Galileo - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo - Lettura | 34m
Difesa del decreto romano e struttura dialogica dell’opera: tra scienza, autorità e metodo
Un manifesto scientifico in forma di dialogo, dove la verità si misura tra argomenti astronomici, critiche all’aristotelismo e omaggi alla pietà romana.
Il blocco delinea un progetto intellettuale che unisce rigore scientifico e strategia retorica: Galileo si propone di dimostrare la superiorità della conoscenza italiana — e romana in particolare — sulle speculazioni straniere riguardo al sistema copernicano, pur muovendosi entro i limiti imposti dal «salutifero editto» che vieta di affermarne la verità assoluta. L’autore dichiara di agire «in pura ipotesi matematica», ma il suo obiettivo è smascherare l’inconsistenza dei «Peripatetici [che] ne ritengono solo il nome», incapaci di andare oltre «l’ombre» della tradizione aristotelica. Il metodo scelto è il dialogo, forma libera che consente «digressioni tal ora non meno curiose del principale argomento» e che omaggia due figure scomparse, Sagredo e Salviati, introdotte come interlocutori ideali contro il «buon Peripatetico» (Simplicio), portavoce di una dottrina sorpassata. Emergono temi minori: la paternità delle idee (come quella sul «flusso del mare»), rivendicata contro plagi stranieri; la critica al numero tre come prova di perfezione, smontata con ironia («non so che ’l numero 4 sia d’imperfezione a gli elementi»); la difesa della scienza italiana, presentata come erede legittima di «gl’ingegnosi trovati per delizie degl’ingegni». Il tono oscilla tra deferenza («la pietà, la religione, il conoscimento della divina onnipotenza») e sarcasmo («le sciocchezze che vanno per le bocche e per le carte del volgo»), mentre la struttura dialogica si rivela strumento per «prolungar […] la vita alla fama» dei defunti amici e per esporre, con apparente neutralità, «le promesse speculazioni».
La critica al sistema aristotelico dei moti naturali: tra definizioni, contraddizioni e alternative platoniche
Dall’analisi dei principi alla ridefinizione dell’ordine cosmico: dubbi sulla semplicità, sulla quiete e sulla perfezione delle linee come fondamenti della fisica.
Sommario
Il blocco delinea una discussione serrata sui moti naturali secondo Aristotele, smontandone le definizioni attraverso obiezioni logiche e controesempi. Si parte dalla distinzione tra corpi semplici (fuoco, terra) e composti, ai quali spetterebbero rispettivamente moti semplici (retto o circolare) e misti: ma tale classificazione viene messa in crisi quando si evidenzia che la semplicità del moto non dipende solo dalla linea percorsa („se il moto retto è semplice per la semplicità della linea retta”), né dalla velocità („la maggior velocità non basta a definire il semplice”), né tantomeno dalla natura del corpo („quale chiamerete voi il semplice, e quale il composto?”). Emergono contraddizioni nella nozione di quiete („per qual cagione Aristotile non disse che de’ corpi naturali alcuni sono mobili per natura ed altri immobili?”) e nella presunta perfezione del circolare („linea circolare perfetta, […] retta imperfetta”), che Aristotele usa per giustificare un unico centro cosmico e una gerarchia tra corpi celesti e terrestri.
La critica si estende all’architettura del mondo: se il moto retto „disordina i corpi ben costituiti”, perché mai la natura lo adopera? La risposta ipotizzata è che esso serva solo nella fase caotica di creazione („il moto retto servire a condur le materie per fabbricar l’opera”), mentre nel cosmo ordinato „è impossibile che i movimenti loro siano retti”. Si accenna infine a un’alternativa platonica, dove i corpi mondani, dopo un iniziale moto retto, „furon rivolti a uno a uno in giro”, acquisendo velocità uniforme. Il dibattito si chiude sulla gradualità dell’accelerazione („passi per tutti i gradi di tardità”), che rende impossibile un conferimento istantaneo di velocità—tema che prefigura le leggi del moto galileiane.
Note
[1] „Operazione fuora del corso naturale e però miracolosa”: la natura agisce per gradi, mentre un’intervento diretto (divino) potrebbe eludere tale processo. La distinzione anticipa il principio d’inerzia.
Definizione e proporzionalità della velocità nei moti rettilinei e circolari
Dalla definizione di moto uniforme alla dinamica dei piani inclinati e al moto perpetuo dei corpi celesti.
Il blocco analizza la definizione di velocità costante e accelerata, confrontando i moti su piani inclinati e perpendicolari. Si parte dalla distinzione tra “spazi eguali passati in tempi eguali” e “spazi proporzionali ai tempi”, per poi dimostrare come “il moto per la perpendicolare è più veloce che per l’inclinata” solo se i corpi partono dalla quiete. Vengono esaminate le condizioni in cui “le proporzioni tra spazi e tempi possono essere eguali, maggiori o minori”, arrivando a concludere che “il mobile grave passa per tutti i gradi di tardità” prima di acquisire velocità. Il discorso si estende al “moto circolare perpetuo”, ipotizzando che i pianeti abbiano acquisito la loro velocità “discendendo da un punto comune” prima di entrare in orbita. Si sottolinea che “il moto circolare non s’acquisterà mai naturalmente senza il moto retto precedente”, ma, una volta acquisito, “si continuerà perpetuamente con velocità uniforme”.
Il testo introduce anche temi minori: la relazione tra “gradi di velocità e lunghezza dei piani inclinati”, la “necessità di un moto rettilineo preliminare per generare velocità”, e la “proporzionalità tra distanze planetarie e velocità orbitali”, collegata a un “pensiero platonico” sulla creazione dei corpi celesti. La discussione si chiude con l’affermazione che “i moti circolari non disordinano le parti del mondo”, a differenza di quelli rettilinei.
Il conflitto tra esperienza e autorità: moto naturale, centro del mondo e limiti della logica aristotelica
La disputa sul moto retto dei gravi e la collocazione della Terra nel centro dell’universo rivela una frattura tra osservazione empirica e deduzione filosofica. Si interroga la validità dei principi aristotelici — „le sensate esperienze si devono anteporre a i discorsi umani“ — quando questi entrano in contraddizione con fenomeni concreti: „il senso mostra, i gravi muoversi al mezo, e i leggieri ai concavo“, ma la pretesa che tale moto provi il centro cosmico della Terra si scontra con l’assenza di prove dirette („nè Aristotile nè voi proverete già mai che la Terra de facto sia nel centro dell’universo”). Emergono temi minori: la sfericità dei corpi celesti come effetto di „un concorde instinto e concorso naturale di tutte le loro parti“; la critica al „paralogismo“ di Aristotile, che „suppone quello che è in quistione“ assumendo il centro terrestre come centro universale; la distinzione tra competenza logica e applicazione pratica („sì come può esser che un artefice sia eccellente in fabbricare organi, ma indotto nel sapergli sonare“).
Il dibattito si estende alla natura dei corpi celesti, la cui presunta „impassibilità“ e „impenetrabilità“ vengono messe in discussione come conseguenze non necessarie del moto circolare. Si evidenzia l’incoerenza di negare „i sensi stessi“ pur invocandoli a sostegno di teorie preconcette („contra negantes principia non est disputandum”), mentre la ricerca di „quello che seguirebbe in conseguenza d’un impossibile“ — come il distacco di una parte del Sole — viene liquidata come „vanità“, salvo poi ammettere che le proprietà dei corpi celesti dipendono „dalla diversità de i moti naturali“. La tensione tra „esperienze manifeste“ e „discorsi fabbricati da ingegno umano“ si risolve in una sfida metodologica: „il dimostrare s’apprende dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici soli, e non i logici“.
La vanità dei giudizi umani e l’ordine nascosto della natura: tra terra, cielo e pregiudizi popolari
Dove la leggerezza delle opinioni comuni svela l’arbitrarietà dei valori, e l’alterabilità della terra si oppone all’immutabilità attribuita ai cieli, rivelando un universo più complesso di quanto il volgo immagini.
Sommario
Il blocco si apre con una critica serrata alla “vanità de i discorsi popolari” (605), smascherando l’incoerenza di chi esalta “gemme, argento e oro” come “cose preziose” mentre disprezza “terra e fango” (606), pur ignorando che la rarità — non la natura intrinseca — “mette in prezzo ed avvilisce le cose” (608). L’ironia raggiunge l’apice nell’immagine di un principe disposto a “spendere una soma di diamanti” per “tanta terra quanta bastasse per piantare un gelsomino” (607), a dimostrare come il valore sia frutto di “penuria ed abbondanza” piuttosto che di essenza. La derisione si estende a chi loda “l’incorruttibilità” dei corpi celesti per “timor della morte” (609), quasi l’immortalità fosse un pregio assoluto: qui si auspica che i sostenitori di tale idea “incontrassero un capo di Medusa” per trasformarsi in “statue di diaspro” (610), “per diventar più perfetti che non sono” — o almeno per “non discorrere a rovescio” (612).
Il confronto tra terra e cielo diventa il fulcro della seconda parte. Se la terra, “alterabile, mutabile”, trae “nobiltà” proprio dalla sua capacità di generare e corrompersi (614), i “corpi celesti” — “impassibili, immortali, divini” — appaiono “inutili e superflui” se privi di uno scopo oltre “il servizio della Terra” (617-618). L’assurdità di un universo dove “l’innumerabile schiera” delle stelle esista solo per “la feccia del mondo” (618) solleva dubbi sulla loro presunta perfezione: “se la Luna è impassibile, che volete che il Sole operi in lei?” (620). L’ipotesi che anche i cieli possano essere “alterabili nelle parti esterne” (629) — senza perdere dignità, anzi “accrescendo operazioni” — si scontra con l’obiezione che “natura nihil frustra facit” (632): ogni mutazione terrestre, si argomenta, “è per benefizio dell’uomo” (636), mentre “generazioni nella Luna” sarebbero “inutili” (637), a meno di ammettere “uomini” laggiù — “pensiero o favoloso, o empio” (638).
La chiusura si sposta verso l’inesplorato. Se la luna non ospita “erbe, piante o animali simili ai nostri” (640), ciò non esclude “sustanze e operazioni del tutto inescogitabili” (641), così lontane dalla nostra esperienza da sfidare l’immaginazione: come “un uomo nato in una selva” non potrebbe “figurarsi i pesci o le navi” (641), così “le cose lunari” potrebbero sfuggire a ogni analogia terrena. L’unico comune denominatore, suggerisce il testo, è un “perpetuo laudare Iddio” (643) — “occupazione” universale che trascende le forme concrete, lasciando aperta la possibilità di “modi diversissimi” di esistenza. La digressione si chiude con un monito: queste riflessioni, pur affascinanti, “ci devi[ano] dal nostro principale instituto” (647), rinviando a “una particolar sessione” (647) ciò che eccede i confini del ragionamento iniziale.
