Incontro con i poeti antichi e ingresso nel castello
L’incontro con le anime magnanime e l’arrivo in un luogo nobile.
Il narratore incontra un gruppo di grandi poeti antichi, tra cui Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, che lo accolgono onorevolmente nella loro schiera, facendo di lui “sesto tra cotanto senno”. Insieme, attraversano sette mura e sette porte fino a giungere in un “prato di fresca verdura”, un nobile castello dove risiedono spiriti autorevoli. Qui il narratore osserva una moltitudine di figure illustri del passato, come Ettore, Enea, Cesare “armato con li occhi grifagni”, e filosofi come Socrate e Platone, che onorano “il maestro di color che sanno”. Tuttavia, la descrizione di questa folla è incompleta, poiché “il lungo tema” fa sì che “molte volte al fatto il dir vien meno”. La compagnia si scioglie quindi e il narratore, guidato dal “savio duca”, si allontana da quella “queta” atmosfera.
La discesa nel secondo cerchio e la pena dei lussuriosi
Ingresso nel regno del tormento e incontro con le anime travolte dalla passione.
La scena si sposta bruscamente nel secondo cerchio dell’Inferno, un luogo di “ruina” dove “non è che luca”. Qui, i “peccator carnali, che la ragion sommettono al talento”, sono dannati a un tormento senza fine, trasportati da un vento impetuoso come “li stornei ne portan l’ali nel freddo tempo”. Il narratore vede una schiera di ombre “traendo guai” e chiede al maestro di identificarle. Vengono nominate figure storiche e mitologiche la cui vita fu segnata dalla lussuria: Semiramìs, “che libito fé licito in sua legge”, Didone, Cleopatra, Elena e Achille. All’ingresso di questo cerchio, Minosse “orribilmente, e ringhia”, giudica le anime e assegna loro la pena, avvolgendole con la sua coda. Dopo un breve scambio tra Minosse e Virgilio, il narratore procede, mentre “incomincian le dolenti note a farmisi sentire”.
Canto 2: Il racconto di Francesca e l’ingresso nel terzo cerchio
La tragica rievocazione di un amore colpevole e l’arrivo nel regno della voracità.
Il racconto di Francesca da Rimini rievoca, tra il pianto, la nascita del suo amore per Paolo, nato durante la lettura di un romanzo cavalleresco: “Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse”. La passione scaturisce da un momento preciso della lettura, “ma solo un punto fu quel che ci vinse”, culminando in un bacio che definisce il libro e il suo autore come un “Galeotto”, un ruffiano. La potenza del ricordo “ne la miseria” commuove a tal punto Dante da farlo svenire, “così com’ io morisse”. Al risveglio, il poeta si trova nel terzo cerchio, dove una “piova etterna, maladetta, fredda e greve” cade incessante su anime immerse nel fango. Qui è posto a guardia Cerbero, fiera “crudele e diversa” con tre gole, che graffia e scuoia gli spiriti. Virgilio placa la belva gettandogli della terra in gola, “quelle facce lorde de lo demonio Cerbero”, permettendo il proseguimento del viaggio. Tra le ombre, una si leva e interpella Dante, rivelando di essere Ciacco, un concittadino di Firenze, la città piena d’invidia che “già trabocca il sacco”.
La prova alla porta di Dite e l’attesa dell’aiuto
Virgilio, affrontato il rifiuto dei demoni, confida nel soccorso promesso.
Sommario
I demoni chiudono le porte di Dite in faccia a Virgilio, affermando che Dante, “sì ardito intrò per questo regno”, deve rimanere mentre Virgilio, che “li ha’ iscorta sì buia contrada”, deve tornare indietro solo. Dante, sconfortato, teme di non poter “ritornarci mai” e supplica il suo “caro duca”. Virgilio lo rassicura: “Non temer; ché ‘l nostro passo non ci può tòrre alcun”. Tuttavia, si allontana per parlare con i demoni, lasciando Dante in preda all’incertezza. Al suo ritorno, Virgilio appare sconfitto, con gli occhi “rase d’ogne baldanza”, e si lamenta: “Chi m’ha negate le dolenti case!”. Spiega poi a Dante che questa “tracotanza non è nova” e che un aiuto, del quale attende con impazienza l’arrivo (“Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!”), scenderà attraverso i cerchi per aprire la via. Per placare le paure di Dante, Virgilio rivela di essere già disceso una volta fino al fondo, “congiurato da quella Eritón cruda”, e quindi conosce bene il cammino. Intanto, sulla torre, compaiono le tre Furie, “feroci Erine”, Megera, Aletto e Tesifón, che si graffiano il petto e invocano Medusa: “Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto”. Virgilio, temendo che Dante possa vedere la Gorgone, gli gira le spalle e gli chiude gli occhi con le sue mani, perché “se ‘l Gorgón si mostra e tu ‘l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso”. Un forte fracasso annuncia infine l’arrivo del soccorso atteso, che fa fuggire le anime dannate come “le rane innanzi a la nimica biscia”.
