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Dreyer - History of the Planetary System - Dettagli (23m)


1. La cosmologia egizia: il fiume celeste, il sole e l’ordine del mondo

Il cielo come un sistema idraulico divino, dove montagne sostengono la volta e un fiume nascosto regola il ciclo di sole, luna e stelle.


Il testo descrive una visione cosmologica in cui il mondo è sorretto da “quattro picchi montuosi ai punti cardinali, uniti da una catena ininterrotta” (116), mentre un “grande fiume scorre su una mensola sotto le cime” (117), invisibile a nord e avvolto nell’“eterna notte” della valle di Dait. Da questo fiume — identificato come l’“Ur-nes” — si diparte il Nilo (118), e sulle sue acque viaggia la “barca di fuoco” del dio sole Ra, che “nasce ogni mattina, cresce fino a mezzogiorno, poi cambia imbarcazione” (119) per attraversare le “dodici regioni dell’aldilà” (120) durante la notte. Il percorso di Ra è minacciato da un “serpente gigante” che “causa eclissi” (121), mentre la sua traiettoria varia con le stagioni: “in estate si avvicina all’Egitto, in inverno se ne allontana” (122), seguendo il livello delle acque del fiume celeste (123-124).

Parallelamente, la luna — “l’occhio sinistro di Horus” (125) — subisce l’attacco di una “scrofa” che “la divora il quindicesimo giorno” (126), causando le fasi lunari e le “eclissi” (127). I pianeti sono “barche guidate da dèi” (129): Giove, Saturno e Mercurio procedono diritti, Marte “naviga all’indietro” (129), mentre Venere ha “doppia identità” (131), come stella del mattino e della sera. La Via Lattea è il “Nilo celeste” (132), fiume che attraversa il regno dei morti governato da Osiride. Il mito delle origini colloca “l’acqua primordiale, Nu” (133) — “avvolta nelle tenebre ma feconda di germi” — come substrato di ogni esistenza, idea “non autoctona” (134) ma “portata da immigrati asiatici” (135) che trasformarono le paludi nilotiche in terra coltivabile.


Note

(1) Il riferimento a Osiride (132) e al “libro Am Duat” (120) suggerisce una stratificazione temporale delle credenze, con testi successivi che dettagliano percorsi notturni del sole inizialmente solo accennati. (2) L’“acqua come origine” (133) contrasta con l’ambiente desertico egizio, ipotizzando un’influenza mesopotamica (135). (3) La “doppia natura di Venere” (131) e il “motore retrogrado di Marte” (129) indicano osservazioni astronomiche precise, pur in una cornice mitologica.


2. La concezione cosmologica di Parmenide: forma sferica della Terra, struttura concentrica dell’universo e limiti della conoscenza sensibile

Frammenti di una visione sistematica tra fisica, astronomia e epistemologia.


Didascalia

Dalla sfera perfetta dell’ente alle zone climatiche: come Parmenide ridefinì la Terra e il cosmo tra osservazioni empiriche e speculazioni metafisiche.


Sommario

Il blocco delinea la teoria cosmologica di Parmenide, incentrata sulla „sfera perfetta“ dell’ente, „equidistante dal centro in ogni punto“, che nega il vuoto e quindi „moto e cambiamento“, riducendo la pluralità fenomenica a un’illusione sensoriale: „l’attingimento della verità è impossibile“ a causa dell’„imperfezione dei sensi“, che proiettano „sembianza di molteplicità“ su un’unità immutabile. L’ente, „perfetto e continuo“, si oppone al non-ente, mentre il mondo empirico viene spiegato attraverso due elementi contrapposti — „fuoco/luce“ (rarefatto) e „terra/notte“ (denso) — analoghi alla dicotomia metafisica. Parmenide attribuisce per primo „forma sferica“ alla Terra, „senza pregiudizi“ e antecedentemente a Platone, basandosi forse su „resoconti di viaggiatori“ che notavano „stelle circumpolari“ visibili oltre l’Eussino o „Canopo“, invisibile in Grecia ma „appena sopra l’orizzonte a Rodi“, e „la diversa durata del giorno“ alle varie latitudini. La scoperta viene ascritta a lui, non a Pitagora, e include la „suddivisione in cinque zone“, con quella torridale „due volte più ampia“ delle successive stime.

La struttura dell’universo si articola in „strati concentrici“ — un modello „destinato a dominare l’astronomia“ — dove „l’estremo Olimpo“, „vault solido“ incatenato dalla „Necessità“, funge da limite alle „orbite stellari“. Seguono „strati misti“ (etere), con „Venere“ (stella del mattino/sera), „Sole e Luna“, „uguali in dimensione“ ma di „natura ignea“, e „altre stelle“ sotto il Sole, „più vicine alla Terra“ (errore già di Anassimandro). La Luna „brilla di luce riflessa“ e „guarda sempre i raggi del Sole“, formata da „materia oscura e fredda“ staccata dalla Via Lattea, mentre le „macchie scure“ ne rivelerebbero la „natura composita“. La Terra, „in equilibrio“ per „mancanza di direzione privilegiata“, occupa il centro, circondata da un „ordine geometrico“ che riflette la „perfezione dell’ente“. Si accenna anche a un possibile „precedente omerico“ (Odissea: „pastori che si incrociano al tramonto e all’alba“), interpretato come „allusione alla variazione diurna“ alle alte latitudini, sebbene „fantasioso“. La „novità“ di Parmenide sta nell’aver „unificato“ osservazione (viaggi, fenomeni celesti) e „principi metafisici“ (sfera, concentricità), „senza ricorrere al numero“ pitagorico o a „sostanze“ materiali, ma fondando il cosmo su „l’ente che è“ e „il non-ente che non è“.


3. La cosmologia di Anaxagora: materia, mente e ordine celeste nel V secolo a.C.

Il secolo che vide Atene al centro della civiltà greca, tra le guerre persiane e la condanna di Socrate, fu anche l’epoca in cui la filosofia si radicò nella polis. Anaxagora di Clazomene, primo pensatore di rilievo ad operare ad Atene, ruppe con le tradizioni ioniche e italiche proponendo un sistema in cui «la mente (voũs)» — principio ordinatore esterno alla materia — «ha prodotto il mondo dal caos originario», anticipando temi platonici e aristotelici. La sua fisica, fondata su «elementi qualitativi infiniti e divisibili all’infinito, senza vuoto», si distanzia sia dagli atomisti che da Empedocle, offrendo una spiegazione meccanica dei fenomeni: la rotazione primigenia separa «etere caldo e leggero» da «aria fredda e pesante», generando per sedimentazione acqua, terra e pietre, mentre «il sole, massa di ferro rovente più grande del Peloponneso», e le stelle — «particelle pietrose strappate dalla terra piatta e rese luminose dall’etere infuocato» — seguono leggi dinamiche in un cosmo sferico dove «la terra, sostenuta dall’aria, si inclina spontaneamente verso sud» per creare climi abitabili.

Il modello anassagoreo unisce osservazione empirica e speculazione: la «caduta di un meteorite a Egospotami (467 a.C.)» lo spinse a ipotizzare la natura metallica del sole, mentre le «fasi lunari» e le «eclissi» trovarono spiegazione nella «luce solare riflessa» e in «corpi oscuri interposti». La disposizione dei pianeti — «luna, sole e poi i cinque erranti» — e la «traiettoria solare ostacolata dall’aria riscaldata» rivelano un tentativo di sistematizzare i moti celesti senza ricorrere a orbite, ma attraverso «resistenze meccaniche» e «frizione dell’etere». Anche la Via Lattea diventa un fenomeno ottico: «l’ombra infinita della terra, proiettata nello spazio, fa apparire più numerose le stelle al suo interno», poiché «la loro luce non è sovrastata dal sole». Le «montagne e valli lunari», la «composizione mista della luna» e l’«inclinazione dell’asse celeste» completano un quadro in cui il cosmo, pur privo di finalismo, obbedisce a un «ordine imposto dal voũs», dove «nulla si muove per forza intrinseca, ma per azione esterna».


