico sulla velocità dei gravi e l’impossibilità della separazione dalla Terra.

Sommario

Salviati illustra geometricamente il moto del proietto, distinguendo la velocità acquisita dal grave cadente e rappresentandola con linee perpendicolari su una retta inclinata: “il grave cadente, partendosi dalla quiete, va acquistando sempre maggior grado di velocità di tempo in tempo, secondo che l’istesso tempo va crescendo”. Si considerano diminuzioni infinite della velocità per avvicinamento allo stato di quiete e per riduzione della gravità, come con linee AD che intersecano parallele minori: “col ritirar la linea EA verso AB, ristrignendo l’angolo EAB (il che si può fare in infinito, sì come la gravità in infinito si può diminuire), si vien parimente a diminuire in infinito la velocità del cadente”. Questo implica che la proiezione non si realizzi, poiché la velocità discendente non basta a superare la circonferenza, riducendosi doppiamente in infinito senza impedire il ritorno: “la velocità del moto in giù si potrà ben diminuir tanto e tanto (potendosi doppiamente diminuire in infinito), che ella non basti per restituire il mobile sopra la circonferenza della ruota”.

Sagredo apprezza il discorso, notando dubbi sulla proporzione della velocità rispetto alla gravità: “delle due cause che rendono la scesa del mobile più e più tarda in infinito, è manifesto che quella che depende dalla vicinità al primo termine della scesa, cresce sempre con la medesima proporzione […] ma che la diminuzion della medesima velocità dependente dalla diminuzion della gravità del mobile si faccia essa ancora con la medesima proporzione, non par così manifesto”. Salviati difende l’argomento con esperienza empirica, affermando che velocità non seguono proporzionalmente le gravità: “un grave anco ben trenta e quaranta volte più di un altro […] non si moverà nè anco a gran pezzo più veloce il doppio”. Ribadisce l’impossibilità della proiezione anche per gravità minima, paragonando a parallele tra tangente e circonferenza: “sia quanto si voglia minima la propensione al moto in giù, sempre è ella più che a bastanza per ricondurre il mobile su la circonferenza”.

Simplicio critica l’approccio matematico astratto: “queste sottigliezze mattematiche […] son vere in astratto, ma applicate alla materia sensibile e fisica non rispondono”. Salviati controbatte, mostrando che obiezioni rafforzano la tesi, e spiega il contatto punto tra sfera e piano materiale: “il dir questo è l’istesso che dire che la sfera non è sfera”. Il dialogo tocca temi minori come il valore della geometria in filosofia naturale e proporzioni di spazi curvi versus rettilinei, concludendo sull’essenza della sfera.

Nota

Frasi da (2534) a (2579), dal Dialogo sopra i due massimi sistemi.


Dibattito sui principi di moto naturale e violento

Dialogo tra Simplicio e Salviati sul moto dei gravi e dei leggeri, con analisi del moto circolare terrestre.

Sommario

Nel dialogo, Salviati sfida Simplicio a giudicare se “principii contrarii non possono riseder naturalmente nel medesimo suggetto”, ponendo quesiti sul moto naturale dei corpi gravi verso il centro della Terra. Simplicio afferma che una palla cadente in un pozzo perforato raggiungerebbe il centro per principio intrinseco, ma Salviati obietta che oltre il centro il moto ascendente sarebbe preternaturale, eppure dipendente dallo stesso principio interno: “un mobile può esser mosso, da uno stesso principio interno, di movimenti contrarii”. Esempi includono palle su superfici declivi, pendoli e corpi che si sommerge in acqua, dimostrando come il moto naturale si converta in violento senza interruzione. Simplicio ammette difficoltà a rispondere, mentre Salviati critica l’autore per attribuire il moto circolare all’aria ambiente o a miracoli divini, preferendo un principio che non richieda intervento esterno, come l’aria che segue il moto terrestre senza ostacolarlo. Si discute se tale moto sia naturale o violento, con Salviati difendendo Copernico: la propensione dei corpi elementari a seguire la Terra ha una “limitata sfera”, e non è l’aria a trascinarli, confutando le obiezioni dell’autore contro esperienza e verità. Temi minori emergono sul ruolo di evaporazioni terrestri e analogie peripatetici, senza risolvere pienamente il dibattito sul principio del moto circolare.


Argomenti contro il moto triplice della Terra

Risposte e confutazioni ai ragionamenti ex rerum natura.