Note
Riferimenti testuali
- Le frasi (605-610) e (612) attribuiscono al “volgo” (608) una logica capovolta, dove il valore dipende dalla scarsità, non dall’utilità: “non lo cambierebbe [il diamante] con dieci botti d’acqua” (608).
- Il paradosso dei “corpi celesti” (615-620) si articola attorno alla loro presunta “superfluità” (620) se privi di interazione reciproca: “che volete che il Sole operi in [una Luna] impassibile?” (620).
- L’argomento “nihil frustra” (632) viene rovesciato in (640-641), dove si ipotizzano “cose… del tutto a noi inescogitabili”, paragonate all’“oceano” per un uomo “nato in una selva” (641).
- La citazione latina “natura nihil frustra facit” (632) è tradotta come “la natura non fa nulla invano”.
La superficie lunare tra specchio e muro: esperimenti ottici e confutazioni
Un confronto empirico tra riflessioni luminose per determinare la natura aspera o liscia del suolo lunare.
Sommario
Il blocco documenta un esperimento condotto per stabilire se la superficie lunare rifletta la luce come uno specchio (liscia) o come un muro (aspera). L’osservazione parte da una domanda centrale: «se per fare una reflession di lume simile a quello che ci vien dalla Luna, sia necessario che la superficie […] sia così tersa e liscia come di uno specchio, o pur sia piú accomodata una superficie […] aspra e mal pulita» (736). Attraverso prove pratiche — confrontando la luminosità di un muro e di uno specchio esposti al sole — si evince che «la reflession che vien dal muro si diffonde verso tutte le parti opposteli, ma quella dello specchio va verso una parte sola» (772), mentre «la superficie del muro […] si mostra chiara sempre egualmente a se stessa» (772), proprio come la Luna, «che, riguardata da qualsivoglia luogo, apparisce egualmente chiara» (776).
Emergono temi minori: la distinzione tra riflessione diffusa (muro/Luna) e riflessione direzionale (specchio), la confutazione dell’ipotesi dello specchio sferico — «piccolissima parte [della Luna] si mostrerebbe […] illustrata dal Sole […] e il resto rimarrebbe […] invisibile» (793) — e l’obiezione sulla «sfera di attività» (788) dei corpi celesti, respinta con argomenti ottici. Le conclusioni ribadiscono che «la Luna [è] di superficie molto mal pulita» (748), poiché «se ella fusse come uno specchio […] sarebbe il suo fulgore assolutamente intollerabile» (777). L’analisi si chiude con una replica alle obiezioni residue, invocando «altra esperienza» (795) per dirimere i dubbi.
L’illusione della riflessione: specchi, luce e la superficie invisibile della Luna
Un esperimento ottico svela come la percezione inganni la ragione, tra specchi convessi, pareti illuminate e il mistero della visibilità lunare.
Sommario
Il blocco descrive un dialogo sperimentale sulla natura della riflessione luminosa, condotto attraverso la manipolazione di specchi piani e sferici per dimostrare come la percezione visiva possa contraddire le aspettative teoriche. L’esperimento iniziale (801–820) mostra che uno specchio convesso, pur apparendo capace di riflettere intensamente la luce („un grande splendore, che quasi mi toglie la vista“, 823), in realtà illumina in modo trascurabile una parete rispetto a uno specchio piano, svelando che „la reflessione del Sole fatta in ispecchio sferico convesso non illumina sensibilmente i luoghi circonvicini” (819). L’osservazione chiave è che la vivezza del riflesso — amplificata dall’irradiazione avventizia nell’occhio (831) — inganna sulla sua reale estensione, analogamente a come „il corpicello delle stelle irraggiato appare mille volte maggiore che nudo” (831).
Il tema si allarga alla superficie lunare (833–855), dove si confrontano due ipotesi: una Luna liscia come uno specchio (invisibile per la concentrazione della luce in un punto impercettibile, 839) e una Luna scabra (visibile perché diffonde la luce „verso tutte le bande“, 838). L’argomento si articola attorno alla differenza tra riflessione speculare e diffusa: i corpi asperi, come un muro o la Luna, „rimandano la luce […] verso tutte le parti“ (837), mentre quelli tersi la concentrano in direzioni precise, rendendo alcune zone oscure („l’argento brunito apparisce più oscuro che il non brunito“, 850). La discussione sfocia in una critica alle teorie aristoteliche sulla perfezione dei corpi celesti (855), dove la pretesa liscezza assoluta della Luna viene smontata con prove empiriche: „tanto la guasta un capello quanto una montagna“ (855).
Emergono temi minori come: - L’errore percettivo: la confidenza nel „solo discorso” (825) senza verifica sensoriale porta a conclusioni fuorvianti („quanto bisogni andar cauto […] nel prestare assenso“, 825). - La geometria della luce: l’angolo di incidenza dei raggi determina l’intensità luminosa („la massima illuminazione è dove i raggi son perpendicolari“, 860), spiegando perché le „parti estreme” della Luna non appaiano più scure (874–876). - L’analogia con i materiali: il comportamento ottico di oro, argento e diamanti (845–851) serve a chiarire come la scabrosità o la lucidatura alterino la visibilità, con esempi tratti dall’artigianato („i diamanti si lavorano a molte facce […] acciò il lor dilettevol fulgore si scorga da molti luoghi“, 845).
Il blocco si chiude con una sfida empirica (902–904): la verifica diretta, piegando un foglio per simulare angoli di incidenza, deve confermare se la teoria regge „in fatto“, ribadendo il primato dell’osservazione sulla speculazione astratta.
La luce secondaria della Luna: riflessione terrestre e confutazione delle ipotesi alternative
Dibattito sulla natura del chiarore lunare notturno tra osservazione empirica, errori ottici e teorie contrastanti
Il blocco analizza la natura della «luce secondaria» della Luna, attribuita da Galileo alla riflessione della luce solare da parte della Terra. Il testo si articola in una dimostrazione sperimentale (confronto tra la luminosità di un muro e quella lunare, esperimenti con riflessi multipli, lettura di un libro alla luce riflessa) e in una confutazione sistematica delle teorie alternative: l’ipotesi della «trasparenza lunare» (che postula un globo diafano permeato dai raggi solari) viene smontata attraverso osservazioni sulle ombre nette dei crateri e sulla variabilità del fenomeno in relazione alla posizione terrestre. Emergono temi minori come l’influenza della percezione umana («ogni corpo lucido si mostra piú chiaro quanto l’ambiente è piú oscuro») e la critica metodologica agli autori che «accomodano le cose ai propositi» anziché adeguare le ipotesi ai dati. La discussione si chiude con una riflessione sulla reciprocità tra corpi celesti e terrestri, suggerendo che la Terra, come la Luna, possa agire sugli altri pianeti «col lume e forse col moto».
Il sommario evidenzia come le argomentazioni si fondino su esperimenti diretti («provate a farvi ostacolo tra l’occhio e lo splendor primario») e confronti quantitativi («la Terra è quaranta volte maggior della Luna»), mentre le obiezioni avversarie (la presunta maggiore luminosità dei margini lunari, la diafanità del globo) sono smascherate come «favole» o «inganni» ottici. La «repugnanza» di Simplicio a riconoscere un’«affinità tra Terra e Luna» — per pregiudizi aristotelici sulla separazione tra «corpi inferiori» e «celesti» — funge da contraltare alla tesi galileiana, che invece insiste sulla «contiguità» e sulla «similitudine» derivante da fenomeni osservabili. La sezione finale accenna alla natura delle macchie lunari (mari, foreste o differenze di albedo?), senza giungere a una conclusione netta, ma escludendo che la loro oscurità possa derivare esclusivamente dalla presenza d’acqua.
La Luna come mondo alieno: morfologia, assenza di vita e limiti della conoscenza umana
La superficie lunare tra osservazione telescopica e speculazione sulla diversità dei mondi.
Il blocco descrive la Luna come corpo celeste radicalmente diverso dalla Terra, sia nella morfologia che nelle condizioni per la vita. Le parti oscure sono identificate come «piane, con pochi scogli e argini», mentre quelle luminose come «piene di scogli, montagne, arginetti rotondi», con «lunghe tirate di montagne» attorno alle macchie. L’assenza di acqua e piogge («nella Luna non sono piogge») e la durata estrema del giorno («Giorni naturali nella Luna sono di un mese l’uno») rendono impossibile la generazione di «piante, animali o altre cose simili alle nostre», anche se non si esclude una vita «diversissima, e remote da ogni nostra immaginazione». Il testo sfocia in una riflessione epistemologica: la presunzione umana di comprendere l’infinità della natura («il non aver mai inteso nulla perfettamente fa che alcuni credono d’intendere il tutto») è smascherata, mentre si celebra l’eccellenza parziale della mente umana, capace di «intendere alcune [proposizioni] così perfettamente» da eguagliare, in certezza, la conoscenza divina. Tematiche minori includono il confronto tra arte umana e natura («la fabbrica d’una statua cedere d’infinito intervallo alla formazion d’un uomo vivo») e la meraviglia per invenzioni come la scrittura, «stupenda sopra tutte l’altre» per la capacità di «parlare a quelli che non sono ancora nati».
Note
Morfologia lunare
- Le citazioni in corsivo derivano dalle frasi (1105), (1106), (1107), (1109), (1111).
- Traduzioni implicite per termini latini o dialettali (es. «nugole» → «nuvole»).
Epistemologia
- Riferimenti a Socrate e al paradosso della sapienza (1121–1127, 1145).
- Esempi artistici e scientifici tratti da (1135–1138, 1165–1168).
Frasi utilizzate: 1105–1111, 1116–1121, 1125–1127, 1135–1138, 1145–1146, 1156–1157, 1165–1169.
L’autorità cieca e il moto della Terra: tra dogmi peripatetici e osservazione sensata
Un aneddoto sulla rigidità aristotelica e le contraddizioni tra esperienza e testo, seguito da una disamina critica sul metodo filosofico e sull’attribuzione del moto celeste.
Il blocco si apre con il racconto di un episodio grottesco in cui un filosofo peripatetico, di fronte all’evidenza anatomica dell’“origine de i nervi [che] nascer dal cervello”, persiste nel negarla citando “il testo d’Aristotile”. La risposta “bisognerebbe per forza confessarla per vera [l’evidenza], se non fusse in contrario” (1227) diventa emblema di un atteggiamento che antepone l’“Ipse dixit” (1231) alla “sensata esperienza” (1231), tema che attraversa tutto il brano. Si delinea così una critica serrata ai “seguaci [che] danno occasione di stimar [Aristotile] meno” (1249), accusati di trasformare la filosofia in “dottori di memoria” (1276) e di “voler sostenere ogni suo detto senza intendere” (1251). L’autorità diviene “un mondo di carta” (1278) che soffoca il “mondo sensibile” (1278), come dimostra l’aneddoto del “dottor [che] voleva far autor del telescopio” Aristotile (1239), interpretando “il pozzo” e “i vapori grossi” (1239) come precursori del cannocchiale.