Canto XI.4
Discesa alla ripa del cerchio infernale dei violenti e spiegazione dell’ordinamento morale dei peccati di malizia.
Il maestro e il discepolo si riparano dal fetore presso la tomba di papa Anastasio. Virgilio annuncia la struttura dei tre cerchi seguenti, pieni di “spirti maladetti”. Spiega che ogni malizia che acquista odio in cielo ha per fine l’ingiuria, arreccata “o con forza o con frode”. Poiché la frode è “de l’uom proprio male”, i fraudolenti stanno più in basso e soffrono maggior dolore. Il cerchio dei violenti è distinto in tre gironi, a seconda che la forza sia fatta “A Dio, a sé, al prossimo”. Nel primo girone sono tormentati “omicide e ciascun che mal fiere, guastatori e predon”; nel secondo, chi usa violenza sui propri beni, come chi “biscazza e fonde la sua facultade”; nel terzo, chi bestemmia e offende la divinità. La frode, che morde “ogne coscïenza”, si divide in due modi: quella contro chi non si fida, che recide “lo vinco d’amor che fa natura” ed è punita nel secondo cerchio con ipocrisia e simonia; e quella contro chi fida, che dimentica l’amore naturale e quello aggiunto della fede, ed è punita nel cerchio minore di Dite con i traditori. Dante chiede poi perché i lussuriosi della “palude pingue” non siano puniti dentro la città di Dite. Virgilio risponde rimproverando l’intelletto che “tanto delira” e richiamando la distinzione dell’Etica tra “incontenenza, malizia e la matta bestialitade”, spiegando che l’incontinenza “men Dio offende” e quindi subisce una pena minore. Soddisfatto, Dante chiede un ulteriore chiarimento sull’usura.
Titolo 5
Viaggio nella Bolgia dei Tiranni e nel Bosco dei Suicidi
Sommario: Il passo descrive l’attraversamento del primo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro il prossimo. Chirón affida la guida a Nesso, che conduce i poeti lungo un fiume di sangue bollente, il “bollor vermiglio”, punizione per “tiranni che dier nel sangue e ne l’aver di piglio”. Tra i dannati, il centauro indica Alessandro, “Dïonisio fero”, Azzolino e Opizzo da Esti, spiegando che la profondità del fiume varia a seconda della gravità della colpa, “infin ch’el si raggiunge ove la tirannia convien che gema”. La giustizia divina punisce anche Attila, “flagello in terra”, e Rinier da Corneto. Successivamente, i poeti entrano in un bosco “che da neun sentiero era segnato”, il secondo girone, destinato ai suicidi. La vegetazione è orrida: “Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti”. Qui nidificano le Arpie, con “Ali hanno late, e colli e visi umani”, che “fanno lamenti in su li alberi strani”. Virgilio spiega a Dante di essere nel girone dove si scontra la pena per chi “ebbero contra sé medesimi violenta mano”. Il canto si chiude con l’invito a spezzare un ramo per comprendere la natura delle voci che piangono, poiché “li pensier c’ hai si faran tutti monchi”.
L’incontro con i suicidi nella selva dei dannati
Un dannato si rivela strappando un ramo e spiega la sua condanna, descrivendo la natura del supplizio.