Il blocco discute argomenti aristotelici contro il moto della Terra copernicano, basati su dignità naturali, e le relative repliche. Si parte da un esempio illusorio della Luna che sembra seguire i viandanti di notte, “apparenza che, quando il discorso non s’interponesse, pur troppo manifestamente ingannerebbe la vista” (frase 3259), per introdurre fallacie sensoriali e passare a prove razionali. Il primo argomento nega che un corpo semplice come la Terra possa avere tre moti diversi, poiché “ogni effetto depende da qualche causa”, “nessuna cosa produce se medesima” e “uno, in quanto uno, produce una cosa sola” (frasi 3262-3263), concludendo che “un corpo semplice, qual è la Terra, non si potrà di sua natura muover insieme di tre movimenti grandemente diversi” (frase 3264). Si rafforza con l’idea che la Terra muova solo verso il centro, “come mostrano le sue parti, che scendono ad angoli retti alla superficie sferica della Terra” (frase 3266).

Salvati risponde che, come nell’animale un sol principio genera operazioni diverse, così nella Terra “da un sol principio derivare nella Terra diversi movimenti” (frase 3268). Simplicio introduce una quarta dignità: la natura non manca né soprabbonda, fornendo flessure agli animali per moti multipli, come “alle ginocchia, a i fianchi, per il camminar de gli animali” (frase 3272), argomentando che la Terra, priva di snodature, non tollera tre moti (frase 3273). Salvati ribatte che i moti animali sono tutti circolari, “tutti i capi de gli ossi mobili esser colmi o cavi” (frase 3281), e i moti complessi derivano da questi primari; per la Terra, “non ci è bisogno di flessure” poiché il moto è del tutto (frase 3288). Si sfida l’avversario a spiegare come articolare la Terra per tre moti, proponendo che “la semplice figura sferica è la più bella articolazione” (frase 3296). Un’ulteriore istanza immagina moti contrastanti, “da occidente in oriente nel piano dell’eclittica” e “intorno al suo proprio centro da oriente in occidente” (frase 3298), ma Salvati denuncia l’errore: Copernico assegna moti concordi, entrambi “da occidente verso oriente” (frase 3305), criticando l’impugnatore per non aver capito la posizione.


Critica alle confutazioni delle stelle nuove

Discussione tra interlocutori sul valore delle osservazioni astronomiche e sulla vanità delle imprese peripatetici.

Sommario

Nel dialogo, Sagredo e Simplicio esprimono dubbi su dimostrazioni aristoteliche e introducono il tema delle stelle nuove, con Simplicio che cita riletture di conclusioni contro il “movimento annuo” attribuito alla Terra. Salviati, dopo aver esaminato il libro di un autore peripatetico, lamenta la “vanità della sua impresa” e la sorpresa per le sue affermazioni stampate, che contrastano con la reputazione del filosofo. Sagredo ironizza sul sostegno popolare ai peripatetici, notando che “saranno assai manco che un per cento” degli intelligenti a criticare, mentre “gl’innumerabili che, non sendo atti a poterle scoprire nè comprendere, se ne vanno presi alle grida”. Salviati denuncia il silenzio degli esperti come “gastigo proporzionato”, ma necessario per evitare che “noi altri Italiani ci facciamo spacciar tutti per ignoranti” agli oltramontani, e critica la petulanza di oppositori come Lorenzini. Si passa poi all’analisi delle confutazioni dell’autore, che usa osservazioni di dodici astronomi per collocare la stella del 1572 “sullunare”, ma Salviati ribatte che poche parole bastano a smontare “tutta quest’opera, benchè construtta con tanti e tanti laboriosi calcoli”. Il sommario tocca temi minori come la superiorità delle armi proprie degli avversari e l’astensione dal rispondere a “scritture tanto basse”, culminando in un interrogatorio a Simplicio sulla posizione unica della stella, che ammette: “ella fusse in un sol luogo, ed in una sola e determinata distanza dalla Terra”.


Critica alle dimostrazioni sulla stella nuova

Esame delle osservazioni astronomiche e calcoli per determinare la posizione della stella nuova.