4. Il sistema cosmologico pitagorico: tra centralità del fuoco, rotazione terrestre e corpi invisibili

Dall’antichthon alla rotazione assiale: ipotesi audaci e limiti osservativi nella scuola di Pitagora

Il sommario delinea un blocco testuale incentrato sulle speculazioni astronomiche della scuola pitagorica, con particolare attenzione alla teoria del fuoco centrale e alla successiva evoluzione verso l’idea di una Terra in movimento. Le frasi evidenziano come i pitagorici, partendo da presupposti filosofici più che empirici, abbiano ipotizzato un «slow motion of the fixed stars» (1119) per giustificare fenomeni celesti, senza necessariamente conoscere la precessione degli equinozi, attribuita solo successivamente a Ipparco. Si sottolinea che «the Pythagoreans were not afraid to take for granted anything that suited their philosophical ideas, even though these had not received any support from observations» (1124), come dimostrano l’antichthon (un contro-Terra invisibile) e il fuoco centrale, entità «of the existence of which there was absolutely no indication anywhere» (1132). Il sistema, pur «totally erroneous» (1131), viene però riconosciuto come «boldness of conception» (1130) per aver anticipato, seppur in forma embrionale, concetti poi ripresi da Copernico.

Emergono figure chiave come Filolao, Iceta di Siracusa ed Ecfanto, quest’ultimo descritto come colui che «let the earth move [...] in a turning manner like a wheel fitted with an axis» (1163), abbandonando così la teoria del fuoco centrale. Si nota inoltre una tensione tra aderenza ai dogmi originari e adattamenti successivi: alcuni pitagorici «thought it necessary to introduce additional unseen bodies in space» (1166) per spiegare le eclissi lunari, mentre altri, come Simplicio, reinterpretarono le dottrine iniziali per allinearle al geocentrismo dominante. Il blocco si chiude con un riferimento al ruolo ambiguo di Platone, la cui possibile adesione alla rotazione terrestre viene citata da Cicerone come «paulo obscurius» (1156), ossia in forma allusiva e non esplicita. Le fonti, tra cui Ezio, Diogene Laerzio e Teofrasto, mostrano una tradizione frammentaria, spesso contraddittoria, dove «the passage has certainly become corrupted in the course of repeated compilation» (1136).


5. L’asse del Timeo e il malinteso sulla rotazione terrestre: interpretazioni aristoteliche e distorsioni pitagoriche

Plato tra geometria celeste e fraintendimenti dottrinali: l’errata attribuzione di una teoria elio- o geo-centrica, le ambiguità lessicali e le strumentalizzazioni dei pitagorici tardivi.


Sommario

Il blocco analizza la controversia sull’eventuale riferimento platonico alla rotazione terrestre nel Timeo, smontando l’ipotesi che il filosofo abbia anticipato teorie elio- o geo-centriche moderne. L’asse terrestre è descritto come «una linea matematica che unisce i poli» («a mathematical line joining the two poles»), priva di implicazioni dinamiche: «la terra è impaccata attorno all’asse del mondo» («the earth is packed round the axis of the world»), senza che ciò implichi movimento. L’errore interpretativo nasce da una frase aristotelica ambigua, dove «alcuni» («some people») – identificati con pitagorici tardivi – «attribuiscono alla terra un moto rotatorio» («teach a rotary motion of the earth»), citando il Timeo a sostegno di una teoria estranea a Platone. Aristotele, discutendo il sistema di Filolao, «non nomina Platone» («does not begin by referring to Plato by name»), ma si limita a riportare una dottrina altrui, forse «comprimendo in una frase ciò che andava espresso in due» («compressed into one sentence what ought to have been expressed in two»): «avvolta attorno all’asse, come scritto nel Timeo, e mossa attorno a esso» («wound round the axis as is written in the Timæus, and is moved round it»).

La confutazione si articola su più livelli: 1) «Platone non potrebbe aver ignorato che, se terra e sfera celeste ruotassero solidali, il sole e le stelle apparirebbero immobili» («the sun, moon, and stars would never rise or set, but would all appear immovable»); 2) il verbo «εἱλίσσεσθαι» («iWeadai»), tradotto come «avvolgere», non implica rotazione, ma una disposizione statica; 3) «nessun fenomeno osservato» («nothing to account for any observed phenomena») giustificherebbe una teoria platonica del moto terrestre, che «non spiegherebbe nulla» e «sarebbe stata citata da Aristotele se fosse esistita». Le speculazioni successive (Plutarco, Cicerone) che vi leggono un’allusione oscura alla rotazione «secondo Aristarco e Seleuco» («the theory subsequently proposed by Aristarchus and Seleukus») sono anacronistiche: «se Aristotele non avesse menzionato quella sfortunata parola, nessuno avrebbe mai supposto che Platone insegnasse la rotazione terrestre» («if Aristotle had not made that unlucky reference [...] nobody would ever have supposed that Plato taught the rotation of the earth»).

Temi minori includono: a) il ruolo degli «strumenti del tempo» («instruments of time»), dove la terra è accostata alla luna e ad altri corpi «solo come metafora gnomonica» (Plutarco), senza implicazioni astronomiche; b) la «guardiana di notte e giorno» («guardian and artificer of night and day»), attribuzione che «non contraddice una terra stazionaria», poiché «senza la terra non ci sarebbe alternanza di giorno e notte» («if the earth did not exist, there would be no change of day and night»). La conclusione rigetta sia l’ipotesi di «una sfera celeste immobile con terra rotante» sia «la rotazione congiunta di terra e cielo», tesi «impossibile» («simply impossible») per entrambi i filosofi. L’unica «rotazione involontariamente ammessa» da Platone sarebbe un «moto lento e non funzionale», analogo a quello attribuito dagli «adepti di Filolao» alla «sfera delle stelle fisse» per «non escluderla dai corpi erranti» («to enable it to be enrolled among the wandering bodies»).


6. L’Epinomis e il sistema astronomico platonico: tra geocentrismo, elementi cosmici e controversie interpretative

L’eredità astronomica di Platone tra tradizioni pitagoriche, ipotesi cosmologiche e il dibattito sulla paternità dell’Epinomis.


Didascalia

Un’analisi delle dottrine celesti attribuite a Platone e al suo presunto epigono Filippo d’Opunte, con particolare attenzione alla struttura geocentrica del cosmo, alla composizione degli astri e alle dispute sulla rotazione terrestre.


Sommario

Il blocco esamina l’Epinomis, trattato pubblicato postumo da Filippo d’Opunte e tradizionalmente associato al pensiero platonico, pur tra dubbi sulla sua autenticità: „non è probabile che l’Epinomis* sia stato scritto da Platone“ (1640), ma „rappresenta idee platoniche in tutto e per tutto“ (1640). Il testo respinge qualsiasi allusione al sistema eliocentrico o alla rotazione terrestre, confermando invece „il comune sistema geocentrico“ (1641) e descrivendo „otto potenze nei cieli“ (1642), tra cui un’„orbita superiore“ (l’„upper world“) che „si muove in direzione opposta alle altre“ (1642). L’analisi smentisce l’ipotesi di una tardiva adesione platonica alle teorie di Filolao o Anassagora, come sostenuto da Schiaparelli e Gomperz, cui Boeckh oppone una „interpretazione astronomicamente inattaccabile“* (1650).

Il sistema cosmologico platonico si fonda su „quattro elementi“ (terra, acqua, aria, fuoco), „le cui particelle hanno forme geometriche regolari“ (cubo, icosaedro, ottaedro, tetraedro) (1652), mentre il „dodecaedro“„usato da Dio come modello per l’universo“ (1653) — non costituisce un quinto elemento, contraddicendo così l’Epinomis laddove „affirma esplicitamente che l’etere è un quinto elemento“ (1663). Gli astri, „composti principalmente di fuoco“ (1655), si muovono in un „etere“„aria purissima“ (1655) — e sono „esseri divini, perfetti nella mente e nei moti ordinati“ (1658). Platone, però, „non si sofferma sui dettagli dei moti celesti“ (1660), privilegiando la „concezione poetica dell’anima del mondo“ (1675) rispetto alla „ricerca scientifica“ (1661), pur diffondendo „la dottrina pitagorica della sfericità terrestre e del moto orbitale dei pianeti“ (1676). Il blocco si chiude con un accenno alle conoscenze astronomiche del IV secolo a.C., premesse al sistema delle „sfere omocentriche di Eudosso“ (1680), cui Platone stesso „non dedicò approfondimenti“ (1660).