Il discorso si sposta poi sul “moto diurno” (1289) e sulla “necessità” (1292) di attribuirlo alla Terra piuttosto che all’“universo tutto” (1289), dato che “le medesime apparenze si vedrebbero tanto nell’una posizione quanto nell’altra” (1290). Qui emerge il principio galileiano per cui “il moto, in quanto è comune a tutti, è come se non fosse” (1302), paragonato al “viaggio di dua mila miglia” di una nave, dove “una balla discostata da una cassa un sol dito” (1304) è movimento più rilevante della rotazione celeste. La critica a Tolomeo e Aristotile — che “non argumentano contro ad altro movimento” (1290) — si intreccia con la difesa del metodo copernicano, dove “la mirabil corrispondenza” (1294) tra moto terrestre e fenomeni celesti diventa prova di “accortezza e perspicacità d’ingegno” (1294). Chiude il blocco l’invito a “non [usare] testi e nude autorità” (1278), ma “ragioni e dimostrazioni” (1278), con un’ironia tagliente verso chi, “temer[ando] di affrontar[lo] con le subbie” (1254), preferisce “restar in casa” (1273) piuttosto che osservare il “cielo della natura” (1252).
Note
Il brano mescola registri: l’aneddoto iniziale (1221–1231) funge da exemplum retorico per smascherare l’irrazionalità del dogmatismo; la dimensione metaforica (l’“alfabeto” come “tutte le scienze”, 1237; il “marmo” che “contiene mille statue”, 1241) serve a ridicolizzare l’ermeneutica forzata dei testi aristotelici. I temi minori includono: - La satira degli alchimisti che “ghibrizzano” (1245) segreti auriferi nelle “favole de poeti” (1245), parallelo alla “prattica” (1233) di “accozzar testi” (1233) aristotelici. - La denuncia della servitù intellettuale, dove “ingegni servili” (1266) trasformano Aristotile in “statua di legno” (1269) da “adorare” (1269). - Il confronto tra metodi: la “sottigliezza” (1282) di Sagredo vs. la “pusillanimità” (1251) di chi “non si ardisce d’allontanarsi un sol passo” (1252) dall’autorità.
Gli argomenti fisici contro il moto terrestre: prove empiriche e confutazioni aristotelico-tolemaiche
Dall’osservazione dei gravi alla traiettoria dei proiettili: come l’esperienza quotidiana diventa fondamento della stabilità della Terra al centro dell’universo.
Sommario
Il blocco delinea una sistematica esposizione degli argomenti empirici addotti da aristotelici e tolemaici per confutare l’ipotesi del moto terrestre, organizzandoli in due categorie: fenomeni terrestri (1414, 1415) e osservazioni celesti (1411). La centralità della Terra viene difesa attraverso esperimenti concreti, tra cui la caduta verticale dei gravi („un sasso, venendo portata dalla vertigine della Terra, […] scorrerebbe molte centinaia di braccia verso oriente“ – 1421), il lancio di proiettili („la palla, cadendo, non potrebbe mai tornare appresso al pezzo“ – 1423) e i tiri d’artiglieria („il tiro verso ponente riuscirebbe estremamente maggiore“ – 1424). Tali esempi, rafforzati da analogie nauticali („la percossa [della palla] sarà lontana […] quanto la nave sarà scorsa“ – 1422), mirano a dimostrare l’incompatibilità tra il moto diurno terrestre e l’evidenza sensoriale, giungendo a una conclusione perentoria: „l’esperienza mostra i tiri essere eguali; adunque l’artiglieria sta immobile, e per conseguenza la Terra ancora“ (1424).
Emergono temi minori come la gerarchia delle autorità scientifiche („le ragioni […] prodotte da Aristotile e Tolomeo“ – 1441), la presunta superiorità delle dimostrazioni false („per far apparir vera una proposizion falsa […] non si possa produrre altro che fallacie“ – 1488) e la critica alla chiusura dogmatica dei peripatetici („nessun è che segua l’opinion del Copernico, che non sia stato prima della contraria“ – 1448). Il testo anticipa inoltre una dialettica tra tradizione e innovazione, dove le „ragioni di forza assai maggiore“ (1441) dei copernicani vengono contrapposte alle „demonstrazioni potissime“ (1488) aristoteliche, senza però risolvere la tensione tra osservazione e teoria. La struttura argomentativa si chiude con un’apertura retorica: „sentiamo il rimanente delle ragioni […] per venir poi al lor cimento“ (1500), preannunciando una verifica critica dei fondamenti stessi della disputa.
Il moto del sasso e la stabilità della Terra: un confronto tra esperienza e teoria
L’argomento del moto terrestre tra prove empiriche e obiezioni aristoteliche.
Il sommario del blocco ruota attorno alla disputa sul moto della Terra e alla validità delle prove addotte per dimostrarne la quiete. Il fulcro è l’esperimento del sasso che cade dalla torre: se questo „rade“ la torre, si deduce che „la Terra stia ferma“ (1649), poiché un moto circolare della torre renderebbe il moto del sasso „trasversale, e non perpendicolare“ (1649). La risposta contraria sostiene che „dal cader radendo s’inferisce la stabilità della Terra“ (1650), poiché un moto della torre impedirebbe al sasso di scendere lungo la sua superficie. L’impossibilità di un „moto misto di retto e di circolare“ (1654) — centrale nella difesa aristotelica — viene contestata: se il fuoco può muoversi „rettamente in su per sua natura ed in giro per participazione“ (1656), lo stesso dovrebbe valere per il sasso, parte integrante del „globo terrestre“ (1663) e quindi soggetto al suo „moto naturale“ (1664).
L’analogia con la nave serve a smontare l’argomento: il sasso cade „al piè dell’albero“ quando la nave è ferma, ma „lontana“ quando questa si muove (1659), dimostrando che il moto accidentario della nave non si trasmette al sasso. Tuttavia, la Terra — a differenza della nave — possiede un „moto proprio e naturale“ (1662), impresso „indelebile“ (1663) in tutte le sue parti, compresa l’aria „rapita e portata in giro“ (1665). L’obiezione sulla „gravità“ del sasso (1667) viene respinta: l’aria non deve „conferire un nuovo moto“ (1670), ma solo „non impedirli“ (1670), poiché il sasso „già si muove“ con la stessa velocità. L’esempio dell’„aquila che lascia cadere una pietra“ (1671) illustra come un corpo in moto mantenga la propria velocità anche dopo il distacco, seguendo „il corso del vento“ (1671) senza cadere „a perpendicolo”.
La conclusione logica sfida l’argomento iniziale: se il sasso cadesse „precisamente nel medesimo luogo“ (1686) sia con la nave ferma che in moto, tale caduta „non presterebbe servizio“ (1688) per determinarne lo stato, proprio come „il polso batte nell’istesso modo ne’ dormienti che ne i vegghianti“ (1688). L’esperienza della nave, mai verificata direttamente („Non l’ho fatta“ — 1693), viene così ridimensionata come prova inadeguata per estendere il ragionamento al „globo terrestre“ (1681).
Note
Riferimenti testuali
- Le citazioni in corsivo tra virgolette sono tratte dalle frasi con identificativi: 1649, 1650, 1654, 1656, 1659, 1662, 1663, 1665, 1667, 1670, 1671, 1681, 1686, 1688, 1693.
- Traduzioni implicite: il testo originale è in italiano antico; le citazioni sono riportate in italiano moderno senza alterazioni lessicali rilevanti.
- Temi minori: natura del moto (naturale vs. accidentario), ruolo dell’aria come mezzo trasmissivo, limiti dell’analogia (nave/Terra).
L’esperienza come prova e il conflitto tra certezza razionale e scetticismo empirico
Dall’argomento della pietra che cade alla sfida dialettica: quando la logica pretende di sostituirsi all’osservazione e lo scettico resiste alla forza delle deduzioni.
Il blocco ruota attorno alla contrapposizione tra due approcci alla conoscenza: la fiducia nell’“esperienza” come unico arbitro della verità — „questa mi pare una cosa tanto remota da ogni uman discorso, che non lasci minimo luogo alla credulità o alla probabilità“ — e la pretesa di dimostrare per via razionale ciò che „non si può inferir nulla del moto o della quiete“ senza ricorrere al dato sensibile. Il fulcro è l’esempio della „pietra [che] casca sempre nel medesimo luogo della nave, stia ella ferma o muovasi“, usato per estendere il principio alla Terra, ma contestato perché „chiunque la farà, troverà l’esperienza mostrar tutto ’l contrario di quel che viene scritto“. Lo scetticismo di Simplicio — „io torno nella mia incredulità“ — si scontra con la sicurezza di Salviati, che afferma „io senza esperienza son sicuro che l’effetto seguirà come vi dico, perchè così è necessario che segua“, arrivando a sfidare l’avversario a „confessare a viva forza“ una verità che questi „finge, o simula di fingere, di non sapere“.
Il dialogo si sposta poi su un esperimento mentale: una „superficie piana, pulitissima come uno specchio“ inclinata e una „palla perfettamente sferica“ di bronzo. Le risposte di Simplicio — „non credo che ella si fermasse altrimente, anzi pur son sicuro ch’ella si moverebbe verso il declive“ — diventano il pretesto per smascherare contraddizioni, mentre Salviati insiste che „ella si fermerebbe in qualunque luogo voi la posaste“, accusando l’interlocutore di „concludere conclusioni falsissime“ per resistenza pregiudiziale. Emergono temi minori: la retorica della „violenza“ intellettuale („far tal violenza al signor Simplicio“), la distinzione tra „scienza de’ veri“ e „falsi“, e il ruolo del silenzio di Sagredo, che funge da osservatore neutrale prima di chiedere esplicitamente di „effettuare il vanto“ della dimostrazione. La tensione tra „credulità“ e „necessità“ logica domina il passaggio, con l’esperienza invocata come giudice ultimo ma mai pienamente accettata come tale.
La virtù impressa e il moto dei proietti: confutazione del ruolo del mezzo e osservazioni sull’impeto
Tra teoria aristotelica e fenomeni sperimentali: l’inesistenza di un moto trasmesso dall’aria e la persistenza dell’impeto nei corpi gravi.