Il dialogo tra Salviati, Sagredo e Simplicio analizza le dimostrazioni di un autore che sostiene la stella nuova essere sublunare, basandosi su osservazioni di 13 astronomi e calcoli di parallasse. Salviati critica la selettività dell’autore, che sceglie 12 combinazioni favorevoli per concludere altezze inferiori a quella lunare, come la stella essere stata lontana dal centro manco di 3 semidiametri terrestri (frase 3567) o la distanza dal centro circa 10 semidiametri (frase 3564), ignorando altre che la pongono sopra la Luna o tra le stelle fisse. Attraverso calcoli dettagliati, Salviati dimostra che la maggior parte delle combinazioni, come quelle tra Ticone e Landgravio che danno più di 60 semidiametri (frase 3730), indicano una posizione celeste, e che correzioni minime di minuti bastano per collocarla nel firmamento, mentre emendare quelle sublunari richiede sottrazioni eccessive, come più di 756 m.p. (frase 3811). Temi minori emergono nelle refrazioni atmosferiche e errori strumentali, che l’autore invoca debolmente per difendersi, ma Salviati ribatte che tali effetti alterano egualmente stelle fisse e nuova, preservando le distanze costanti osservate, come non più da essa remota di gradi 1 e mezo (frase 3895). Il sommario conclude che le osservazioni più probabili, con emendazioni minime, supportano la stella come celeste e remota, smontando l’intento peripatetico dell’autore.

Note

Riferimenti ai calcoli: frasi 3562-3571 elencano le 12 indagini; 3720-3730 dettagliano l’operazione su Ticone e Landgravio; 3813-3826 citano combinazioni senza parallasse.


Correzioni e obiezioni al sistema copernicano

Esame filologico di varianti testuali e dibattiti astronomici nel Dialogo galileiano.

Sommario

Il blocco di testo si concentra su correzioni dettagliate a errori di calcolo e varianti tra l’autografo e l’edizione originale del Dialogo, come la precisazione che “45’ leggono, e qui e precedentemente, così l’autografo come l’edizione originale; ma è evidente che dovrebbe correggersi in 154°” e l’indicazione che “35’: e la tavola che si trova nel Copernico alla fine del duodecimo capitolo del primo libro delle Revolutiones […] dà appunto per l’angolo BDC 154°”. Tali emendamenti riguardano valori trigonometrici, come il seno corretto a “42920 per il respettivo seno, in luogo di 42657”, e note su discrepanze, ad esempio “l’autografo e l’edizione originale leggono 3473294” o “il seno è veramente 97827, non 97845”. Si evidenziano limiti alle correzioni, poiché “nè in questo, nè in altri luoghi appresso […] non era a noi lecito correggere, perchè ed è manifesto che l’errore non è di penna, ma devesi attribuire a inavvertenza o inesattezza dell’autore”. Emergono temi minori su tavole mancanti, come “nell’autografo mancano oggi la tavola delle correzioni delle parallassi”, e rettifiche a totali, quali “alla lin. 23, V edizione originale legge 18, che abbiamo corretto in 0 […] e con questa correzione torna esatto il totale 296”.

La sezione transita poi in un dialogo astronomico, con Salv. che afferma “Eccomi a servirvi”, introducendo obiezioni al sistema copernicano: Marte “muove fiero assalto contro al sistema Copernicano” per la scarsa variazione apparente del suo disco, che dovrebbe essere “più di 60 volte maggiore” ma appare solo “4 o 5 volte più grande”. Venere presenta “apparenze […] discordi dal sistem Copernicno”, con differenze di grandezza “quasi impercettibile” invece di “poco meno di 40 volte maggiore”, e non mostra fasi falcate, portando il Copernico a ipotizzare che sia “lucida per se medesima, o che la sua materia fusse tale, che potesse imbeversi del lume solare”. Si aggiunge l’anomalia della Luna, che “perturbi cotale ordine” dei pianeti intorno al Sole. Nonostante queste “difficultà”, Aristarco e Copernico le ignorarono per “altri mirabili riscontri”. Il testo annuncia risposte, affermando che le obiezioni “non solamente non contrariano al sistema Copernicano, ma grandemente ed assolutamente lo favoriscono”, poiché “Marte e Venere si mostrano diseguali a se stessi […] e Venere sotto il Sole si mostra falcata”. Note filologiche chiudono con varianti manoscritte, come la correzione autografa in “braccia in a braccia”.

Note


Le lune di Giove e il sostegno al sistema copernicano

Analogia delle stelle medicee con le lune terrestri

Le stelle medicee, ovvero i quattro satelliti di Giove, sono paragonate alle lune della Terra per la loro natura tenebrosa e illuminata dal Sole. “Stelle Medicee sono come quattro Lune intorno a Giove. Tali si rappresentan elleno a chi stando in Giove le riguardasse”, spiega Salviati, notando che da Giove apparirebbero falcate nelle parti inferiori dei loro cerchi, simili alle fasi lunari osservate dalla Terra. Questo accordo con il sistema copernicano risolve dissonanze iniziali, suggerendo che il Sole, non la Terra, sia il centro delle rivoluzioni planetarie: “Vedete ora quanto mirabilmente si accordano co ’l sistema Copernicano queste tre prime corde, che da principio parevan sì dissonanti”. Simplicio obietta che Tolomeo deve aver reso conto di tali fenomeni, ma Salviati chiarisce che gli astronomi puri salvano solo le apparenze con strutture matematiche, senza curarsi di assunti falsi.