Note

Riferimenti testuali

(1642) Citazione dall’Epinomis (987 b): „come apparirebbe a chi sa poco di queste materie; ma ciò che sappiamo a sufficienza, è necessario dirlo e lo diciamo“. (1652) Riferimento al Timeo (54e-55c) per la teoria degli elementi geometrici. (1663) Divergenza tra Timeo e Epinomis sulla natura dell’etere.


7. La concezione aristotelica del cosmo: misure, elementi e fenomeni celesti tra teoria e osservazione

Tra calcoli approssimativi, sfere eteree e fuochi atmosferici: come Aristotele delimita lo spazio terrestre e celeste.

Il blocco analizza la visione aristotelica della struttura cosmica, articolata tra misurazioni imperfette della Terra (the only manner in which an observer could determine the size of the earth was by observing the meridian altitude of the sun or a star), gerarchie elementari (earth occupies the place nearest to the centre, water next, air higher up, and fire rising highest of all) e fenomeni atmosferici interpretati come esalazioni infuocate (shooting stars and meteors are produced, which are hot and dry products of evaporation). Emergono temi minori come il confronto con le teorie precedenti (Aristotle was not able to add anything to the vague surmises of previous philosophers), la critica alle ipotesi pitagoriche e democritee sulle comete (the nature of the solid celestial spheres made it impossible to accept the doctrine of the Pythagoreans), e la distinzione tra regione sublunare — dominata dai quattro elementi in moto rettilineo — e cieli eterei, immutabili e animati da moto circolare (the region of unchangeable order and of circular motion). La trattazione include anche riferimenti a opere di commentatori (Simplicio, Ideler) e a edizioni critiche, sottolineando come la quintessenza (quinta essentia) diventi centrale per spiegare la purezza crescente della materia celeste al crescere della distanza dalla Terra.

Il testo affronta inoltre le limitazioni metodologiche dell’epoca (a rough approximation was all that could be attained), evidenziando come Aristotele, pur sovrastimando le dimensioni terrestri (the diameter of the earth being equal to 12,461 miles), cerchi coerenza nel sistema: la Via Lattea, ad esempio, è descritta come un’accumulazione permanente di vapori infiammati (the permanent accumulation of ignited vapour) che sottrae materia alle comete, mentre l’eteremuch purer than our elements — trasmetterebbe il calore solare attraverso l’aria. Le citazioni di fonti secondarie (Stobeo, Platone) e i rinvii a passi specifici delle opere aristoteliche (Meteorol. i. 3, p. 339 b) servono a corroborare un quadro in cui osservazione empirica e speculazione filosofica si intrecciano, pur nel limite di strumenti e conoscenze dell’epoca.


8. Ipotesi elio-centriche implicite e limiti della teoria planetaria in Ipparco

L’astrazione geometrica come strumento di calcolo e le incongruenze tra modelli matematici e fenomeni osservati.

Il blocco analizza la teoria degli epicicli e degli eccentrici sviluppata da Ipparco, evidenziando come questi modelli — pur efficaci per Sole e Luna — fallissero nel descrivere i moti dei cinque pianeti allora noti. Le fonti citate (Theon, Ptolemeo, Plinio) mostrano che Ipparco „non era versato in scienza naturale“ e „non percepiva accuratamente quale moto dei pianeti erranti fosse conforme alla natura“, preferendo una „simmetria matematica“ basata su „cerchi concentrici“ e „epicicli“ senza indagare cause fisiche. Emergono due temi minori: 1) la dipendenza delle irregolarità planetarie dalla „distanza angolare dal Sole“, fenomeno notato ma non spiegato (ogni stella errante era in qualche modo connessa al Sole); 2) il ruolo speculativo della scuola stoica, che „fissò il Sole come cuore dell’universo“, analogamente al „cuore negli esseri animati“, influenzando l’ordine tradizionale delle orbite (Luna, Sole, Venere, Mercurio, Marte, Giove, Saturno). Le „osservazioni sistematiche“ di Ipparco, sebbene insufficienti per una teoria completa, posero le basi per „l’analisi prolungata“ che portò Ptolemeo a integrare epicicli ed eccentrici. Il testo sottolinea inoltre il „divario“ tra astronomia matematica — „mezzo per calcolare le posizioni“ — e cosmologia, ancora dominata da „argomenti metafisici“.


Note

Riferimenti testuali
Citazioni tradotte

9. Misurazioni antiche della circonferenza terrestre: Eratostene, Posidonio e le discrepanze nei metodi e nei risultati

Tra calcoli empirici, approssimazioni strumentali e unità di misura variabili, le stime di Eratostene e Posidonio rivelano tanto l’ingegno quanto i limiti della scienza geografica ellenistica.


Il blocco analizza le metodologie adottate da Eratostene e Posidonio per determinare la circonferenza terrestre, evidenziando le fonti antiche, le incongruenze nei dati e le correzioni successive. Eratostene si basa su misurazioni solstiziali tra Syene e Alessandria, ottenendo un risultato di «252.000 stadi» (2984, 2987), valore poi adottato anche da Ipparco «senza correzioni» (2989) nonostante alcune fonti, come Plinio, ne segnalino aggiustamenti discutibili («Hipparchus added 26,000 to the 252,000» – 2987). La distanza tra le due città, stimata in «5.000 stadi» (2982), è però un «numero tondo» (2983), e lo stadio utilizzato da Eratostene risulta «più corto di quello olimpico» (2998), pari a «210 metri» (3000), misura «usata dai misuratori reali tolemaici» (3004). Le osservazioni astronomiche, tuttavia, presentano imprecisioni: «il tropico del Cancro non passava per Syene ai tempi di Eratostene» (2996), e la «differenza di latitudine» tra le due località («7°12'») si avvicina casualmente al valore reale («7°06'11») (2995).

Posidonio adotta invece un metodo stellare, misurando l’altezza di Canopo a Rodì e Alessandria per ricavare una circonferenza di «240.000 stadi» (3033), risultato «molto meno attendibile» (3034) a causa di errori osservativi («Canopus è difficile da vedere a Rodì» – 3035) e approssimazioni («un quarto di segno, cioè 1/48 dello zodiaco» – 3032). La discrepanza tra i due metodi solleva dubbi sulla precisione: «Posidonio forse non intendeva sostituire il valore di Eratostene» (3037), ma solo «illustrare una lezione» (3039). Tolomeo, infine, «adotta il valore di Posidonio» (3061) convertendolo nello «stadio egiziano ufficiale» (3062), pari a «1/4 di miglio romano» (3062), a dimostrazione della variabilità delle unità di misura.


Note

10. Dibattiti antichi su corpi celesti e fondamenti del sistema tolemaico

Dalla natura della Luna alle orbite delle comete: errori, correzioni e l’eredità di Ipparco nella sintesi di Tolomeo.

Il blocco traccia un percorso che parte dalle osservazioni empiriche su corpi celesti minori — come la Luna, descritta come „molto vicina alla Terra, cui assomiglia per struttura“ (3274), e le comete, „non semplici fenomeni atmosferici“ ma „corpi celesti con orbite regolari“ (3277) — per giungere alla sistematizzazione tolemaica. Seneca e Apollonio di Mindos (3279) confutano le teorie stoiche sulle comete, sostenendo che „non vi è motivo di credere che i pochi pianeti noti [nello zodiaco] siano gli unici esistenti“ (3278) e che questi corpi „viaggiano nelle regioni superiori dello spazio, visibili solo quando attraversano le parti inferiori delle loro orbite“ (3279). Il passaggio al sistema tolemaico (3291-3329) evidenzia una cesura: dopo secoli di stasi post-ipparchica — „in 260 anni l’astronomia non sembrò fare progressi“ (3295) — Tolomeo eredita e corregge gli errori di Ipparco, in particolare sulla „teoria del Sole“ (3309), „troppo lunga“ nel computare l’anno tropico (3313), e sulla „Luna“, dove introduce un „epiciclo con raggio apparente variabile“ (3322) per spiegare le „discrepanze massime in quadratura“ (3318). Il testo sottolinea anche i limiti metodologici: „la difficoltà di misurare la longitudine assoluta del Sole“ (3315) e il rifiuto del moto terrestre, „altrimenti gli oggetti lanciati in aria resterebbero indietro“ (3306). Emergono così due temi minori: la dipendenza da osservazioni pregresse (3299) e la tensione tra modelli matematici e fenomeni osservati, come nel caso della „seconda disuguaglianza lunare“ (3328), dove „l’angolo tra le due posizioni della Luna [secondo Ipparco e Tolomeo] è nullo in sizigia“ (3329).