Il blocco analizza la controversia sulla natura del moto dei proietti, rigettando la tesi aristotelica secondo cui il mezzo (l’aria) ne sarebbe la causa motrice. Le frasi evidenziano un dialogo serrato tra posizioni opposte: da un lato, la difesa della “virtù impressa” come forza intrinseca al proietto (“quello che dice Aristotile del moto […] non ha che fare nel nostro proposito”), dall’altro, l’affermazione che “il mezo non ha che fare nella continuazion del moto de’ proietti”. L’argomentazione si articola attraverso esempi concreti — pietre, frecce, pendoli, ruzzole — per dimostrare che “l’aria mossa molto più velocemente […] traporta le materie leggierissime che le gravissime”, mentre i corpi pesanti mantengono l’impeto più a lungo (“quell’impeto e quella mobilità […] più lungamente si conserva nelle materie gravi”). Emergono temi minori come l’incoerenza tra teoria e osservazione (“non vedete voi che a questo modo bisognerebbe che la freccia si movesse con maggior velocità che l’aria?”), la critica alla trasmissibilità del moto tra soggetti diversi (“come può passare dal braccio nell’aria?”), e la proposta di un “accidente maraviglioso” nel moto combinato di caduta e proiezione, anticipando principi di inerzia. Le esperienze descritte — dalla nave in movimento alla ruzzola che accelera a terra — servono a smontare l’idea che “il mezo conferisca il moto al proietto”, ribadendo invece che “il mezo impedisce ‘l moto de’ proietti, e non lo conferisce”.
Il sommario si chiude con l’affermazione che la verità dei fenomeni “è saputa ma non avvertita”, sottolineando come la confutazione passi attraverso la disamina di “problemi diversi e curiosi” legati all’osservazione diretta, piuttosto che a dottrine preconcette. La discussione sfocia in una riflessione sulla “nullità della virtù impressa” come concetto astratto, sostituita dall’evidenza che “l’impedimento accidentario dell’aria” altera, ma non genera, il moto.
Dinamica della ruzzola: moto rotatorio, progressione e interazione con le superfici
Come la vertigine impressa e la natura del suolo determinano velocità, direzione e arresto di un corpo in rotolamento.
Il blocco analizza il comportamento di una ruzzola in caduta e rotolamento, focalizzandosi su tre aspetti interconnessi: l’interazione tra moto rotatorio e traslatorio, l’influenza delle superfici (aria, terra liscia o aspera, piani inclinati) e il ruolo dello spago come elemento iniziatore della vertigine. Le osservazioni partono dal confronto tra il moto in aria, dove «la vertigine […] per aria non spigne punto» (1998), e quello a terra, dove «al moto del braccio s’aggiugne la progressione della vertigine, onde la velocità si raddoppia» (2008). Si evidenzia come la ruzzola, priva di rotazione iniziale, «resterebbe quivi» (2019) al contatto col suolo, mentre una «percossa […] a sbiescio su la pietra pendente» (2024) può generare «nuova vertigine» (2026), accelerando il moto progressivo. Il discorso si estende a casi pratici — come il «trinciar la palla» (2033) nel gioco o l’uso di «tavole pendenti» (2037) su una carretta — per illustrare come la direzione e l’intensità della rotazione possano «ritardare» (2032) o «raddoppiar il moto» (2027), fino a invertirlo. Emergono temi minori: l’analogia con fenomeni ludici (palle, chiose), la relazione tra moto composto e percezione («il balzo […] resta come morto», 2033), e la dipendenza dalla superficie («sul ghiaccio […] non così bene scorrerebbe», 1992). La discussione si chiude con un cenno alla «linea descritta dal mobile grave» (2043), prefigurando un legame tra dinamica locale e moto terrestre.
L’equivalenza dei tiri in moto: frecce, artiglieria e la relatività del movimento
Il moto comune annulla ogni differenza, e la pratica conferma la teoria.
Il blocco analizza la relatività del movimento attraverso esperimenti con frecce, archibugi e proiettili d’artiglieria, dimostrando come il moto condiviso tra oggetto lanciatore e bersaglio renda irrilevanti le differenze apparenti. Si parte dall’osservazione che «lo spazio tra la freccia e dove si trova la carrozza […] sarà minore assai quando si tira verso il corso della carrozza, che quando si tira per l’opposito» (2119), per giungere alla conclusione che «il moto della Terra, co ’l trasferir seco il pezzo […] conferisce alla trasversale […] quel di meno o di più inclinazione che si ricerca» (2243). Il discorso si estende all’artiglieria, dove «i tiri fatti dalla medesima forza hanno a riuscir sempre eguali, verso qualsivoglia parte indrizzati» (2159), purché si consideri che «la palla non si parte altrimenti dalla quiete, ma congiunta co ’l suo moto intorno al centro» (2203). La soluzione si basa sulla composizione dei moti: «avendo la palla due moti, uno in su e l’altro in giro, de’ quali si compone il traversale […] l’impulso in su è tutto del fuoco, il circolare vien tutto dalla Terra» (2236-2237).
Emergono temi minori come l’errore percettivo («questo è pure un negare il senso manifesto» – 2163), la critica alle ipotesi non verificate («esperienze che gli avversarii veramente non hanno mai fatte» – 2262) e l’analogia con fenomeni quotidiani, come il volo degli uccelli («il moto proprio de gli uccelli […] non ha che far nulla co ’l moto universale» – 2304). La discussione si chiude ribadendo che «tutto il vero, reale ed essenzial movimento […] è come se non fusse per tutti i participanti di quello» (2182), principio applicabile tanto a una penna su una nave quanto a un proiettile in volo. Le obiezioni pratiche (ad esempio, «non mi par che tale operazione sia del tutto conforme a questa de i tiri dell’artiglieria» – 2254) vengono risolte distinguendo tra moto relativo e assoluto, e tra velocità comparabili (artiglieria/terra) e non (uccello/archibuso).
Note
Dettagli tecnici e riferimenti impliciti
- Calcoli esemplificativi: la devianza teorica di «un venticinquesimo di braccio» (2287) nei tiri d’artiglieria serve a smascherare l’infondatezza delle obiezioni basate su «esperienze che mai non l’hanno fatte» (2297).
- Terminologia specifica:
- «gradi di velocità» (2139, 2157): unità di misura arbitraria per confrontare velocità relative.
- «tiri di punto bianco» (2260): tiri orizzontali privi di alzo, usati per testare devianze est-ovest.
- «imberciatori» (2247): cacciatori che colpiscono uccelli in volo; il loro metodo («mantenendogli sempre la mira addosso» – 2247) viene paragonato alla composizione dei moti in artiglieria.
- Riferimenti storici:
- Critica a «l’errore di Aristotile, di Tolomeo, di Ticone» (2160) per aver trascurato il «moto comune» (2165).
- Allusione alla «vertigine della Terra» (2224) come moto diurno, centrale nella teoria copernicana.
Il moto degli uccelli e la relatività del movimento: confutazione delle obiezioni al moto terrestre
Tra esperimenti ideali, vertigini e proiettili: come la natura smentisce le apparenze contro la Terra in movimento.
Sommario
Il blocco affronta la confutazione delle obiezioni al moto terrestre attraverso l’analisi del volo degli uccelli, degli effetti inerziali e della dinamica dei corpi in rotazione. Si parte dal dubbio su come gli uccelli, „corpi solidi e gravi“, possano recuperare „quella parte del movimento diurno“ perduta durante il volo, se l’aria — mossa alla stessa velocità della Terra — non fosse „bastante a ristorar il danno della perdita“. La risposta si articola in due direzioni: da un lado, si distingue il moto „da un principio interno“ (gli uccelli vivi) da quello „da un proiciente esterno“ (i proiettili), sottolineando come „lo spiccar il volo verso ponente“ equivalga a „detrar dal moto diurno“ un grado di velocità, senza che ciò implichi una contraddizione fisica. Dall’altro, si introduce l’esperimento della nave: in uno spazio chiuso, „mosche, farfalle, pesci“ e „gocciole cadenti“ si comportano identicamente „sia che la nave cammina o pure sta ferma“, dimostrando che „il moto della nave [è] comune a tutte le cose contenute in essa“. La relatività del movimento emerge come principio chiave, smontando l’argomento „dello scagliamento delle pietre e degli animali verso le stelle“ avanzato da Tolomeo.
La seconda parte si concentra sulla „vertigine veloce“ come presunta prova contro il moto terrestre. Attraverso esempi concreti — „un secchiello con acqua“ fatto ruotare, „pietruzze“ che premono contro la corda, „fanciulli“ che lanciano sassi con una canna — si mostra come la forza centrifuga agisca solo „quando il moto sia veloce“, ma non in condizioni di „moto uniforme“, come quello ipotizzato per la Terra. Si evidenzia inoltre l’errore logico di Tolomeo, che „suppone la Terra essersi una volta trovata in tale stato“ da permettere la costruzione di „edifizii“ prima di diventare mobile, confutando così la „puerizia“ di chi „cred[esse] che la Terra si fusse cominciata a muovere quando Pitagora cominciò a dire che ella si moveva“. Il blocco si chiude con l’affermazione che „tutte le esperienze addotte“ contro il moto terrestre sono „nulle“, poiché basate su „apparenze“ e non su „effetti“ osservabili.
Sulla presunta estrusione dei corpi leggeri e la dinamica del moto tangenziale
Un dialogo tra velocità, gravità e la stabilità dei corpi sulla superficie terrestre
Il blocco esamina la questione fisica dell’impossibilità che oggetti leggeri — come penne, lana o bambagia — vengano proiettati via dalla Terra a causa della sua rotazione, nonostante la loro apparente debolezza gravitazionale. L’argomento si articola attorno a due moti contrastanti: quello “per la tangente” (dovuto alla rotazione terrestre) e quello “per la segante” (la naturale tendenza del corpo a cadere verso il centro). Si sostiene che “il moto per la tangente” debba essere “tanto più veloce” da impedire anche il minimo spostamento verticale, condizione “che non sarà mai” soddisfatta, poiché “mille braccia di distanza per la tangente non rimuovono appena un dito dalla circonferenza”. La discussione sfocia in una confutazione dell’ipotesi che la rotazione terrestre possa causare l’allontanamento dei corpi, siano essi pesanti o leggeri: “se per ritener la pietra o la penna annessa alla superficie della Terra ci fusse di bisogno che ’l suo descender a basso fusse più o tanto quanto è il moto fatto per la tangente, voi areste ragione”, ma tale proporzione è irrealizzabile. Emergono temi minori come l’equivoco sulla leggerezza assoluta (“se voi intendete delle assolutamente leggiere, ve le lascerò esser estruse più che voi non volete”) e la velocità relativa come condizione necessaria per superare la gravità, evidenziando come “il medesimo mobile non possa prevalere o cedere a se medesimo nel moto, se non co ’l muoversi or più veloce e or più tardo”.
La conclusione implicita rigetta l’idea che la rotazione terrestre possa generare effetti visibili di proiezione, poiché “non sarà mai” possibile una velocità tangenziale sufficiente a contrastare anche la più lieve inclinazione verso il basso. La penna, pur “così poco grave”, resta ancorata alla superficie perché “la sua natural propensione di scender verso la superficie della Terra, per minima ch’ella sia, vi dico che ell’è bastante a non la lasciar sollevare”.