Esorbitanze tolemaiche e rimedi copernicani

Il sistema tolemaico presenta gravi sconvenevolezze, come movimenti irregolari dei pianeti intorno al proprio centro e direzioni opposte, mentre Copernico le risolve con moti equabili: “Sono in Tolomeo le infermità, e nel Copernico i medicamenti loro”. Tolomeo introduce epicicli per spiegare stazioni e regressi planetari, ma il semplice moto annuo della Terra li elimina, evitando assurdità come Marte che rompe l’orbe solare. Salviati descrive geometricamente come il moto terrestre causi le apparenti ineguaglianze nei pianeti superiori, con regressi più frequenti in Saturno che in Giove e Marte per differenze di velocità: “Il solo movimento annuo della Terra tra Marte e Venere cagiona le apparenti inegualità ne’ moti di tutte le 5 stelle nominate”. Per Venere e Mercurio, Copernico dimostra con Apollonio che le loro stazioni derivano dal moto terrestre, rendendo tutti i moti regolari. Il Sole stesso testimonia questo, rafforzando la necessità del moto annuo terrestre: “Il Sole istesso testifica, il moto annuo esser della Terra”.


Discussione sulle obiezioni al copernicanesimo

Esame critico delle confutazioni al sistema copernicano, tra ironie e calcoli errati.

Il dialogo tra Simplicio, Sagredo e Salviati esplora le obiezioni mosse al sistema copernicano, con Simplicio che presenta un libretto critico, mentre Salviati ne smaschera le fallacie. Simplicio esprime neutralità, sperando in “più alte contemplazioni che non sono questi nostri umani discorsi” (4231), e Sagredo elogia tale consiglio come derivante da “somma sapienza e suprema autorità” (4233). Salviati, più assertivo, ammira le congetture sulle stazioni planetarie e macchie solari, che “tanto facilmente e lucidamente rendan la vera cagione di apparenze tanto stravaganti” (4234), concludendo che i detrattori non le abbiano comprese. Si passa poi alle opposizioni del libretto, dove l’autore fraintende i fondamenti copernicani, affermando erroneamente che la Terra si muova “da oriente verso occidente” (4242), un errore che Salviati denuncia come “falsa ed impossibile” (4242), minando la credibilità dell’intera confutazione.

Le istanze ironiche del libretto deridono il copernicanesimo con assurdità come “’l Sole, Venere e Mercurio son sotto alla Terra” (4248) e mescolano impropriamente Scrittura sacra, provocando lo sdegno di Salviati per aver “mescolati luoghi della Sacra Scrittura […] tra queste puerizie pur troppo scurrili” (4250). Simplicio concorda sullo scandalo, ma l’autore promette obiezioni più solide, come il calcolo che renderebbe una stella fissa “maggiore di tutto l’orbe magno” (4258), basato su ipotesi false. Salviati rivela la fallacia, simile a quella di Ticone, fabbricata su “ipotesi falsissime” (4261) e un’interpretazione stretta di Copernico riguardo all’“insensibilità” del moto nelle stelle fisse (4262). Dimostra che, assumendo una stella di sesta grandezza non maggiore del Sole, la distanza stellare rende il moto terrestre “insensibile” nelle fisse (4264), esponendo le “gran fallacie ne gli assunti de gli avversarii” (4264) e confermando la superiorità delle ragioni naturali sul sistema eliocentrico.


Dibattito sulla vastità dell’universo copernicano

Esame delle obiezioni alla grandezza dello spazio cosmico e alla dimensione delle stelle fisse nel sistema eliocentrico.