11. La cosmologia patristica tra Genesi e polemica anti-filosofica: il cielo come tenda, l’acqua sopraceleste e la terra piatta

Un quadro delle interpretazioni letterali della creazione nel IV-V secolo, dove la forma del cosmo diventa campo di scontro tra autorità scritturale e modelli astronomici "pagani".


Sommario

Il blocco delinea una visione cosmologica rigidamente ancorata al racconto della Genesi, come imposta dai padri della Chiesa siriana e sostenuta da figure quali Basilio, Cirillo di Gerusalemme e Severiano di Gabala. Questi ultimi, nelle Sei Orazioni sulla Creazione del Mondo, insistono su un universo a «due piani» dove «il cielo [creato il primo giorno] non è quello che vediamo, ma quello sopra di esso», una struttura a «casa a due piani con un tetto nel mezzo» (3557) e «acque sopra» (3556) pronte a spegnere il fuoco celeste «l’ultimo giorno» (3560). Il cielo inferiore, «cristallino, acqua congelata» (3559), resiste al calore degli astri grazie a uno strato esterno d’acqua, mentre la volta non è sferica ma «una tenda» (3561), citando «Colui che distende i cieli come una cortina» (3573). La terra è piatta, il sole «non passa sotto di essa di notte ma viaggia nelle regioni settentrionali» (3562), «come nascosto da un muro» (3562), e il suo percorso spiega le stagioni: «quando il sole va più a sud, i giorni si accorciano» (3584).

La forma a «tabernacolo» (3561, 3585) diventa dogma patristico, avversato solo da voci isolate come Ambrogio di Milano, che pur ammettendo «non ci giova sapere se il cielo sia di quattro elementi o di un quinto» (3591) ne descrive la sfericità, salvo poi giustificare «l’acqua fuori dalla sfera» (3593) con analogie forzate. La polemica anti-filosofica è esplicita: Girolamo attacca «la stupida sapienza dei filosofi» (3589) che immagina gli antipodi, mentre Diodoro di Tarso respinge il «sistema geocentrico» (3585) come ateismo. Le citazioni scritturali — «il sole sorgeva sulla terra quando Lot giunse a Zoar» (3575) o «il sole tramonta e corre al suo luogo» (3576) — servono a confutare qualsiasi modello alternativo, incluso quello sferico, bollato come «spazzato via» (3597-3598) dalle Scritture. Emergono temi minori come il ruolo degli angeli nel muovere gli astri (3588) e la centralità simbolica di Gerusalemme come «ombelico della terra» (3589).


Note

Fonti citate

Riferimenti editoriali


12. La Topografia cristiana di Cosma Indicopleuste: una cosmologia biblica contro la tradizione greca

Un monaco egiziano rilegge il creato tra Scrittura, geometria sacra e polemica antiscientifica


Sommario

Il testo ricostruisce la Topografia cristiana, opera in dodici libri composta tra il 535 e il 547 da Cosma Indicopleuste, monaco egiziano che rigetta la cosmologia greca a favore di una visione letterale delle Scritture. Il nucleo dell’argomentazione si concentra sulla confutazione del modello sferico del cosmo, definito «ridicolo» e incompatibile con la fede: «il cielo non può essere sferico, poiché la Via Lattea ne prova la composizione eterogenea», mentre «l’idea che i pianeti abbiano bisogno di ‘veicoli’ [epicicli] per muoversi è assurda, se si ammette che siano animati da anime divine». La Terra, «pesantissima», è collocata «al fondo dell’universo», e l’esistenza degli antipodi è liquidata come «favole da vecchie». La struttura del cosmo è invece dedotta dal Tabernacolo di Mosè, interpretato come «modello del mondo visibile»: la Terra è un «rettangolo piano, lungo il doppio della larghezza», circondato dall’oceano e da una «seconda terra inaccessibile», sede del Paradiso terrestre prima del Diluvio. Il firmamento divide l’universo in due piani: quello inferiore, abitato dagli uomini, e quello superiore, riservato ai beati. I corpi celesti, «portati dagli angeli», non sono fissi a sfere ma si muovono al di sotto del firmamento; il Sole, «piccolo quanto due climi», scompare nottetempo dietro «un’enorme montagna conica a nord», la cui prossimità spiega le stagioni.

La polemica si estende ai «cristiani che ascoltano i filosofi greci» («nessuno può servire due padroni»), accusati di tradire la Scrittura con teorie come l’epiciclo o la sfericità terrestre, incompatibili con la Genesi. Cosma cita «passi biblici» per dimostrare l’impossibilità di un’«Terra sferica emersa dalle acque» o sommersa dal Diluvio, e spiega fenomeni come le eclissi con «lievi obliquità nei moti celesti» o la differenza di velocità delle navi, «lente a nord-ovest perché risalgono, veloci a sud-est perché discendono». Nonostante l’originalità nell’uso allegorico del Tabernacolo, il sistema ripropone tesi già presenti nei Padri della Chiesa, come Severiano. L’opera, pur non divenuta autorevole, acquisisce notorietà come «manuale» di una cosmologia alternativa, fondata su «una lettura forzata delle Scritture» e su «argomenti considerati elementari anche per l’epoca».


13. La sfera terrestre tra dottrina, eresia e sapere monacale: da Virgilio di Salisburgo ai viaggi degli Irlandesi

Tra condanne ecclesiastiche e scoperte geografiche, il Medioevo ridefinisce i confini del mondo conosciuto: dalla damnatio memoriæ per chi osava ipotizzare «un altro mondo sotto terra, con il suo sole e la sua luna», alle testimonianze di monaci che, tra Islanda e Orkney, verificavano con i propri occhi i fenomeni della «sfera obliqua».

Il blocco traccia un percorso tra la repressione delle idee cosmologiche eterodosse e la loro graduale accettazione nel contesto monacale e intellettuale altomedievale. Al centro vi è la figura di Virgilio di Salisburgo, condannato per aver sostenuto l’esistenza di «un altro mondo sotto terra, con il suo sole e la sua luna» («alius mundus et illi homines sub terras sint; hunc accito concilio, ab Ecclesia illius sacerdotii honore privatum»), una dottrina giudicata «perversa e iniqua» per le sue implicazioni teologiche: l’eventuale esistenza di esseri umani non discendenti da Adamo e non redenti da Cristo. Nonostante la canonizzazione postuma (1233), il caso di Virgilio rimane emblematico del conflitto tra autorità ecclesiastica e speculazione scientifica, documentato in fonti come i Sacrosancta Concilia (dove compare la variante «seu sol et luna») o l’Histoire littéraire de la France (che gli attribuisce la scoperta degli «antipodi, un altro mondo con il suo sole, la sua luna e le sue stagioni»).

Il sommario si sposta poi sulle conoscenze geografiche e astronomiche dei monaci irlandesi, centri di cultura in un’Europa altrimenti immersa «in una notte fittissima». Figure come Adomnán (biografo di san Colomba) e Arculf (pellegrino in Terra Santa) diffondevano nozioni sulla «sfericità della Terra, asserita dagli scrittori greci e romani», confermata dai resoconti di viaggiatori che coprivano «25 gradi di latitudine». Particolare rilievo assume Dicuil (VIII–IX sec.), autore del Liber de mensura orbis terrae: pur taciuto il tema della sfericità, descrive missionari irlandesi in «Thule [Islanda], dove a mezzanotte d’estate il sole si nasconde appena dietro una collinetta, come se fosse mezzogiorno al centro della Terra», dimostrando padronanza dei «fenomeni della sfera obliqua». Nonostante la crescente accettazione della scienza antica — esemplificata da Rabano Mauro (che pur citando Euclide tenta di conciliare la «rotondità dell’orbe» con i «quattro angoli» della Scrittura) o da Silvestro II (Gerberto d’Aurillac, costruttore di «globi celesti e terrestri») — persisteva una frangia di silenzi prudenti, mentre mappe e cronache (come quella di Adamo di Brema) attestavano progressi nella comprensione delle «disuguaglianze tra giorno e notte alle diverse latitudini».