L’analisi geometrica del moto proiettile e la confutazione delle obiezioni aristoteliche
Dalla rappresentazione grafica delle velocità alla dimostrazione dell’impossibilità della proiezione in condizioni limite
Il blocco illustra un ragionamento geometrico volto a dimostrare come la proiezione di un corpo lungo una traiettoria orizzontale possa essere impedita quando la velocità di discesa, diminuita in infinito per due cause distinte — la riduzione della gravità del mobile e l’avvicinamento allo stato di quiete — risulti insufficiente a separare il proietto dalla superficie di rotolamento. La discussione si articola attorno a una figura ideale: una linea orizzontale AB (moto uniforme del proietto), una perpendicolare AC (direzione della gravità), e una retta inclinata AE che, variando l’angolo BAE, rappresenta i gradi di velocità acquisiti nel tempo. Le frasi (2534–2542) definiscono il modello, dove gli spazi AF, FH, HK simboleggiano intervalli temporali eguali, mentre le perpendicolari FG, HI, KL indicano i «gradi di velocità acquistati in detti tempi» (2537), proporzionali ai tempi stessi. La velocità, però, può essere ridotta in infinito sia «ristrignendo l’angolo EAB» (2539) — ossia diminuendo la gravità del mobile — sia «ritirando le parallele KL, HI, FG verso l’angolo A» (2540), ovvero avvicinandosi allo stato di quiete iniziale.
La seconda parte (2543–2578) contrappone questa «doppia infinità» (2541) di diminuzione della velocità a quella, ancora più radicale, degli spazi di ritorno del proietto sulla circonferenza, rappresentati dalle linee intercette tra la tangente AB e l’arco AMP di centro C. Mentre le parallele tra rette concorrenti diminuiscono con proporzione costante («la parallela HI sarà doppia della FG» — 2547), gli spazi tra tangente e circonferenza si riducono con proporzione «molto maggiore», tanto che «le precedenti linee contenere[bbero] le prossime seguenti tre, quattro, dieci, cento, mille, centomila, e più in infinito» (2547). Ciò implica che, anche con velocità «diminuita in infinito» (2555), lo spazio di ritorno si annulla prima che la velocità raggiunga lo zero assoluto, rendendo impossibile la proiezione. Le obiezioni di Simplicio — basate sull’inapplicabilità della geometria alla «materia sensibile» (2561) — vengono confutate ricorrendo all’esperienza («una palla di piombo ed una di sughero non si moverà […] più veloce il doppio» — 2553) e alla coerenza logica: se anche la tangente toccasse la superficie terrestre «per molte decine di braccia» (2565), la proiezione risulterebbe «su l’istessa superficie» (2569), cioè inesistente. La conclusione ribadisce la necessità della geometria per trattare «quistioni naturali» (2557), smontando l’argomento aristotelico con una dimostrazione che «strigne» (2550) tanto sul piano astratto quanto su quello fisico.
Note
Riferimenti geometrici
- La figura di riferimento include:
- AB: linea orizzontale (moto uniforme del proietto).
- AC: perpendicolare (direzione della gravità).
- AE/AD: rette inclinate che formano angoli variabili con AB, rappresentanti gradi di velocità.
- AMP: arco di circonferenza con centro C, che intercetta le parallele tra AB e AE.
- Le proporzioni citate (2547) derivano dalla suddivisione infinita degli intervalli temporali e spaziali.
Temi minori
- Critica all’aristotelismo: l’affermazione «senza geometria è un tentar di fare quello che è impossibile» (2557) contrappone il metodo galileiano alla fisica qualitativa.
- Limiti della materia: la discussione sul contatto sfera-piano (2573–2578) estende la confutazione al realismo ingenuo, sostenendo che «la sfera materiale […] tocca ’l piano materiale in un sol punto» (2577).
Sui principi contrari e il moto naturale: un dialogo sulla coesistenza di forze opposte in un medesimo corpo
La contraddizione apparente tra principi interni e moto preternaturale, con riferimenti a Copernico, all’aria e alla gravità.
Didascalia
Principi opposti in un unico soggetto, moto spontaneo e violento: un confronto tra teoria e osservazione.
Sommario
Il blocco si apre con l’affermazione che „principii contrarii non possono riseder naturalmente nel medesimo suggetto“ (3000), ma il dialogo procede a esaminare casi in cui un corpo sembra muoversi per „principio interno“ (3008) sia verso il basso che verso l’alto, sfidando la premessa iniziale. Si discute il comportamento di una „palla d’artiglieria“ (2998) che, lasciata cadere in un pozzo ipotetico attraverso il centro della Terra, „si condurrebbe al centro“ (2998) per „intrinseca inclinazione“ (2996), ma „continuerebbe di muoversi per lunghissimo spazio“ (3004) oltre tale punto, generando un „moto preternaturale o violento“ (3006). L’esempio viene esteso a una „palla di piombo“ (3010) che, oscillando, „senza interpor quiete trapassa il punto infimo“ (3010) e risale, e a una „palla di legno“ (3011) che, „movendosi da principio interno“ (3011), „continua la sua scesa“ (3011) in acqua nonostante il moto in tale elemento sia „preternaturale“. Da ciò si deduce che „un mobile può esser mosso, da uno stesso principio interno, di movimenti contrarii“ (3012).
La seconda parte introduce obiezioni su „qual principio dependa questo moto circolare“ (3015), se „da principio interno o esterno“ (3015), scartando ipotesi come l’„aria“ (3018) — „non è l’aria quella che porta seco i mobili“ (3031) — o un „continuum miraculum“ (3016). Si cita „Copernico“ (3025) per sostenere che la „propension naturale“ (3031) dei corpi a seguire la Terra ha „una limitata sfera“ (3031), oltre la quale „cesserebbe tal naturale inclinazione“ (3031). Le argomentazioni si concentrano sulla distinzione tra moto „naturale“ (3006) e „violento“ (3006), con riferimenti a „esperienza“ (3025) e „verità“ (3025) per confutare l’idea che l’aria possa essere la causa univoca del movimento osservato.
La controversia sul moto terrestre: argomenti ex rerum natura e la critica alle “dignità” aristoteliche
Un confronto serrato tra principio di economia naturale, struttura corporea e meccanica celeste, dove la semplicità della Terra sferica si scontra con la presunta necessità di articolazioni per movimenti multipli.
Sommario
Il blocco delinea una disputa teorica sul moto della Terra, articolata attorno a tre “dignità” aristoteliche invocate per negare la possibilità che un corpo semplice — quale la Terra — possa muoversi di «tre moti grandemente diversi» (3262). La prima dignità impone che «ogni effetto depende da qualche causa» (3262), escludendo che un principio indistinto generi effetti multipli; la seconda vieta che «il movente e quello che è mosso siano totalmente l’istessa cosa» (3262), mentre la terza stabilisce che «uno, in quanto uno, produce una cosa sola» (3263), richiamando la diversità degli organi sensoriali come prova. Da ciò deriva l’argomento centrale: «un corpo semplice […] non si potrà di sua natura muover insieme di tre movimenti» (3264), a meno di ammettere «tre principii di moti naturali» (3265) che negherebbero la sua semplicità.
L’obiezione si estende alla «quarta dignità»: «la natura non manca, nè soprabbonda, nelle cose necessarie» (3271). Gli animali, dotati di «flessure» (3272) per «muoversi di molti movimenti» (3272), servono da modello: se la Terra, «corpo uno e continuo, senza essere snodato» (3273), potesse muoversi senza articolazioni, le flessure animali sarebbero «indarno» (3273) — contraddicendo il principio di economia. La replica copernicana (3268) rovescia l’analogia: «da un sol principio derivare nella Terra diversi movimenti», come avviene negli animali «con istrumenti diversi» (3261). La sfera terrestre, «la più bella articolazione» (3296), non richiede snodi per «moti circolari» (3282) del tutto, non di parti. L’errore dell’avversario (3303) sta nel fraintendere i moti copernicani — «amendue verso le medesime parti» (3305) — scambiando «contrarii» (3309) per «concordi» (3311).
Temi minori emergono nella distinzione tra «moti secondarii» (3286) degli animali (corsa, salto) e «moti primi» (3287) delle articolazioni, tutti riducibili a «circolari» (3281). La sfida finale (3295) chiede come «accomodar le flessure» per tre moti terrestri, mentre la risposta (3296) ribadisce che «un principio solo» basta, purché «la semplice figura sferica» (3296) ne sia lo «strumento».
La controversia sul moto terrestre e le stelle nuove: tra autorità aristotelica e confutazioni astronomiche
Un dibattito tra dottrina peripatetica e osservazioni celesti, dove la reputazione degli intellettuali si scontra con l’evidenza empirica e la retorica.
Il blocco di testo si concentra su una disputa scientifica e filosofica che oppone la tradizione aristotelica alle tesi copernicane e alle osservazioni astronomiche moderne. Emergono due temi centrali: la critica al metodo di Aristotele, definito da Sagredo come non persuasivo («mi ricordo ancora che quando studiavo filosofia, non restai persuaso della dimostrazione d’Aristotile, anzi che avevo molte esperienze in contrario»), e la confutazione delle argomentazioni di un autore non nominato — probabilmente Lorenzini — che nega il moto annuo della Terra e la collocazione sopralunare delle “stelle nuove”. Salviati smaschera l’inconsistenza dei calcoli dell’avversario, i quali, pur basandosi su «dodici dimostrazioni, fondate sopra le osservazioni di dodici astronomi», falliscono nel dimostrare la tesi peripatetica dell’immutabilità celeste. La discussione rivela inoltre una tensione tra la minoranza degli «intelligenti» — che riconoscono gli errori ma tacciono per disprezzo o pragmatismo («per gl’intendenti non ce n’è bisogno, e per quelli che non intendono è fatica buttata via») — e la maggioranza che «se ne va presa alle grida», esaltando acriticamente chi «ha saputo sostener la peripatetica inalterabilità del cielo» contro gli astronomi. Si delinea così un conflitto tra autorità accademica, reputazione pubblica e rigore scientifico, dove il «silenzio» degli esperti rischia di «dar da ridere a gli oltramontani» e di alimentare «sciocchezze» prive di fondamento.
Il passaggio include anche una riflessione metodologica: Salviati critica la «lontananza» dell’autore avverso dal «poter concluder nulla», evidenziando come «pochissime parole bastano a confutar tutta quest’opera, benchè construtta con tanti e tanti laboriosi calcoli». La struttura argomentativa si articola attorno a domande retoriche («come potete voi in sì breve tempo aver esaminato tutto cotesto libro?») e a paradossi, come la possibilità che una stella occupi «diversi luoghi» simultaneamente — ipotesi subito respinta da Simplicio («Non è dubbio che bisogna dire che ella fusse in un sol luogo»). Il tono è polemico, con riferimenti alla «petulanzia» degli oppositori di Copernico e alla «infelicità» di chi viene «impugnato da chi non intende nè anco la primaria sua posizione».
La controversia sulla posizione della stella nuova: tra calcoli, errori e pregiudizi astronomici
Un dibattito serrato tra geometria, osservazioni fallaci e la difesa accanita di un sistema celeste immutabile.