Sommario

Il dialogo affronta le obiezioni di Simplicio alla vastità dello spazio tra Saturno e la sfera stellata nel sistema copernicano, sostenendo che tale immensità sia superflua e vana, poiché “nessuna cosa esser stata creata in vano ed esser oziosa nell’universo”. Salviati ribatte con l’esempio del Sole, che illumina ogni cosa “in modo, come se altro non avesse che fare”, illustrando come la provvidenza divina curi l’umanità senza limitarsi ad essa, e avverte che “è temerità voler far giudice il nostro debolissimo discorso delle opere di Dio”. Sagredo critica l’arroganza umana nel giudicare superflui corpi celesti non compresi, paragonandoli a organi interni come “la milza o il fele”, e suggerisce che lo spazio tra Saturno e le stelle fisse potrebbe celare corpi invisibili, come le nebulose rivelate dal telescopio, che “erano prima solamente piazzette albicanti, ma poi noi co ’l telescopio l’aviamo fatte diventare drappelli di molte stelle lucide e bellissime”. Si discute la relatività delle dimensioni, dove la sfera stellata appare vasta solo rispetto all’orbe lunare, ma proporzionata ad altre grandezze, e si contesta l’idea che stelle fisse debbano superare il Sole in dimensione, rispondendo alle interrogazioni dell’autore anticopernicano che le ritengono “macchine tanto vaste” inutili per la Terra. Salviati evidenzia contraddizioni nelle obiezioni, notando che stelle piccolissime o invisibili operano comunque, e che l’apparire piccole deriva dal “difetto dell’occhio”, proponendo osservazioni precise sul moto annuo della Terra, come variazioni nell’elevazione polare, che anticopernicani come Ticone interpretano erroneamente come prova contraria, ignorando la distanza immensa che annulla tali effetti. Temi minori emergono nella critica all’antropocentrismo e nella difesa della relatività percettiva, culminando nell’ironia su come un “inveterata impressione” porti a errori grossolani, come calcolare un alzamento polare di “mille gradi”.


Discussione sulle apparenze stellari e il moto annuo della Terra

Esplorazione delle variazioni osservabili nelle stelle fisse dovute al moto terrestre annuo.

Sommario

Il dialogo affronta due quesiti principali: l’accusa di simulazione e le apparenze nelle stelle fisse. Salviati chiarisce di non aver simulato ignoranza sulla nullità di un’istanza, affermando: non è vero ch’io abbia simulato di non intender la nullità di quella instanza. Spiega poi come la stazione, direzione e retrogradazione dei pianeti si riconoscano in relazione alle stelle fisse, poiché su di esse non si osservano mutazioni simili, data la loro immensità remota. Sagrado riconosce che Salviati gli ha rivelato l’intelletto, notando: mercé dell’avermi voi destato l’intelletto. Salviati ipotizza indizi di moto annuo della Terra nelle fisse, se le loro distanze variano, con stelle più vicine che mostrano mutazioni sensibili, come qualche sensibil mutazione succedesse tra di loro. Passa alle fisse fuori dell’eclittica, descrivendo variazioni di elevazione: la diversità di apparenza… è maggiore e minore secondo che le stelle osservate sono più o meno vicine al polo dell’eclittica. La Terra si avvicina e allontana dalle fisse dell’eclittica per il diametro dell’orbe magno, mentre per quelle polari è quasi nullo. Sagrado riassume le conclusioni: due tipi di apparenze, variate grandezze e elevazioni, con massime mutazioni nelle stelle dell’eclittica per le grandezze e al polo per le elevazioni; entrambe più sensibili nelle stelle vicine. Simplicio obietta sulla impercettibilità, ma Salviati paragona a oggetti luminosi lontani, dove un piccolo avvicinamento o discostamento è impercettibile, e nota discrepanze negli astronomi per difetti di strumenti. Propone osservazioni con “strumenti” naturali di miglia, come la sua osservazione del Sole al solstizio: osservai manifestamente l’arrivo e la partita del Sole dal solstizio estivo. Infine, descrive un luogo ideale per osservare mutazioni nelle fisse, come la Lira, in una pianura con montagna eminente.

Chiarimenti sulle osservazioni stellari

Le frasi evidenziano limiti degli strumenti tradizionali, con Tolomeo diffidente verso uno di Archimede, e propongono metodi esatti per confermare il moto terrestre, focalizzandosi su stelle remote dall’eclittica per mutazioni annue.


Spiegazione copernicana del moto terrestre e delle sue conseguenze

Descrizione geometrica del sistema copernicano e analisi delle variazioni diurne e stagionali.