Il tema minore delle tensioni tra fede e scienza emerge nelle contraddizioni di autori come Rabano Mauro, che pur promettendo «la rotondità dell’orbe» («orbis a rotunditate circuli, quia est velut rota») si aggrappa a soluzioni geometriche forzate (un «quadrato inscritto in un cerchio») o a immagini patristiche («il cielo con due porte, est e ovest, per il passaggio del sole»). La svolta arriva con l’ascesa al soglio pontificio di Silvestro II (999–1003), la cui familiarità con «Platone, Calcidio, Eratostene» e la tradizione classica segna il declino delle posizioni lactanziane. Il sommario si chiude con l’allargamento degli orizzonti geografici, frutto degli «scambi con gli Arabi in Spagna» e delle «imprese dei Normanni», che arricchivano le mappe medievali di dettagli prima ignorati.


14. La cosmologia dantesca tra astronomia, teologia e allegoria delle arti

Struttura dell’universo e viaggi ultraterreni nella Divina Commedia e nelle opere minori.

Il sommario descrive un sistema cosmologico articolato in cui l’Inferno è un „cono che giunge al centro della terra“ con „Lucifero“ collocato „nel punto più profondo“, mentre il Purgatorio è un „monte conico“ che sorge „diametralmente opposto a Gerusalemme“. La progressione verticale culmina nelle „dieci sfere celesti“, dalla Luna all’Empireo, „abitazione della Divinità“, mosse da „triadi angeliche“ (Serafini, Cherubini, Troni) secondo una gerarchia che riflette le „arti liberali“: la „sfera stellata“ corrisponde a „Fisica e Metafisica“, l’Empireo a „Teologia“. Le „macchie lunari“ diventano oggetto di disputa: nel Convivio Dante le attribuisce a „parti rarefatte“ che „riflettono male la luce“, mentre in Paradiso Beatrice confuta questa teoria, affermando che la Luna „brilla di luce propria“, variabile per „influsso degli angeli“. Si accenna inoltre a „epicicli“ e „motioni spiraliformi del Sole“, elementi desunti da „Platone“ e „Tolomeo“, e alla „precessione degli equinozi“ (che più tardi in cielo è torto). Il blocco include anche un riferimento alla lezione „De Aqua et Terra“ (1320), dove Dante respinge la teoria delle „sfere separate di terra e acqua“, e chiude con una riflessione sul „millennio di stasi culturale“ tra Costantino e la morte del poeta (1321), in cui „l’Occidente rimasticava il primo capitolo della Genesi“ senza „costruire sulle basi greche“.

Il tema minore delle „fonti orientali“ emerge indirettamente: si citano i „Siddhanta“ indiani, „figli della scienza alessandrina“, che adottano nomi greci per i pianeti (Asphudit per Afrodite“, Heli per Helios“) e rigettano il „mito degli animali-sostegno“ della Terra, pur mantenendo „epicicli ovali“ come innovazione locale. La connessione con Dante è implicita: entrambi i sistemi, pur diversi, attingono a un substrato „ellenistico-aristotelico“ mediato da „traduzioni e commentari“.


15. L’astronomia araba tra Baghdad e al-Andalus: eredità, osservatori e transizioni culturali

Dalla corte degli Abbasidi alle scuole di Toledo e Siviglia, fino agli osservatori di Maragha e Samarcanda

Il blocco traccia un percorso cronologico e geografico dell’astronomia islamica, evidenziando figure chiave, centri di studio e la trasmissione del sapere dall’Oriente al Mediterraneo occidentale. Si aprono con i contributi di „Ahmed ben Muhammed Al Fargani (Alfraganus)“ e „Tabit ben Korra“, i cui lavori — tradotti in latino — „contribuirono grandemente al risveglio scientifico in Europa“ (4204) e alimentarono dibattiti come quello sull’„oscillazione degli equinozi“ (4205). La decadenza politica dei califfi non interruppe la ricerca: „la famiglia persiana dei Buyidi“ (4208) sostenne gli studi, consentendo la fondazione di un „nuovo osservatorio“ (4209) dove „Abu ’l Wefa“ rese accessibile „il contenuto dell’Almagesto“ (4209). Il testo segna poi uno spostamento verso l’Egitto fatimide, con „Ibn Yunis“ e le „Tavole Hakemite“ (4220), e verso al-Andalus, dove „Al Zarkali (Arzachel)“ e „Geber“ (4222-4223) „sollevarono obiezioni alle teorie tolemaiche“ senza però proporre alternative. La sezione si chiude con la „rinascita orientale“ sotto „Nasir al-Din al-Tusi“ (4237-4238), „Ulug Beg“ (4243) e la „transizione verso l’Europa“ (4244), dove „il tramonto della scienza orientale“ coincise con „l’alba di quella europea“ (4244).

Il sommario include cenni a temi minori: il ruolo dei mecenati (Buyidi, Alfonso X), la „controversia“ scaturita dall’„Almagesto“ di Abu ’l Wefa (4216), e il „contrasto“ tra „l’assenza di ostilità verso la scienza“ nel mondo islamico e „le persecuzioni europee“ (4255-4256). Si sottolinea inoltre la „determinazione di costanti astronomiche“ senza „miglioramenti teorici“ (4252-4253), e la „diffusione della nozione di sfericità terrestre“ (4257), accolta „senza opposizione“ grazie a „viaggi e conquiste“ (4257). Le citazioni dalle note bibliografiche (4210-4215, 4226-4234) fungono da riferimenti impliciti alle fonti primarie, mentre i „rimandi a opere mai pubblicate“ (4230) o „tradotte“ (4212) suggeriscono lacune storiografiche.


Note

Fonti e traduzioni

Riferimenti editoriali


16. La controversia sulla terza disuguaglianza lunare: Abu ’l Wefa tra eredità tolemaica e presunte innovazioni

Dalle traduzioni arabe dell’Almagesto alle interpretazioni medievali: un confronto tra fonti ebraiche, islamiche e cristiane sulla teoria lunare pre-copernicana.


Sommario

Il blocco analizza la disputa storiografica sulla paternità della terza disuguaglianza lunare, attribuita da alcuni a Abu ’l Wefa (X secolo) ma sistematicamente ricondotta all’Almagesto di Tolomeo. Le frasi evidenziano come Abu ’l Wefa descriva tre disuguaglianze — «la prima (equazione del centro), la seconda (evezione) e una terza, che raggiunge il massimo quando la luna è a un *tathlith o tasdis dal sole» (4345) — senza mai rivendicarne la scoperta, limitandosi a riprodurre «la costruzione adottata da Tolomeo» (4347), inclusa la devianza della linea degli apsidi dell’epiciclo. La terminologia araba (tathlith, *tasdis), tradotta da Sedillot come «ottanti» (4349) ma contestata da altri orientalisti, viene ricondotta a elongazioni di «60 e 120 gradi dal sole» (4360), in linea con i dati tolemaici.

Emergono due temi minori: 1) la ricezione della teoria nei secoli successivi, con autori come Nasir ed-din al-Tusi (XIII secolo) e Abu ’l Faraj (Bar Hebraeus) che «descrivono la prosneusi come "angolo formato al centro dell’epiciclo"» (4386) senza aggiunte originali, confermando l’assenza di innovazioni; 2) il confronto con la "variazione" di Tycho Brahe, distinta dalla prosneusi tolemaica perché «dipende solo dall’elongazione lunare (39’5 sin 2e)»(4411), mentre «il termine di Ptolemy +17’8 sin 2e [...] scompare solo in sizigie e quadrature» (4412). Le fonti ebraiche (Abraham ben Chija, Isaac Israeli) e i compendi arabi (al-Jagmini) «riprendono le stesse espressioni» (4364), dimostrando una tradizione univoca.

La conclusione è netta: «Abu ’l Wefa non sapeva nulla del moto lunare che non avesse preso da Tolomeo» (4409), e «nessun astronomo arabo successivo menziona una scoperta inedita» (4363). Le citazioni da Comptes Rendus (4336-4340) e Journal des Savants (4342, 4350) inquadrano il dibattito ottocentesco tra Sedillot, Biot e Carra de Vaux, mentre le note tecniche (4412-4414) chiariscono l’incompatibilità matematica tra i modelli.


17. Critiche al sistema tolemaico e alternative aristoteliche nella tradizione astronomica arabo-islamica

Tra geometria celeste e fisica aristotelica: le obiezioni a epicicli ed eccentrici, da Geber a Ibn Bāǧǧa e al sistema di Al-Biṭrūǧī.