Sommario
Il blocco descrive l’incontro con le anime dei suicidi, trasformate in alberi sterili e torturate dalle Arpie. Virgilio spinge Dante a parlare con un tronco, che si identifica come Pier della Vigna, ministro di Federico II, il quale racconta di essersi tolto la vita per la disperazione causata da calunnie di corte, affermando: “L’animo mio, per disdegnoso gusto, / credendo col morir fuggir disdegno, / ingiusto fece me contra me giusto”. Spiega poi la condanna delle anime suicide, che, giunte nella selva “senza scelta”, germogliano come alberi; le Arpie, “pascendo poi de le sue foglie, / fanno dolore, e al dolor fenestra”. Il loro corpo carnale sarà appeso ai rami nel Giudizio Universale. La scena è interrotta dall’arrivo di due dannati inseguiti da cagne infernali.
Il terzo girone e la pioggia di fuoco
Canto XIV: la giustizia divina sui violenti contro Dio.
Il canto si apre con la continuazione dell’incontro con il suicida fiorentino, che rivela la sua identità e la causa della sua dannazione: “Io fei gibetto a me de le mie case”. Dopo aver raccolto le sue fronde, i poeti giungono ai confini del terzo girone, una “landa” di sabbia arida circondata dalla selva dei suicidi. Qui, “anime nude” in diverse posizioni - supine, sedute o in movimento continuo - subiscono una pena caratterizzata da una pioggia di fuoco che cade “d’un cader lento” su una rena che “s’accendea, com’esca sotto focile, a doppiar lo dolore”. L’autore, per descrivere la scena, ricorre a una similitudine storica, paragonando le fiamme a quelle viste da Alessandro Magno in India. La vista di tale tormento suscita una riflessione sulla giustizia divina: “O vendetta di Dio, quanto tu dei / esser temuta”.
Inferno, Canto VIII: Discesa sul dorso di Gerione
Dalla sabbia infuocata alla prima bolgia di Malebolge.
Il poeta, guidato da Virgilio, incontra la mostruosa figura di Gerione, simbolo di frode, e ne descrive minuziosamente l’aspetto ibrido: “La faccia sua era faccia d’uom giusto” ma “d’un serpente tutto l’altro fusto”. Per ordine della guida, Dante si avventura da solo tra i dannati della sabbia, osservandone il tormento e le borse colorate che li identificano, finché un dannato, Venedico Caccianemico, gli parla prima di essere percusso da un demonio. I due poeti salgono quindi sul dorso di Gerione per una spaventosa discesa, “Come la navicella esce di loco in dietro in dietro”, fino a raggiungere il fondo. Giunti nella prima bolgia di Malebolge, “tutto di pietra di color ferrigno”, Dante incontra e riconosce i ruffiani, come Venedico, e gli ingannatori, come Giasone, entrambi frustati da demoni. Proseguendo, i poeti giungono alla seconda bolgia, dove gli adulatori sono immersi nello sterco, e qui Dante dialoga con Alessio Interminelli e osserva la prostituta Taide.
Inferno 9: Indovini, Maghi e Barattieri nella Pece Bollente
Tra i fraudolenti puniti, Dante incontra indovini e maghi, poi assiste alla punizione dei barattieri in una bolgia di pece, con l’intervento minaccioso dei diavoli Malebranche.
Sommario
Virgilio indica a Dante le anime degli indovini, tra cui Euripilo, che “diede ‘l punto con Calcanta in Aulide a tagliar la prima fune“, e maghi come Michele Scotto, che ”de le magiche frode seppe ’l gioco“. Vengono poi mostrate ”le triste che lasciaron l’ago, la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine“. Il viaggio prosegue verso la bolgia dei barattieri, dove la pece bolle ”non per foco ma per divin’ arte”. Qui, un diavolo della famiglia Malebranche getta un dannato, un anziano di Lucca, nella pece, gridando “ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo”. I diavoli minacciano il dannato, costringendolo a nuotare nascosto, “sì che, se puoi, nascosamente accaffi”. Virgilio, esperto di tali liti, affronta da solo i diavoli, intimando “Nessun di voi sia fello!” prima di avviare un dialogo.
Blocco 10: La fuga dai Malebranche e l’inganno del barattiere
Dall’inganno alla zuffa tra diavoli nella bolgia dei barattieri.