Sommario

Il blocco illustra il modello copernicano attraverso una descrizione dettagliata della Terra come corpo sferico opaco illuminato dal Sole fisso, con enfasi sul cerchio terminator della luce che divide l’emisferio illuminato da quello tenebroso. Si definiscono principi base: “Essendo la Terra di figura sferica e di sustanza opaca, vien continuamente illuminata dal Sole secondo la metà della sua superficie, restando l’altra metà tenebrosa: ed essendo il termine che distingue la parte illuminata dalla tenebrosa un cerchio massimo, lo chiameremo cerchio terminator della luce” (Essendo la Terra di figura sferica e di sostanza opaca, viene continuamente illuminata dal Sole secondo la metà della sua superficie, restando l’altra metà tenebrosa: ed essendo il termine che distingue la parte illuminata dalla tenebrosa un cerchio massimo, lo chiameremo cerchio terminator della luce). Il testo descrive il moto annuo della Terra intorno al Sole lungo l’eclittica, rappresentata da punti cardinali come Capricorno, Granchio, Libra e Ariete, e il moto diurno su se stessa intorno a un asse inclinato di 23 gradi e mezzo, mantenendo costante l’orientamento verso il firmamento. Si analizzano le posizioni solstiziali e equinoziali: nei solstizi, il terminator divide i paralleli in parti disuguali, causando giorni e notti di lunghezze variabili, con poli in luce o tenebre continue; negli equinozi, divide tutti i paralleli in parti eguali, producendo giorni e notti di dodici ore. Temi minori emergono nelle variazioni stagionali e nell’apparente moto del Sole, come “il Sole apparirà in Granchio” (il Sole apparirà in Granchio) quando la Terra è in Capricorno, e nell’effetto del moto assiale costante che genera l’alternanza di stagioni senza inclinazioni della Terra stessa. Il dialogo tra Salviati, Sagredo e Simplicio contrappone la semplicità copernicana alla complessità tolemaica, difendendo i moti terrestri multipli come naturali e compatibili, contro l’assioma aristotelico di un solo moto per corpo semplice; si cita l’esperimento della palla in acqua per dimostrare moti contrari spontanei: “se vi andrete rivolgendo sopra le piante de’ piedi, vedrete immediatamente cominciar la palla a rivolgersi in se stessa con moto contrario a quel del catino” (se vi andrete rivolgendo sopra le piante dei piedi, vedrete immediatamente cominciare la palla a rivolgersi in se stessa con moto contrario a quello del catino). Il sommario conclude con l’invito a giudicare la verosimiglianza del modello, rimarcando la preferenza per mezzi semplici in natura.

Note

Frasi da 4535 a 4578; dialoghi conclusivi enfatizzano contrasto filosofico tra peripatetici e matematici.


La composizione interna del globo terrestre e le proprietà della calamita

Dialogo galileiano sulla sostanza primaria della Terra e sull’ipotesi magnetica.

Il dialogo tra Salviati e Simplicio esplora la natura del globo terrestre, distinguendo la crosta superficiale fertile da una massa interna densa e solida. Simplicio inizialmente considera la terra arabile come sostanza principale, ma Salviati argomenta che le parti interne, “premute da gravissimi pesi”, debbano essere “costipate e dure quanto qualsivoglia durissimo scoglio”, non frangibili come il suolo superficiale. Si discute l’inutilità di fecondità in regioni inaccessibili, concludendo che la sostanza interna è “corpo densissimo e solidissimo”, possibilmente una “durissima pietra”. Salviati propone la calamita come ipotesi plausibile, paragonandola ad altre pietre dure, e nota che il nome “terra” deriva da convenzione, non essenza: “se si fusse presa dalla pietra, come non meno poteva prendersi da quella che dalla terra, il dir che la sustanza primaria di esso fusse pietra non arebbe sicuramente trovato renitenza”. Si introducono prove dal Gilberto, enfatizzando proprietà uniche della calamita, come attrarre il ferro e conferirgli virtù magnetiche, inclusa la declinazione dell’ago: “declinar, dico, sino a’ determinati segni più e meno, secondo che tal ago si terrà più o meno vicino al polo”. Sagredo conferma osservazioni empiriche, notando come una calamita armata “sosteneva più di sei libbre” contro poche once disarmata, e Salviati cita un esempio accademico che regge “80 volte più armato che disarmato”. Il sommario evidenzia temi minori come la compressione crescente verso il centro, concessa da Simplicio e Aristotele, e l’analogia tra il globo e una calamita coperta, dove accidenti esteriori rivelano l’essenza: “mostrasse apertamente di aver tutte le proprietà da voi già conosciute risedere nella sola calamita”.


Osservazioni sulla calamita e i moti naturali

Analisi della struttura porosa della calamita e del suo attaccamento al ferro; critica al metodo filosofico per simpatia e antipatia; riflessione sui moti multipli attribuiti alla calamita contro l’assioma aristotelico; transizione al flusso e reflusso del mare.