Il blocco analizza le tensioni tra il modello tolemaico e le esigenze filosofiche della tradizione aristotelica, evidenziando come astronomi e filosofi arabi abbiano contestato gli epicicli e gli eccentrici per ragioni fisiche e metafisiche. Le critiche partono da osservazioni empiriche: si nota che Tolomeo «non menziona le parallassi di Mercurio e Venere», pur essendo «dovute essere maggiori di 3’» (4479), e che «la parallasse di Mercurio dovrebbe raggiungere i 54’» (4480), valore giudicato eccessivo. Geber (Jābir ibn Aflaḥ) «rimprovera Tolomeo per aver affermato che le parallassi planetarie sono impercettibili» (4482) e «non perde occasione di criticare i metodi tolemaici» (4491), pur senza proporre un sistema alternativo coerente. La questione si lega alla «rapida ascesa della filosofia aristotelica in Spagna nel XII secolo» (4503), che spinge a rifiutare gli epicicli in favore di «sfere omocentriche» (4506), considerate più conformi alla fisica aristotelica.

Il dibattito si estende ai filosofi andalusi: Ibn Bāǧǧa (Avempace) «costruisce un sistema con soli eccentrici, escludendo gli epicicli» (4516), ma Maimonide obietta che «l’ipotesi eccentrica è altrettanto inaccettabile» (4518), poiché «suppone un moto attorno a un punto immaginario» (4519). La critica si radicalizza con Ibn Ṭufayl (Abubacer) e il suo allievo Al-Biṭrūǧī (Alpetragio), che «elaborano un sistema senza epicicli né eccentrici» (4532), basato su «sfere omocentriche mosse dal primum mobile» (4541). Il modello, però, «non tenta di spiegare fenomeni minori come le disuguaglianze lunari» (4541) e «reintroduce l’idea ionica di un moto planetario puramente diurno, con velocità variabili» (4543). La soluzione proposta «rende superfluo l’epiciclo» (4550) attraverso «piccoli cerchi descritti dai poli orbitali» (4549), ma altera l’ordine tradizionale dei pianeti, collocando «Venere tra Marte e il Sole» (4558) in base a calcoli sui «periodi sinodici» (4556). Le obiezioni di fondo restano: «ciò che non si trova in Aristotele deve essere trascurato» (4515), e «se Aristotele ha ragione, non esistono né epicicli né eccentrici» (4534).


Note e riferimenti testuali

Critiche tecniche e osservazionali

Alternative filosofiche e limiti

Fonti citate


18. I limiti del sistema tolemaico e le resistenze all’ipotesi elio- ed geo-centrica nel mondo arabo e medievale

Il fallimento delle alternative al modello di Tolomeo e la persistenza di argomenti fisici contro il moto terrestre, tra astronomia araba e le prime tavole alfonsine.


Sommario

Il blocco descrive gli sforzi infruttuosi di astronomi come Nasir ed-din per superare le incongruenze del sistema tolemaico, in particolare l’uso dell’equante—un espediente matematico criticato ma ritenuto necessario per spiegare le «irregolarità nel moto in longitudine rispetto al centro del deferente», che imponeva «un’irregolarità corrispondente nel moto sul cerchio ausiliario». Nonostante i tentativi, «tutti i ribellioni al sistema tolemaico si rivelarono fallimenti», poiché «era impossibile trovare qualcosa di meglio» senza mettere in discussione «l’idea fondamentale della Terra immobile», considerata «perfetta nei metodi matematici ma errata nel presupposto». La resistenza al moto terrestre emerge in testi come il Hikmat al-ain di al-Katibi, dove si rigetta l’ipotesi della rotazione quotidiana con argomenti fisici («tutti i moti terrestri avvengono in linea retta, quindi non possiamo ammettere che la Terra si muova in cerchio»), pur riconoscendo che obiezioni come «un uccello non potrebbe tenere il passo con la Terra» non fossero conclusive, dato che «l’atmosfera vicina potrebbe partecipare al suo moto».

Temi minori includono la menzione isolata di ipotesi elio- o geo-centriche in fonti ebraiche («la Terra gira come una sfera in cerchio su sé stessa, alcuni sopra e altri sotto»), attribuita a Rabbi Hamnuna nello Zohar, e il ruolo delle Tavole Alfonsine—redatte sotto Alfonso X di Castiglia come aggiornamento pratico del sistema tolemaico, pur senza innovazioni teoriche. Si nota inoltre la persistenza di «errori e approssimazioni» nei Libros del Saber, dove «il centro dell’equante viene posto a metà tra la Terra e il deferente», scambiando un adattamento specifico per Mercurio con una regola generale. La figura ellittica del deferente di Mercurio, sebbene «costruita da archi circolari», non anticipa Kepler, poiché «nell’orbita degli inferiori è l’epiciclo il vero percorso». Le argomentazioni contro il moto terrestre—riprese da Tolomeo («pietre lanciate in alto»)—mostrano «quale riforma si potesse sperare finché simili ragioni venivano usate».


19. La teoria della trepidazione: oscillazioni e precessione degli equinozi tra astronomia araba e medievale

Dall’adozione di un moto oscillatorio alle correzioni alfonsine: ipotesi, periodi e confutazioni di un modello celeste tra calcolo e osservazione.

Il blocco delinea l’evoluzione della teoria della trepidazione (trepidatio o titubatio), un modello astronomico che combinava il moto progressivo degli equinozi con un’oscillazione periodica, attribuita a influenze caldee, tolemaiche e arabe. Le fonti citano divergenze sui periodi: 1 in 100 anni secondo Tolomeo, o 1 in 66 secondo altri (4755), mentre Al Zarkali fissa un’oscillazione di 10° in 2000 anni islamici (1940 gregoriani, 1 in 97 anni o 37" all’anno, 4761). La teoria si arricchisce con l’aggiunta di una nona e decima sfera per spiegare rispettivamente il moto progressivo (36" annui“, 4784) e l’oscillazione (periodo di 7000 anni, 4766), culminando nelle Tavole Alfonsine, dove il massimo [dell’oscillazione] avvenne alla nascita di Cristo (4781). Vengono menzionate critiche implicite: Al Battani confutò la teoria (4775), e Alfonso [X] ne riconobbe la futilità (4778) dopo averla inizialmente adottata. Il sommario evidenzia anche il contesto strumentale (la diminuzione dell’inclinazione dell’eclittica da 23°33’, 4763) e il passaggio dalla speculazione all’osservazione, che ne decretò l’abbandono quando un vero osservatore dimostrò che l’obliquità dell’eclittica era diminuita costantemente (4784).

Il testo accenna inoltre a temi minori: il ruolo degli astronomi arabi (Nasir ed-din ne dubitava, 4760; Al Zarkali la sostenne, 4777), la trasmissione del sapere (Abraham ben Chija cita Indians, Egizi, Caldei, 4775) e la ricezione europea, dove la teoria sopravvisse fino a quando osservazioni persistenti (4784) ne svelarono l’inconsistenza. Le citazioni rivelano un dibattito metodologico: gli astronomi chiudevano gli occhi di fronte alle conseguenze, come cambiamenti nelle latitudini stellari (4784), preferendo teorie comode (4783) a dati empirici. La sezione si chiude con un giudizio storico: sarebbe stato meglio lasciarla da parte, ma costituisce un capitolo non privo di interesse (4786-4787) per lo studio dell’astronomia pre-copernicana.