Il blocco testuale si concentra sulla disputa scientifica riguardante la posizione della stella nuova (probabilmente la supernova del 1572 in Cassiopea), analizzata attraverso osservazioni astronomiche e calcoli geometrici. Il nucleo della controversia oppone due tesi: quella degli astronomi che collocano la stella sopra la Luna (quindi nel firmamento immutabile), e quella dell’autore (non nominato, ma chiaramente un difensore del sistema aristotelico-tolemaico), che la vuole sottolunare (nella regione elementare, vicina alla Terra), sminuendo le competenze degli avversari con argomenti ad personam e selezioni arbitrarie dei dati.
Il sommario evidenzia: - La metodologia difettosa dell’autore: questi seleziona 12 indagini tra le possibili combinazioni di osservazioni (3569, 3572), scartando quelle sfavorevoli che posizionano la stella “sopra le stelle fisse” (3578, 3640). Le sue conclusioni, basate su differenze di parallasse (3568, 3611), sono contraddette dalla variabilità dei risultati: alcune indagini collocano la stella a “manco di 3 semidiametri terrestri” (3569), altre a “più di 25” (3569), altre ancora a “circa 4 semidiametri” (3575), senza coerenza. L’autore accusa di “crassa ignoranza” (3559) gli astronomi avversari, ma i suoi calcoli rivelano errori strumentali (3606, 3670) e incoerenze (3630) che invalidano la sua tesi. - La manipolazione dei dati: l’autore scarta le osservazioni che collocano la stella “per infinito intervallo superiore al firmamento” (3651), definendole “errate” (3583), mentre accetta quelle che la pongono “vicina alla Terra” (3652). Tuttavia, come dimostra Salviati, “minimissimi errori” (3671) nelle misurazioni (anche di “un sol minuto” – 3670) possono alterare drasticamente i risultati, rendendo “impossibile” (3622) una posizione sublunare. Le correzioni richieste per allineare le indagini dell’autore a una distanza coerente (ad es. “32 semidiametri”) sono “sproporzionate” (3791-3810), mentre quelle per collocare la stella nel firmamento sono “minime” (3743-3745). - Le obiezioni geometriche e astronomiche: - La parallasse (3611, 3623) – ovvero lo spostamento apparente della stella osservata da punti diversi della Terra – dovrebbe essere “insensibile” (3611) se la stella fosse nel firmamento, ma “notabile” (3612) se sottolunare. Tuttavia, gli errori strumentali (3607, 3673) e la “piccolezza della Terra rispetto al firmamento” (3600) rendono i calcoli dell’autore “inattendibili” (3629). - Le distanze polari (3852-3878): tutte le osservazioni mostrano che la stella manteneva “poco differente” (3856) la distanza dal polo celeste quando era nel punto più basso o più alto del suo percorso, il che “indubitabilmente” (3845) ne prova la lontananza. L’autore tenta di spiegare queste discrepanze con “le refrazioni atmosferiche” (3881), ma tale effetto è “scarsissimo” (3882) e non giustifica errori di “cento minuti” (3894). - La fissità rispetto alle stelle vicine (3886-3896): la stella nuova manteneva “perpetuamente le medesime distanze” (3845) dall’undecima di Cassiopea, il che ne conferma la natura celeste. L’autore obietta che gli strumenti (come il sestante – 3890) potrebbero aver introdotto errori, ma tale argomento è “infelice” (3889) e “ridicolo” (3891), poiché gli astronomi usavano metodi consolidati per evitare distorsioni. - Le implicazioni filosofiche: la disputa non è solo tecnica, ma toccherebbe la “inalterabilità del cielo peripatetico” (3587). L’autore, accusato di “compiacenza” (3620) verso i peripatetici, “dissimula” (3669) le incongruenze pur di difendere un sistema che “non regge” (3899) di fronte ai dati. Le sue “debolissime scuse” (3880) – come l’appeal alle refrazioni o agli errori strumentali – sono “fili di ragnatela” (3881) che non reggono al confronto con le “osservazioni semplicissime” (3845) degli astronomi avversari.
Note
- Le citazioni in corsivo tra virgolette sono tratte testualmente dalle frasi fornite, tradotte in italiano dove necessario.
- I riferimenti numerici (es. “3 semidiametri” – 3569) rimandano agli identificativi delle frasi originali.
- Il blocco omogeneo si chiude con la transizione verso un nuovo tema (3900): il movimento annuo del Sole, segnalando la struttura dialogica del testo (interventi di Salviati, Sagredo, Simplicio).
Errori, discrepanze e correzioni nei calcoli astronomici: tra autografi, edizioni e osservazioni copernicane
Le inesattezze nei manoscritti di Galileo e nelle Revolutiones di Copernico, tra valori angolari, seni, corde e frazioni, rivelano scarti sistematici tra teoria e pratica. Le correzioni proposte — spesso impossibili da applicare per fedeltà filologica — mettono in luce come „l’errore non è di penna, ma devesi attribuire a inavvertenza o inesattezza dell’autore“ (4043), influenzando „l’ulteriore svolgimento del calcolo“. Emergono difformità ricorrenti: „43235 si legge anche nell’autografo; ma il seno è per la verità 43234“ (4046), „all’angolo BDC […] corrisponde veramente il seno 36623“ (4047), „il denominatore della frazione dovrebbe essere 300000, e non 100000“ (4048). Le tavole manoscritte, talora lacunose („mancano oggi la tavola delle correzioni delle parallassi“ — 4053), e le varianti lessicali („in luogo di 154° […] dovrebbe correggersi“ — 4037) documentano un lavoro in divenire, dove „con le cifre che si leggono […] non riesce poi esatto il totale 216“ (4070).
Il confronto tra „autografo come l’edizione originale“ (4037, 4044, 4045) diventa strumento critico per ricostruire intenti e limiti: „Galileo corresse di suo proprio pugno“ (4078) alcune sviste, mentre altre — „la corda BD […] è veramente 17257“ (4052) — restano irrisolte. Le obiezioni al sistema copernicano, evocate attraverso „Marte […] Venere“ (4081-4083), servono da contraltare teorico: „le due prime [difficoltà] non solamente non contrariano al sistema Copernicano, ma grandemente […] lo favoriscono“ (4087), pur nella „differenza […] quasi impercettibile“ (4082) delle grandezze apparenti. Il blocco unisce così filologia e astronomia, dove „l’ordine“ (4084) dei calcoli e „la struttura dell’universo“ (4085) si intrecciano in un dialogo tra dati grezzi e interpretazione.
Le Lune di Giove e la rivoluzione copernicana: apparenze celesti, moti reali e l’ordine nascosto del cosmo
Dalle anomalie tolemaiche alla semplicità elio-centrica: come il moto terrestre spiega retrogradazioni, falcature e l’equilibrio dei cieli.
Sommario
Il blocco si apre con una domanda sulle “quattro Lune around Jupiter” (4135-4137), definite “stelle Medicee” che, “tenebrose” e illuminate dal Sole, mostrano “l’emisferio che riguarda verso il Sole” e si “mostrerebbero falcate” a un osservatore gioviano, proprio come la Luna per i terrestri. Queste osservazioni, “mirabilmente” coerenti con il “sistema Copernicano” (4139), servono a dimostrare che “non la Terra, ma il Sole, sia nel centro delle conversioni de i pianeti” (4140), confutando la centralità tolemaica attraverso “tre corde” apparentemente dissonanti: i satelliti gioviali, le eclissi e la luce riflessa.
Il dialogo si sposta poi sulle “esorbitanze” del sistema tolemaico (4142-4156), dove “un corpo naturalmente mobile in giro si muova irregolarmente sopra il proprio centro” (4150) e i pianeti richiedono “grandissimi epicicli” (4154) per giustificare “stazioni, regressi e direzioni” (4158). Copernico, al contrario, “toglie via” queste complicazioni con “un semplicissimo moto della Terra” (4156), riducendo i movimenti celesti a “revoluzion celesti per un sol verso” (4152) ed eliminando “membra sproporzionatissime” (4144). La “conversione annua” terrestre (4163) diventa così la chiave per spiegare le “inegualità di moto” apparenti (4161), come dimostrato dalla geometria degli archi percorsi da Giove e Terra (4164-4168): “tutta la sua apparente retrogradazione” (4168) dipende dalla prospettiva, non da “moti difformi”.
Infine, il Sole stesso “testifica” (4173) a favore del sistema elio-centrico, mentre le “stazioni” di Venere e Mercurio (4170) trovano spiegazione nel “moto annuo di essa Terra” (4172), che “levandole via tutte” le anomalie “riduce a moti equabili e regolari” (4172) ciò che in Tolomeo era “mostro ed una chimera” (4144). La semplicità copernicana non è solo un’ipotesi, ma una “congettura” (4162) resa necessaria dall’evidenza: “se con assunti falsi […] si potevan salvar le apparenze celesti, molto meglio ciò si sarebbe potuto ottenere dalle vere supposizioni” (4145).
Il conflitto tra ragionamento umano e autorità: obiezioni al copernicanesimo e la difesa della neutralità
Tra scetticismo, ironia e calcoli errati: quando la controversia astronomica si fa specchio di limiti umani e pregiudizi.
Il blocco delinea un dibattito serrato sul sistema copernicano, dove la neutralità dichiarata da alcuni si scontra con l’evidenza delle argomentazioni naturali e con la derisione di chi nega la teoria elio-centrica. Il testo si apre con un invito alla prudenza: „me ne starò neutrale, con isperanza però che sia per venir tempo che […] ci debba essere svelata la mente, e tolta via quella caligine che ora ce la tiene offuscata“ (4231), posizione che altri definiscono „ottimo e santo […] derivando dalla somma sapienza e suprema autorità“ (4233). Tuttavia, la discussione si sposta presto sulle „due conietture“ (4234) che, basate su „stazioni e retrogradazioni de i cinque pianeti“ e „stravaganze de i movimenti delle macchie solari“, vengono presentate come prove schiaccianti a favore del moto terrestre, tanto da far concludere che „impossibil cosa è che […] le ragioni addotte per la parte vera non si manifestino altrettanto concludenti“ (4236).
Emergono poi le obiezioni ironiche e i „solennissime sciocchezze“ (4248) attribuite ai copernicani — come l’idea che „il Sole, Venere e Mercurio son sotto alla Terra“ o che „Cristo […] salì a gli inferi e scese in cielo“ (4248) — mescolate a „luoghi della Sacra Scrittura“ (4250) in modo „scurrile“. La risposta sottolinea l’incoerenza di chi „per ischerzo e da burla filosofando, non afferma nè nega“ (4250), mentre si smascherano gli errori logici degli avversari, come la „fallacia“ (4260) di calcolare „che una stella fissa sia maggiore di tutto l’orbe magno“ (4258) basandosi su „ipotesi falsissime“ (4261). Il nucleo della controversia sta nel „movimento annuo della Terra“ (4262), la cui „insensibilità“ apparente nelle stelle fisse viene fraintesa per negarne la validità, quando in realtà „basta per far che in esse non apparisca notabile“ (4264) a causa della loro distanza. La polemica rivela così tanto un „cattivo principio“ (4245) metodologico quanto la difficoltà di „penetrare al discorso umano“ (4234) senza pregiudizi.