Sommario

Il blocco esplora la composizione della calamita, descritta come sostanza porosa ripiena di “pietra durissima e grave”, con macchie splendide che non attraggono il ferro, a differenza del resto del campo che lo fa in gran copia. Questa struttura spiega la debolezza dell’attaccamento diretto del ferro alla calamita nuda, mentre l’armatura, toccando “innumerabili minime particelle”, produce un attaccamento gagliardissimo. Si critica l’osservazione di Gilberti per non aver spianato le superfici, riducendo la tenacità. Sagredo apprezza la spiegazione, paragonabile a una dimostrazione geometrica, e Simplicio la ritiene chiara anche per un mediocre ingegno, riducendo la causa alla “simpatia” tra cose simili e all’“antipatia” opposta, termini che spiegano molti effetti naturali. Sagredo ironizza su questo modo di filosofare, simile a un pittore che con gesso scrive “Qui voglio che sia il fonte, con Diana e sue ninfe” lasciando il resto al pittore, persuadendosi di aver dipinto tutto solo con nomi. Il discorso devia dal tema originario sui moti della Terra, tornando a dimostrare che il terzo moto copernicano è una quiete, con l’asse parallelo a se stesso grazie alla “virtù magnetica”. Si considera la calamita con tre moti naturali: verso il centro della Terra come grave, circolare orizzontale per conservare l’asse, e inclinazione verso la superficie terrestre, più un possibile quarto di rotazione intorno al proprio asse, titubando l’assioma aristotelico di un solo moto semplice per corpi semplici. Simplicio difende Aristotele, concedendo moti composti ai misti, ma Sagredo lo interroga: la calamita, mista di elementi con moti retti “sursum et deorsum”, non può comporre moti circolari, costringendo a ipotizzare sustanze celesti; si denuncia la fallacia di chiamare misto la calamita e semplice il globo terrestre, “centomila volte più composto”. Il discorso peripatetico appare pieno di contradizioni, concedendo moti composti al globo ma negandoglieli. Salviati propone di lasciare il giudizio pendente e passare al flusso del mare, riferibile ai moti terrestri. Infine, si critica l’idea di Gilberti di una rotazione autonoma della calamita librata, poiché le sue parti già ruotano con il globo in ventiquattr’ore, e introdurne una seconda sarebbe arbitrario.

Nota

Il blocco, da (4666) a (4712), forma un’unità omogenea sul magnetismo e i moti, con digressione critica e transizione tematica.


Varianti e Correzioni nel Manoscritto di Galileo sulla Stella Nuova

Discussione sulle osservazioni astronomiche e correzioni nel testo autografo di Galileo, con confronti tra edizione originale e manoscritto.

Sommario

Il blocco di testo tratta le varianti testuali e le correzioni apportate da Galileo nel suo manoscritto autografo riguardante la stella nuova, focalizzandosi su osservazioni astronomiche e calcoli di distanze stellari. Si evidenziano discrepanze tra l’edizione stampata e l’autografo, come in “(4767)”, dove “Dopo correzioni, Galileo scrisse in G, dapprima, quanto appresso: Cominciando dunque a lavorare, già chiara cosa è che tutte le indagini le quali ci rendono la stella nuova per infinito intervallo sopra le stelle fisse, errano nel porla troppo alta”, che discute l’errore nelle indagini che elevano eccessivamente la stella, proponendo moderazioni per ritrarla a una distanza possibile. Galileo cancella e riscrive passaggi, ad esempio in “(4770)”, “Poi Galileo cancellò questo tratto, e dopo correzioni scrisse: emendando tutte l’osservazioni”, enfatizzando emendamenti alle osservazioni. Temi minori emergono nei calcoli precisi, come altezze polari e semidiametri, con note su omissioni o variazioni numeriche: “(4782)” menziona “rimuovon la stella” e elevazioni sino a “32” semidiametri, mentre “(4791)” corregge valori da “250 e 181” a “2501 e 18” nell’autografo. Ulteriori varianti riguardano strumenti e distanze, come in “(4795)”, dove si calcola la parallasse per elevare la stella, e in “(4823)”, che conclude il frammento autografo tornando “alla nostra principal materia”. Note filologiche dettagliano correzioni manuali, ad esempio in “(4825)”, dove Galileo altera “presa” in “posta” in un esemplare dell’edizione originale. Il testo integra discussioni su equivoci e dimostrazioni, con riferimenti a astronomi come Ursino e Agecio in “(4801-4802)”, citando altezze polari in gradi.


Dibattito sul moto terrestre e l’osservazione stellare

Risoluzione delle obiezioni al moto diurno della Terra attraverso analogie e distinzioni geometriche.