Note

Riferimenti testuali
Fonti citate

20. L’eredità di Peurbach e Regiomontanus: tra riforma astronomica e miti copernicani

Dall’osservatorio di Norimberga alla corte pontificia: calcoli, sfere cristalline e una controversia sulla rotazione terrestre

Il blocco descrive il contributo di Georg Peurbach e del suo allievo Regiomontanus alla rinascita dell’astronomia europea nel XV secolo, incentrato sulla riscoperta e diffusione delle opere di Tolomeo. Peurbach, nominato professore a Vienna, si dedica allo studio della Syntaxis tolemaica e redige un manuale, le Theoricae novae planetarum (4916), che «descrive chiaramente e concisamente le costruzioni di Tolomeo» (4917) adottando dalle fonti arabe le «sfere cristalline solide» (4917) per spiegare orbite eccentriche ed epicicli. Il suo obiettivo è correggere gli errori delle Tavole Alfonsine (4918), ma la mancanza di testi greci originali lo spinge a cercare manoscritti in Italia, dove stringe un’alleanza con il cardinale Bessarione (4919). La morte prematura di Peurbach (1461) lascia il testimone a Regiomontanus, che prosegue la ricerca filologica e scientifica: in sei anni in Italia «non perde occasione di raccogliere manoscritti greci» (4922), poi a Norimberga fonda un osservatorio e pubblica efemeridi astronomiche (4924), strumenti «inestimabili per i navigatori portoghesi e spagnoli» (4924). I suoi trattati — tra cui il pionieristico studio sulla trigonometria (4925) con «tavole dei seni per ogni minuto e dei tangenti per ogni grado» (4925) — lo pongono tra i massimi matematici, sebbene le opere circolino postume (4926, 4936). La fama gli vale la convocazione a Roma per la riforma del calendario (1475), ma muore l’anno seguente (4928), vanificando il progetto.

Il sommario evidenzia due temi minori: l’equivoco storiografico sulla presunta adesione di Regiomontanus all’eliocentrismo, smentito dall’Epitome in Almagestum (4930) dove «la Terra occupa il centro del mondo» (4949) e si riprendono gli argomenti tolemaici contro la rotazione («gli uccelli e le nubi sarebbero lasciati indietro, gli edifici crollerebbero» (4946)). Le citazioni di Schöner (4932-4934) e la nota attribuita a Hartmann (4950) — secondo cui Regiomontanus avrebbe ipotizzato un «lievissimo alterarsi del moto delle stelle a causa del moto della Terra» (4950) — sono giudicate «prove troppo vaghe» (4951) e contraddette dai suoi scritti. Il blocco chiude con Celio Calcagnini (4965), unico a sostenere esplicitamente la rotazione terrestre prima di Copernico in un saggio del 1525 (4969), dove argomenta che «non è il cielo a ruotare con incredibile velocità, ma la Terra» (4976), pur senza abbandonare del tutto la centralità geocentrica (4977).


Note

Frasi citate e tradotte:


21. Il dibattito pre-copernicano: Calcagnini, Maurolico e le resistenze all’eliocentrismo nel primo Cinquecento

Le ipotesi sulla mobilità terrestre tra tradizioni astronomiche e limiti concettuali.


Il blocco analizza le posizioni di Celio Calcagnini e Francesco Maurolico sulla possibilità del moto terrestre, inserendole nel contesto delle discussioni astronomiche pre-copernicane. Calcagnini, pur citando riferimenti classici come „Archimede [che] promise di muovere la terra se avesse avuto un punto d’appoggio“ e „Niceta e Platone“, dimostra una „conoscenza estremamente limitata“ dell’astronomia: le sue „deboli argomentazioni“ su un „moto sconosciuto della terra“ (senza che questa „abbandoni il centro del mondo“) rivelano una comprensione superficiale, quasi „vagamente sentita“ delle teorie copernicane, ridotte a „frasi prive di significato“. Il suo tentativo di spiegare „tutti i fenomeni celesti“ senza ricorrere al „moto dei corpi celesti“ risulta „quasi autodistruttivo“, minando qualsiasi pretesa di precursore.

Maurolico, nella Cosmographia (1543), respinge esplicitamente l’ipotesi elio-rotazionale come „perversità umana“, definendola „assurdità“ e „opinione così strana da non entrare in testa a nessuno“. Il suo sistema, „perfettamente medievale“, si basa su „sfere solide“ e gerarchie planetarie (Venere, più nobile, sta sopra Mercurio), ignorando le innovazioni copernicane. Le citazioni di „Regiomontano“ e „Tolemeo“ confermano l’adesione a modelli tradizionali, mentre il riferimento a „Calcagnini o Copernico“ (1540) resta ambiguo. Il blocco accenna anche al contesto editoriale: la „Syntaxis“ tolemaica (1515-1538) circola in traduzioni latine e greche, ma „nessuno tenta ancora di estendere“ quel lavoro, segnalando una „stasi“ prima della „pietra angolare“ copernicana (1543).


Note

(4994) „spieghi la ragione dell’obliquità dell’eclittica, o perché la luna si allontani di cinque gradi dallo zodiaco, per non parlare della trepidazione dell’ottava sfera“ → Critica alle „invenzioni moderne“ (epicicli, deferenti) considerate „cause cercate in cielo invece che in terra“. (4997) „come Archimede… deve aver pensato [la terra] mobile“ → Riferimento a „Cusa [Nicola da Cusa]“ come fonte non accessibile. (5005) „molti insegnano assurdità ancora maggiori“ → Allusione indiretta a Copernico, ma „rimane aperta la questione“ se Maurolico conoscesse Calcagnini. (5008) „il sole è al centro delle orbite planetarie“ → Giustificazione „medievale“ basata su „dignità“ (Venere > Mercurio) e „somiglianze“ (Mercurio-luna).


22. Il sistema omocentrico tra Fracastoro e Amici: sfere, moti celesti e obiezioni ottiche

Un modello astronomico tra geometria aristotelica e osservazioni empiriche, dove le sfere concentriche tentano di spiegare irregolarità planetarie, variazioni di luminosità e fenomeni lunari senza ricorrere a eccentrici ed epicicli.


Sommario

Il blocco descrive un sistema cosmologico basato su sfere omocentriche ideato per giustificare i moti celesti senza abbandonare i principi peripatetici, come evidenziato dalle citazioni: «nature does not know such things as epicycles and excentrics» e «Fracastoro is of course obliged to admit that every planet is subject to changes of brightness». La struttura gerarchica parte dalla «fifth sphere» sopra l’«Aplane» (a cui sono fissate stelle e Via Lattea) e scende attraverso i sistemi di Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio e Luna, ciascuno dotato di gruppi di sfere con funzioni specifiche: alcune «account for the zodiacal inequality in longitude», altre «counteract the exaggerated latitudes» o «prevent the complicated motions of Saturn from being communicated to Jupiter». La Luna, con «seven spheres», include meccanismi per spiegare il moto retrogrado dei nodi («Deferens Draconis») e le variazioni di velocità («making the moon move alternately faster and slower»).

Le obiezioni al modello emergono nelle spiegazioni ottiche: le «variazioni di luminosità» dei pianeti sono attribuite a «media through which we see the planets [that] are denser in some places», mentre le «variations in the duration of eclipses» dipenderebbero da una «sphere below the moon, which makes the moon appear larger» quando attraversa regioni più dense. Si nota un confronto critico con Tolomeo: «the deferents of Mercury and the moon are ovals in the Ptolemaic theory» suggerisce consapevolezza delle sue limitazioni, pur adottando soluzioni ad hoc come la «sublunary sphere» per le comete, «not an innovation» ma già ipotizzata da «Seneca and other philosophers». La descrizione si estende a Giovanni Battista Amici, che in «de Motu corporum cœlestium» (1536) propone un sistema analogo ma «does not confine himself to the use of spheres with axes at right angles», introducendo meccanismi più generali per simulare «epicycles» senza adottarli esplicitamente. La sua spiegazione delle «changes of apparent size» del Sole e della Luna si basa su «path to reach an observer» e «vapours», mentre la critica agli «epicycles» si fonda sull’analogia tra corpi celesti: «if the moon moved in an epicycle it would not always show us the same face».


Note

Riferimenti strutturali
Citazioni tradotte

23. La transizione copernicana: tra accoglienza prudente e adesioni esplicite (1543–1609)

Dall’adozione strumentale alle prime affermazioni di verità fisica: un sessantennio di assestamento tra le Tavole Pruteniche, le ephemeridi inglesi e le argomentazioni di Recorde, Digges e Gilbert.


Il blocco delinea il periodo intercorso tra la pubblicazione del De Revolutionibus (1543) e le scoperte kepleriane (1609), quando il sistema copernicano, pur non ancora «purificato», divenne oggetto di sviluppo pratico e dibattito teorico. L’operato di Erasmus Reinhold — che nel 1551 pubblicò le Tabulæ Prutenicæ «in onore del suo patrono, il duca Albrecht di Prussia» — dimostra come il modello elio-centrico fosse subito adottato per la sua «eccellenza matematica», anche se «non c’era occasione per Reinhold di dichiarare se il sistema fosse fisicamente vero». Le tavole, basate su dati tolemaici e copernicani ma con «intervalli più piccoli e precisione maggiore», rappresentarono un «passo avanti» nonostante «la scarsità di osservazioni recenti» ne limitasse l’accuratezza: «nulla di meglio poteva essere fatto finché il lavoro di Tycho e Kepler non avesse dato frutti».