L’arroganza umana e l’incommensurabilità del cosmo: tra finalismo antropocentrico e relatività delle grandezze
Quando la presunzione di misurare l’universo con la propria ragione diventa vana temerità.
Sommario
Il blocco affronta la critica al finalismo antropocentrico che riduce il cosmo a un sistema creato esclusivamente per l’utile umano, come espresso dalla domanda retorica «a che fine interpor di poi tra l’orbe supremo di Saturno e la sfera stellata uno spazio vastissimo senza stella alcuna, superfluo e vano?» (4336). La risposta si articola in una confutazione della presunzione umana, che «chiamar vano o superfluo tutto quello dell’universo che non serve per noi» (4343) rivela solo l’incapacità di comprendere disegni più ampi: «non sappiamo che serva per noi» (4345), come ricorda Sagredo, evidenziando l’ignoranza che scambia per inutilità ciò che sfugge alla percezione immediata. L’argomento si estende alla relatività delle grandezze — «grande, piccolo, immenso, minimo […] son termini non assoluti, ma relativi» (4355) — e alla vanità di giudicare «troppo vasta» (4357) la sfera stellata solo perché eccede la scala umana, come dimostra il paragone con gli elefanti o le balene, «chimere» se misurati sulle formiche.
Emergono temi minori: la critica all’ipocrisia di chi nega l’operato divino nelle stelle lontane ma lo ammette per quelle visibili («contradicendo a voi medesimo» (4377)); la confutazione dell’argomento ottico («Che gli oggetti lontani appariscano piccoli, è difetto dell’occhio» (4382)), che smaschera l’antropomorfismo di chi «non sa che questo viene dallo strumento che noi adoperiamo» (4384); infine, l’invito a indagare empiricamente il moto annuo della Terra, «cosa che assolutamente credo non esser sin ora stata fatta da alcuno» (4391), invece di affidarsi a «ragioni probabili» (4372) che si rivelano «fallacie, anzi ombre di vane immaginazioni» (4374). La chiusura ironizza sulla «inveterata impressione» (4400) che porta a credere che 60 migliaia di miglia debbano alterare l’altezza polare come 60 miglia, esponendo l’incoerenza di chi misura l’infinito con parametri terrestri.
Sulla percezione del moto terrestre e le apparenze stellari: confutazioni, geometrie e limiti dell’osservazione
Dibattito tra argomenti astronomici, obiezioni ottiche e proposte metodologiche per rilevare le parallassi delle stelle fisse.
Sommario
Il blocco si articola attorno a due nuclei: la difesa dalla simulazione in una disputa logica («“non è vero ch’io abbia simulato di non intender la nullità di quella instanza”»; «“la confessione stessa d’intenderla può assicurarvi ch’io non simulavo”») e l’analisi geometrica delle parallassi stellari come prova indiretta del moto annuo terrestre. La discussione si sposta dalla negazione di un’accusa personale («“quando io avessi voluto simulare, chi potria tenermi ch’io non continuassi nella medesima simulazione?”») a una dimostrazione tecnica: le stelle, a differenza dei pianeti, «“non si veggono variare lor movimenti”» perché «“sopra la sfera stellata non ve n’è altra immensamente più remota”», ma la loro apparente immobilità potrebbe dipendere dalla distanza («“non credo che le stelle siano sparse in una sferica superficie, egualmente distanti da un centro”»).
Vengono poi descritte tre tipologie di variazione osservabile: 1. Differenze di elevazione meridiana («“la stella E dall’eclittica […] varierà bene elevazione”»), massime nei poli dell’eclittica e nulle nell’eclittica stessa («“la diversità di apparenza […] è maggiore e minore secondo che le stelle […] sono più o meno vicine al polo”»). 2. Variazioni di grandezza apparente, «“insensibile e quasi nullo”» nei poli, «“massimo nelle stelle poste in essa eclittica”» («“la Terra si accosta ed allontana dalle fisse […] per quanto è tutto il diametro dell’orbe magno”»). 3. Dipendenza dalla distanza stellare: «“maggior diversità fanno le stelle più vicine che le più remote”» («“nelle estremamente lontane [le diversità] svanirebbero”»).
Le obiezioni pratiche («“come potremo noi già mai costituirci in sicurezza?”») portano a una critica degli strumenti astronomici («“di quanto poco sia da fidarsi di tali osservazioni”»), cui si oppone la proposta di usare «“strumenti […] il lato de’ quali sia di 4, 6, 20, 30 e 50 miglia”» (es. montagne come riferimenti naturali). Si chiude con un esempio concreto: l’osservazione del Sole al solstizio tramite una rupe lontana 60 miglia, dove «“un minuto secondo nell’orizonte”» diventa rilevabile con un telescopio.
Note
Riferimenti testuali diretti
Frasi citate e tradotte (dove necessario): - «“Stazione, direzione e retrogradazione de i pianeti si conosce in relazione alle stelle fìsse”» → «La stazione, la direzione e la retrogradazione dei pianeti si conosce in relazione alle stelle fisse». - «“Indizio nelle stelle fisse, simile a quel che si vede ne’ pianeti”» → «Un indizio nelle stelle fisse, simile a ciò che si osserva nei pianeti». - «“Ne gli oggetti molto lontani e luminosi un piccolo avvicinamento o discostamento è impercettibile”» → «Negli oggetti molto lontani e luminosi, un piccolo avvicinamento o allontanamento è impercettibile». - «“Strumenti di Ticone fatti con grandi spese”» → «Strumenti di Tycho [Brahe] realizzati con grandi spese». - «“Esquisita osservazione dell’arrivo e partita del Sole dal solstizio estivo”» → «Osservazione precisa dell’arrivo e della partenza del Sole dal solstizio estivo». - «“Luogo accomodato per l’osservazione delle fisse in quanto appartiene al moto annuo della Terra”» → «Luogo adatto per osservare le stelle fisse in relazione al moto annuo terrestre».
Temi minori emersi
- Limiti della percezione umana: l’esempio della torcia («“un lume in una tal lontananza […] non sapermi risolvere se e’ veniva verso me”») e il confronto con Saturno/Giove («“nella stella di Saturno [la variazione] è quasi totalmente impercettibile”»).
- Storia della strumentazione: citazione di Tolomeo («“diffidenza di un strumento armillare fabbricato dall’istesso Archimede”») e riferimento a Tycho Brahe.
- Metodologia proposta: uso di «“strumenti”» naturali (montagne, chiesette) per misurare angoli minimi («“un grado sia largo un miglio”»).
La geometria del moto terrestre: equinozi, solstizi e l’inclinazione fissa dell’asse
Dall’illuminazione disuguale dei paralleli alla simmetria dei movimenti celesti: come due soli principi spiegano stagioni, giorni e notti.
Il blocco descrive la meccanica del sistema copernicano attraverso l’analisi geometrica dell’illuminazione solare sulla Terra, l’inclinazione costante del suo asse e i due moti fondamentali (annuo e diurno). Si parte dalla definizione del «cerchio terminator della luce» (4535), che divide l’emisfero illuminato da quello in ombra, per spiegare come la rotazione terrestre e l’inclinazione fissa dell’asse — «declinante dall’angolo retto gradi 23 e mezo» (4543) — determinino la durata variabile di giorni e notti ai diversi paralleli. Nei solstizi, i cerchi polari «restano interi nella luce» o «nelle tenebre» (4549), mentre agli equinozi il «terminator della luce […] passa per i poli» (4554), dividendo tutti i paralleli in «parti eguali». La costanza dell’inclinazione assiale — «il conservar l’asse della Terra la medesima direzione verso l’universo» (4552) — genera l’«accidente maraviglioso» per cui il Sole sembra muoversi tra i tropici («gradi 47»), mentre le stelle fisse mantengono posizioni apparentemente immutate. Il testo chiude contrapponendo la «semplicità» del modello elio-centrico alla «multiplicità confusione e difficultà» (4561) del sistema tolemaico, evidenziando come «due semplicissimi movimenti» (4558) — entrambi da occidente a oriente — rendano conto di fenomeni altrimenti inspiegabili senza «attribuire ad una sfera vastissima […] una celerità incomprensibile» (4558).
La discussione si estende a temi minori: la compatibilità dei moti terrestri («fatti […] tra sé non contrarianti» (4558)), l’obiettivo polemico contro gli «assiomi comunemente ricevuti» (4561) della filosofia naturale aristotelica, e la difesa della geometria come strumento essenziale per «scoprir le fallacie» (4567) dei detrattori. Le citazioni dai dialoghi galileiani («Io confesso non aver sentita cosa più ammirabile» (4562); «Queste […] mi paiono di quelle sottigliezze geometriche» (4565)) sottolineano il contrasto tra l’evidenza matematica e il pregiudizio filosofico, senza però approfondire le argomentazioni anti-copernicane, che restano accennate come «instabili fondamenti» (4570).
La natura del globo terrestre: tra terra superficiale e calamita nascosta
Indagine sulla composizione interna della Terra e confronto con le proprietà magnetiche
Il sommario delinea un dibattito sulla costituzione del globo terrestre, dove si contrappongono due visioni: quella di una terra superficiale e fertile, limitata a uno strato esterno, e quella di un nucleo interno compatto e dalle proprietà magnetiche. Si parte dalla domanda su quale materia prevalga nella “gran massa” del pianeta, escludendo “gioie ed ornamenti esteriori” come “pietre, marmi, metalli, gemme” (4607) a favore di una “materia principale”. La terra coltivabile, “che si rompe con le vanghe” e “è fruttifera” (4614), viene scartata come “parte sottile della superficie” (4618), incapace di estendersi in profondità, dove invece si trovano “materie diverse assai da questa esterior corteccia, più sode e non buone alle produzioni” (4618). L’ipotesi alternativa propone un “corpo densissimo e solidissimo”, paragonabile a “durissima pietra” (4625), con particolare attenzione alla calamita: le sue “proprietà multiplici” (4634) — come l’“attrarre il ferro”, la “virtù di conferire all’ago magnetico” orientamento e declinazione (4634), e la “forza notabilmente più gagliarda” verso i poli (4635) — diventano argomenti per sostenere che “sotto questa coverta […] si nasconde una gran calamita” (4642). La discussione si chiude con esempi pratici, come la “calamita armata” che “sostiene assaissimo più ferro che disarmata” (4645), a dimostrazione di “maraviglie” (4649) ancora da spiegare.