Sommario

Nel dialogo, Simplicio presenta obiezioni al moto terrestre, paragonando il movimento di una montagna sul globo rotante a una nave in mare, sostenendo che “tuttavolta che l’instanza del monte valesse, ne seguirebbe parimente che, continuando la nave il suo viaggio, discostata che ella si fusse da i nostri porti per molti gradi, ci convenisse per andare sopra ’l suo albero non più salire, ma muoversi per la piana e poi ancora scendere”. Salviati ribatte spiegando che, con la rotazione terrestre, la montagna si sposta senza necessità di scendere, come per il monte Olimpo, e critica i concetti errati sugli antipodi, dove “gli antipodi nostri per sostenersi e caminare non hanno difficoltà veruna, perchè fanno giusto come noi, cioè tengono le piante de’ piedi verso ’l centro della Terra e ’l capo verso ’l cielo”. Sagredo insiste sulla rimozione di obiezioni deboli, come quella del pozzo, per confermare la teoria.

Salviati approfondisce l’argomento del pozzo, notando la confusione su profondità e larghezza: la stella non si perde per il trapasso della bocca del pozzo, poiché “non vedete voi che nè in un’ora nè in mille nè in eterno sarete trapassato dalla bocca del pozzo?”, ma dipende dalla porzione di cielo visibile, che varia con la profondità. Simplicio riconosce che “quanto più si allontanerà l’occhio dalla bocca del pozzo, minor parte del cielo si scoprirà”, e solo dal centro della Terra si vedrebbe una parte proporzionale alla bocca del pozzo rispetto alla superficie terrestre; salendo, la porzione visibile aumenta fino a metà del cielo in 12 ore sotto l’equinoziale. Temi minori emergono nella critica ai “cervelli atti a negar gli antipodi” e nella distinzione tra moto relativo e assoluto, chiarendo che la rapidità stellare apparente non implica movimento terrestre.


Il flusso e reflusso del mare come conseguenza del moto della Terra

Esame delle cause naturali dei movimenti delle acque marine, con confutazione delle spiegazioni aristoteliche e introduzione dell’ipotesi copernicana.

Sommario

Galileo, attraverso il dialogo tra Salviati, Sagredo e Simplicio, analizza il flusso e reflusso del mare nel periodo diurno, attribuendolo alla composizione dei moti annuo e diurno della Terra, che producono accelerazioni e ritardi nelle parti del globo. Descrive tre tipi di mutazioni orarie nelle acque: alzate e abbassate senza moto progressivo, correnti senza variazione di altezza, e combinazioni di entrambi, come a Venezia dove l’acque entrando alzano, e nell’uscire abbassano. Confuta cause peripatetiche, come le diverse profondità dei mari che discacciano l’acque de’ minor fondi, o l’attrazione lunare che solleva un cumulo d’acqua sotto la Luna, o il suo calore temperato che rarefa l’acqua, sostenendo che tali spiegazioni superano l’immaginazione naturale se la Terra resta immobile: ritener fermo il vaso del Mediterraneo, e far che l’acqua […] faccia questo che fa, supera la mia immaginazione. Propone invece che il moto della Terra, come in una barca che accelera o rallenta portando acqua, causi gli effetti osservati senza bisogno di nuova acqua: l’acqua, contenuta sì nel vaso, ma non fissamente annessa […] scorrerebbe verso la parte precedente, dove di necessità verrebbe ad alzarsi. Esamina accidenti secondari, come le reciprocazioni dell’acqua verso l’equilibrio in vasi di diversa lunghezza e profondità, dove ne’ vasi più corti le reciprocazioni son più frequenti, e le correnti veloci in stretti come tra Scilla e Cariddi. Ribatte obiezioni sull’aria, più fluida dell’acqua ma meno capace di conservare l’impeto: l’aria […] è agevolissimamente mobile da qualsivoglia minima forza, ma è anco inettissima a conservare il moto; cita l’aura perpetua da levante nei tropici come prova del moto terrestre, osservata nelle navigazioni verso le Indie Occidentali. Estende l’analisi ai periodi mestruo e annuo, attribuendone le variazioni alla alterazione della proporzione tra moti diurno e annuo, senza introdurre cause occulte come il predominio lunare, insistendo che di un effetto una sola sia la cagione primaria. Temi minori emergono nelle confutazioni ironiche alle “favole” peripatetiche e nella preferenza per spiegazioni naturali contro il ricorso al miracolo, come quando Simplicio ammette che il vero potrebbe non apparire tra le tenebre de i falsi. Il discorso culmina nella necessità di alterazioni nei moti terrestri per spiegare variazioni mensili e annuali, con esempi come pendoli e orologi che confermano velocità diverse in cerchi minori.