In Inghilterra, l’uso delle tavole si diffuse rapidamente: John Field le impiegò già nel 1556 per un’ephemeris, mentre John Dee «proclamò la sua adesione al sistema di Copernico». Più cauto Robert Recorde, che nel Pathway to Knowledge (1551) citò «Eraclide Pontico, Filolao, Ecfanto, Niceta e Aristarco» come precursori, ma rimandò la discussione «a un momento più opportuno», pur ammettendo che «Copernico, uomo di grande apprendimento, afferma che la Terra non solo si muove circolarmente attorno al proprio centro, ma è anche continuamente fuori dal centro preciso di 380.000 miglia». Thomas Digges, invece, nel Alae seu scalae mathematica (1573) e nella Prognostication everlasting (1592) abbracciò esplicitamente la «nuova teoria degli orbite celesti», definendo il sistema tolemaico «come arti e membra prese da corpi diversi» e auspicando che «se Copernico fosse vivo, avremmo raggiunto una conoscenza perfetta del sistema celeste». La chiusura del secolo vide infine William Gilbert — autore del De Magnete (1600) — «accettare la dottrina della rotazione terrestre come indubbiamente vera», segnando così il passaggio da un’adozione pragmatica a una convinzione fisica.


24. L’eredità di Tycho Brahe e le basi geometriche del Mysterium Cosmographicum di Keplero

Le osservazioni planetarie di Tycho Brahe come fondamento per la rivoluzione copernicana e le prime intuizioni kepleriane su orbite, eccentricità e armonia geometrica dei corpi celesti.


Sommario

Il blocco descrive il ruolo cruciale delle misurazioni di Tycho Brahe nella transizione dal sistema tolemaico a quello copernicano, evidenziando come le sue osservazioni abbiano rivelato anomalie nelle orbite planetarie, in particolare quella di Marte, dove l’“eccentricità” appariva “periodicamente variabile” (6110). Tycho notò che “la teoria di Copernico non spiegava adeguatamente il rapporto tra i semidiametri degli epicicli” (6112) e che “l’orbita terrestre (o l’epiciclo di Marte) sembrava variare in dimensione” (6112), anticipando così la scoperta delle orbite ellittiche. Le sue indagini, basate su “opposizioni di Marte lungo tutto lo zodiaco” (6111), dimostrarono che “l’eccentricità dell’orbita solare era solo metà di quanto supposto” (6113), un passo chiave verso il punctum aequans kepleriano.

Il testo passa poi al Mysterium Cosmographicum (1596) di Keplero, dove l’autore cerca una “legge che leghi i membri del sistema solare” (6155) attraverso la geometria dei cinque solidi platonici. Keplero ipotizza che “le sfere planetarie siano separate da poliedri regolari” (6162): “Saturno [è] circoscritto a un cubo, Giove a un tetraedro, Marte a un dodecaedro” (6165), e così via. Nonostante “l’accordo non fosse perfetto” (6171), egli attribuisce le discrepanze a “errori nelle distanze copernicane” (6186) e non alla sua teoria, sostenendo che “Dio avesse stabilito queste proporzioni alla Creazione” (6172). Il sommario include anche critiche implicite al sistema tolemaico, incapace di spiegare “perché i pianeti in opposizione siano nei perigei” (6150) o “la precessione senza una nona sfera” (6152), e sottolinea come Tycho abbia “distrutto la realtà delle sfere solide” (6127) e confutato “l’irregolarità degli equinozi” (6128), aprendo la strada a una astronomia basata su “osservazioni precise” (6141).


Note

  1. Le citazioni in latino (es. “destroyed the reality of the orbs”, 6127) sono tradotte in italiano nel corpo del testo.
  2. I riferimenti numerici tra parentesi (es. 6110) rimandano agli identificativi delle frasi originali.
  3. I temi minori includono: il rifiuto di Tycho dell’eliocentrismo fisico (6126), l’influenza teologica sulle speculazioni di Keplero (“corrispondenza con la Trinità”, 6158), e il metodo empirico come correttivo delle “figure di Copernico” (6187).

25. La teoria magnetica kepleriana dei moti planetari: fonti, meccanismi e limiti concettuali

Dall’epistolario inedito alle opere sistematiche: come Keplero interpretò le orbite planetarie attraverso forze magnetiche, tra equilibrio dinamico e analogie terrestri.


Il blocco ricostruisce la genesi e la struttura della teoria kepleriana sui moti planetari, fondata su un meccanismo magnetico che sostituisce la gravità newtoniana ancora ignota. Le fonti primarie — tra cui la corrispondenza con Hohenburg (6538-6540), il Commentario su Marte (6541, 6544-6547) e l’Epitome Astronomiae Copernicanae (6541, 6568) — documentano un sistema in cui «i poli magnetici di un pianeta cercano il sole, mentre l’altro ne viene respinto» (6549), generando un’oscillazione ciclica tra apelio e perielio (6550-6553). L’asse planetario subisce «una lieve deflessione» (6554) per azione solare, con compensazioni temporali che spiegano la precessione delle line degli apsidi (6555-6556).

Il modello si estende a fenomeni collaterali: l’inclinazione assiale dei pianeti — paragonata al «timone di una nave» (6570) — devierebbe le orbite dal piano dell’eclittica, mentre la rotazione planetaria (6585-6587) sarebbe causata sia da forze solari che da «virtù animali» intrinseche (6577, 6582). Nonostante l’analogia con la gravità («la tendenza reciproca di corpi cognati» (6614)) e l’intuizione delle maree lunari (6619, 6625), Keplero resta ancorato a una «forza tangenziale, non attrattiva» (6584), incapace di unificare magnetismo e dinamica celeste. Le lettere (6629-6635) tracciano l’evoluzione empirica della teoria, dalla scoperta dell’orbita ovale di Marte (1602) alla stesura dei capitoli finali (1606), rivelando un metodo basato su «opposizioni planetarie» (6630) e ipotesi progressive.


Note

26. Resistenze e alternative alle teorie kepleriane: tra vortici, epicicli e inerzie culturali

Dall’ostilità ecclesiale alle speculazioni meccaniche: come astronomi e filosofi tentarono — invano — di sostituire o emendare le leggi di Kepler tra il XVII e il XVIII secolo.

Il blocco descrive un periodo di transizione in cui la comunità scientifica, pur accettando progressivamente il sistema copernicano, faticava ad abbracciare integralmente le innovazioni di Kepler. Le resistenze non erano solo di natura religiosa — „the opposition of the Church did not retard the progress of astronomy, though no doubt it made it difficult for the Copernican system to become recognized outside the sphere of professional astronomers“ — ma anche metodologica: molti astronomi, pur seguaci di Copernico, „did not accept the planetary theories of Kepler altogether“, preferendo modelli alternativi come gli epicicli di Lansberg o le orbite coniche di Boulliaud. Quest’ultimo, ad esempio, propose una teoria „ut omnibus aequalis motus partibus respondeant singular partes apparentes“, dove il moto uniforme veniva misurato rispetto a un asse conico immaginario, soluzione giudicata „utterly unreasonable“ per la sua arbitrarietà fisica.

Emergono inoltre tentativi di spiegare meccanicamente i fenomeni celesti senza ricorrere alla gravità newtoniana: Descartes ipotizzò vortici di materia che trascinavano i pianeti, „carried round the sun in a vortex of matter without changing its place relatively to neighbouring particles“, mentre Borelli invocò un equilibrio tra forze centripete e „moving rays“ emesse dai corpi celesti. Queste teorie, pur fallaci, contribuirono a normalizzare il dibattito sul sistema elio-centrico, come dimostra il passaggio dalle cautele di Bacon — che liquidava Copernico come una mera ipotesi — alle aperture di Wilkins, che nel 1640 argomentava „that it is probable our earth is one“ dei pianeti in moto. Il blocco si chiude con un bilancio: Nonostante gli errori, „they did not labour in vain“, poiché tali discussioni accelerarono l’accettazione del copernicanesimo tra gli intellettuali, preparando il terreno per Newton.