Emergono temi minori: la critica al “nome arbitrario” (4632) che associa il pianeta alla “terra” coltivabile, l’analogia tra “piccol pezzetto di calamita” e “grande globo” (4643) per spiegare fenomeni magnetici su scala planetaria, e il riferimento al “libro del Gilberto” (4633) come autorità scientifica. La fecondità delle parti superficiali viene contrapposta all’“inutilità” delle profondità, “eternamente sepolte” (4619), mentre si sottolinea come “nessuna [proprietà] compete a veruna altra materia” (4636) se non alla calamita. La conclusione invita a “dir risolutamente” (4642) che la Terra è una calamita, basandosi su “accidenti” osservabili e riproducibili.
La natura porosa della calamita e i suoi moti: tra osservazione empirica e confutazione aristotelica
Dalle macchie lustre alla critica dei principi peripatetici: un’indagine su struttura, attrazione e movimento nel magnetismo.
Il blocco esamina la composizione fisica della calamita, descrivendola come un materiale «porosa o […] spugnosa», le cui cavità ospitano «pietra durissima e grave» invece di aria o acqua. L’osservazione empirica rivela che solo «gran copia [di limatura] saltava alla calamita, ma nè pure una sola stilla alle dette macchie», dimostrando che l’attrazione magnetica dipende dalla «sustanza» vera e propria, non dalle inclusioni estranee. L’efficacia dell’attacco tra ferro e calamita è poi attribuita alla «spianatura esatta» delle superfici, che moltiplica «i contatti […] di innumerabili minime particelle», confutando implicitamente le teorie di Gilbert. Il discorso si allarga ai moti naturali della calamita — «tre movimenti» distinti: verso il centro terrestre (gravità), allineamento dell’asse con parti fisse dell’universo, e inclinazione variabile secondo la latitudine — per smontare l’assioma aristotelico che limita i corpi semplici a un «solo e semplice movimento». La critica si radicalizza quando si evidenzia che la calamita, pur definita «misto» dai peripatetici, esibisce moti circolari «impossibile a comporsi» dai «due moti retti» (verticali) degli elementi, costringendo a ipotizzare una «sustanza celeste» tra i suoi componenti. Il paradosso culmina nella denuncia di una «fallacia» concettuale: se il globo terrestre — «centomila volte più composto» — viene considerato «corpo semplice», mentre la calamita, sua parte integrante, è classificata come «misto», si rivela l’incoerenza di una dottrina che «concede a i misti moto composto» ma nega alla Terra il movimento circolare, pur osservandolo nella calamita.
Il testo sfiora anche temi minori: la satira dei «termini usati dai filosofi» come «simpatia» e «antipatia», bollati come espedienti retorici per «render ragioni […] senza maraviglia» di fenomeni ignoti, paragonati a un pittore che «sopra la tela scriveva con gesso» i soggetti da dipingere, delegando l’esecuzione ad altri. La digressione si chiude con un dubbio sul «quarto moto» ipotizzato da Gilbert — la rotazione della calamita sul proprio asse — giudicato «arbitrario» e privo di «ragione alcuna», poiché ridondante rispetto al moto terrestre già condiviso.
Le correzioni galileiane: tra autografo e stampa, la disputa sulla stella nova
Dall’errore osservativo alla revisione testuale: come Galileo ridimensiona le distanze celesti
Il blocco documenta il processo di revisione con cui Galileo emenda le stime sulla posizione della stella nova, contestando le valutazioni eccessive di altri astronomi. Le frasi rivelano un confronto serrato tra le versioni autografe e quelle a stampa, con cancellature, varianti lessicali e correzioni numeriche che riflettono un lavoro meticoloso di “ritirare ed abbassare la stella” da una “lontananza impossibile” a una “non impossibile”. Emergono due temi minori: la critica agli “eccessi o mancanze di gradi o minuti presi con errore nell’osservare”, attribuiti a “tanti astronomi” che “hanno, nell’osservare, più presto errato di poco che di molto”, e la tensione tra precisione matematica e autorità scientifica, evidenti nelle discrepanze tra “la stampa” e “l’autografo” (es. “la massima, la minima mancano in Gr.”, “l’edizione originale ha 36.34; ma l’autografo, 76.34”).
Il sommario si concentra sulle operazioni testuali e concettuali: Galileo scrive, cancella e riscrive per “emendando tutte l’osservazioni” e “moderar quelli eccessi”, mentre le note marginali e le varianti rivelano un dibattito implicito su metodi e strumenti (“strumento farà divenir la distanza della stella infinita”). Le citazioni dirette — come “Cominciando dunque a lavorare, già chiara cosa è che tutte le indagini […] errano nel porla troppo alta” o “con questi miserandi sutterfugii, che non lo possano sollevare di un centesimo di un minuto” — mostrano sia la dimensione tecnica (calcoli, semidiametri, parallassi) sia quella retorica, con attacchi agli avversari e giustificazioni delle proprie scelte. La “fatica” di “risolver la comune misura” senza “tedio nell’operare” diventa metafora di un conflitto più ampio tra evidenza empirica e teorie consolidate, dove persino i dettagli tipografici (“la stampa legge dell’esito; l’autografo, dall’esito”) assumono valore argomentativo.
Il moto terrestre e le obiezioni del pozzo: tra apparenti paradossi e geometria celeste
Confutazione delle argomentazioni contro la rotazione della Terra mediante l’analisi del comportamento dei corpi in movimento relativo, con particolare attenzione al caso del pozzo e alla visibilità delle stelle.
Il blocco affronta le obiezioni sollevate contro l’ipotesi elio- e geocentrica, concentrandosi su due istanze: il presunto spostamento delle montagne dovuto alla rotazione terrestre e il paradosso della stella che „trapassa“ la bocca di un pozzo. I dialoganti smontano l’analogia tra „portare il monte sopra la superficie della Terra“ e „condurre una nave per la superficie del mare“, evidenziando come „non si può caminare col capo all’ingiù“ sia una falsità percepita da chi „da concetti veri […] non sanno poi dedur soluzioni facilissime“. L’errore sta nel confondere il moto relativo con quello assoluto: „per andare nel vertice di detti monti, de facto conviene sciendere“ se si assume la Terra in rotazione, ma „gli antipodi nostri […] tengono le piante de’ piedi verso ’l centro della Terra“ esattamente come „noi“.
La seconda parte si sofferma sull’osservazione di una stella attraverso un pozzo, dove la „nebbia“ concettuale nasce dall’omissione di „una distinzione“ cruciale: la profondità del pozzo, non la sua „larghezza“, determina il „tempo di tal passaggio“. „La parte del cielo veduta“ varia con la posizione dell’osservatore, e „quanto più si allontanerà l’occhio dalla bocca del pozzo, minor parte del cielo si scoprirà“, fino a che „posto l’occhio nel piano della bocca“, la stella impiega „12 ore“ per attraversare il campo visivo. L’equivoco persiste finché non si comprende che „la bocca del pozzo dà perpetuamente il transito“ alla vista, ma „la quantità del cielo immobile“ visibile è ciò che „misura il tempo dell’apparizion“. La discussione rivela come „l’inveterato concetto“ di immobilità terrestre generi „confusione“ anche in „subblimi ingegni“, spingendo a „rimuover tutte le obbiezzioni, ancor che debolissime“.
Delle maree e dei moti dell’acqua: causa, effetti e confutazione delle ipotesi tradizionali
Come il moto terrestre spiega i fenomeni delle maree, tra osservazioni empiriche e confutazione delle teorie aristoteliche e lunari.
Il blocco analizza il fenomeno delle maree come conseguenza diretta del moto combinato della Terra (annuo e diurno), dimostrando come tale spiegazione sia l’unica coerente con le osservazioni empiriche. Vengono smontate le teorie alternative — attribuite alla Luna, al calore lunare, alle profondità marine o a presunte qualità occulte — attraverso argomenti fisici, esperimenti mentali e confutazioni logiche. Il testo descrive tre diversità fondamentali nei movimenti delle acque („in alcuni luoghi le acque si alzano ed abbassano, senza far moto progressivo; in altri […] si muovono or verso levante ed or ricorrono verso ponente“), collegandole alla difformità del moto dei “vasi” contenenti (i bacini marini) dovuta alla composizione dei moti terrestri. Si evidenzia come l’accelerazione e il ritardamento di tali vasi — impossibili da replicare in un sistema geocentrico immobile — producano alzamenti, abbassamenti e correnti con periodicità diurna, mensile e annuale, variabili a seconda di lunghezza, profondità e orientamento dei bacini.
Il sommario sottolinea: - La causa primaria delle maree è il moto non uniforme delle parti della Terra, derivante dalla composizione del moto annuo (elittico) e diurno (rotazionale). Questo provoca differenze di velocità tra le estremità dei bacini („quando l’una delle sue estremità si trova avere […] moto velocissimo, l’altra […] ritardato“), generando spostamenti d’acqua. - Le teorie alternative (Luna, calore, profondità) sono fisicamente inconsistenti: ad esempio, „se l’acqua qui [Venezia] si alza per effetto lunare, perché non accade lo stesso ad Ancona o Napoli?“. Si dimostra inoltre l’impossibilità di replicare artificialmente il fenomeno senza muovere il contenitore, mentre „co ’l far muovere il vaso […] si può rappresentar puntualmente tutte quelle mutazioni“. - Gli effetti secondari (correnti negli stretti, variazioni mensili/annue) dipendono da fattori geometrici (forma dei bacini, profondità) e dinamici (inerzia dell’acqua, venti). Le maree massime si verificano „negli estremi dei golfi“ (es. Venezia), mentre le correnti più violente negli stretti (es. Messina), dove „tutta l’acqua […] deve […] ristrignersi in minor canale“. - La confutazione delle obiezioni (es. vento costante da levante, aria non trascinata) si basa su evidenze empiriche: „negli ampi mari […] si sente una perpetua aura muovere da oriente“ (alisei), compatibile solo con la rotazione terrestre, mentre „l’aria, come corpo tenue […] è inettissima a conservare il moto“ se non trascinata meccanicamente. - Il periodo di 6 ore (anziché 12) deriva dalla sovrapposizione di cause secondarie (librazioni dell’acqua, profondità) alla causa primaria, mentre le variazioni mensili/annue sono legate a cambiamenti nell’orbita terrestre che alterano la proporzione tra moti diurno e annuo.
Citazioni chiave: - „«L’acque […] senza muover il vaso del Mediterraneo, e far che l’acqua […] faccia questo che fa, supera la mia immaginazione»“ (4928). - „«Quello che fa la barca rispetto all’acqua […] è l’istesso […] che quel che fa il vaso Mediterraneo rispetto l’acque»“ (4992). - „«Gli effetti naturali e veri seguono senza difficult໓ (4981). - „«Non si può dir altro […] se non che la Luna […] ha possanza di conferirla a quel grado del zodiaco che gli è opposto»“ (4931, confutata). - „«L’aria […] è inettissima a conservare il moto, cessante il motore»“ (5060).