Il dialogo tra Virgilio e il dannato rivela l’identità di “frate Gomita, quel di Gallura, vasel d’ogne froda” e di donno Michel Zanche, figure di barattieri sardi. Il dannato, per distrarre i diavoli, propone di far “venir sette” nuovi peccatori, ma Cagnazzo sospetta la “malizia ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!”. Sfruttando la lite tra Alichin e Calcabrina, che si sfidano a “veder se tu sol più di noi vali”, “Lo Navarrese ben suo tempo colse” e fugge. La rissa tra i diavoli provoca la caduta di Calcabrina e Alichin nella pece bollente, “e amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno”, permettendo a Dante e Virgilio di allontanarsi mentre i diavoli sono “così ’mpacciati”. Il poeta, riflettendo sulla “favola d’Isopo… de la rana e del topo”, è preso dal timore di una vendetta dei Malebranche, pensando: “ei ne verranno dietro più crudeli che ’l cane a quella lievre”. Virgilio, intuendo i suoi pensieri, propone di scendere nella bolgia successiva per “fuggirem l’imaginata caccia”. Appena visto il pericolo, “li vidi venir con l’ali tese”, Virgilio afferra Dante e, “come la madre ch’al romore è desta”, si getta “giù dal collo de la ripa dura” verso la sesta bolgia.
Incontro con gli ipocriti e ascesa dalla bolgia
Due frati godenti bolognesi, Catalano e Loderingo, interrogano Dante sulla sua natura di vivo. Spiegano la loro pena: “Le cappe rance son di piombo sì grosse”. Rivelano l’identità di Caifas, “crucifisso in terra con tre pali”, che “consigliò i Farisei che convenia / porre un uom per lo popolo a’ martìri”. Virgilio, dopo aver mostrato stupore, chiede una via d’uscita e viene indirizzato verso un ponte rotto.
Virgilio aiuta Dante nella faticosa scalata del dirupo. Il maestro incita il discepolo allo sforzo: “ché, seggendo in piuma, / in fama non si vien, né sotto coltre”. Dante, rinvigorito, proclama: “Va, ch’i’ son forte e ardito”.
L’incontro con Anteo e la discesa nel pozzo dei traditori
Virgilio e Dante, guidati dal gigante Anteo, scendono nella zona più profonda dell’Inferno, il pozzo dei traditori, immerso in un lago di ghiaccio.
Sommario
Il maestro Virgilio persuade il gigante Anteo a calarli “dove Cocito la freddura serra”, promettendogli che “Ancor ti può nel mondo render fama”. Dopo la discesa, descritta con la similitudine della Carisenda “sotto ‘l chinato”, i poeti giungono in un ambiente orribile. Il luogo è un “lago che per gelo avea di vetro e non d’acqua sembiante”, così solido che “se Tambernicchi vi fosse sù caduto… non avria pur da l’orlo fatto cricchi”. Qui sono puniti i traditori, immersi nel ghiaccio con “li occhi lor… pur dentro molli” e le lacrime bloccate dal freddo che “‘l gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli”. Viene presentato il tema dei traditori della patria e della famiglia, rappresentati da due dannati così uniti che “‘l pel del capo avieno insieme misto” e che cozzano “come due becchi” per l’ira. Un altro dannato, Camicione de’ Pazzi, spiega l’identità dei due, affermando di attendere un congiunto, “e aspetto Carlin che mi scagioni”.
Uscita dall’Inferno e Ingresso nel Purgatorio
Dall’osservazione dei traditori alla risalita verso la luce, passando per l’inversione della prospettiva cosmica.
Il viaggio culmina con la vista di Lucifero conficcato nel ghiaccio, la cui scalata permette di oltrepassare il centro della Terra. Virgilio spiega il capovolgimento dei punti di riferimento, affermando: “Tu imagini ancora d’esser di là dal centro” e che “Di là fosti cotanto quant’io scesi; quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto al qual si traggon d’ogne parte i pesi”. La risalita avviene attraverso un cammino nascosto, fino a giungere a un pertugio tondo che mostra “de le cose belle che porta ’l ciel”, per poi uscire all’aperto. L’arrivo nel Purgatorio è segnato da un nuovo proemio, dove il poeta invoca le Muse, e dalla visione di un cielo sereno e di quattro stelle mai viste, simbolo delle virtù cardinali, prima dell’incontro con un veglio degno di grande reverenza.
Incontro con Catone 14
L’arrivo all’isola del Purgatorio e il dialogo con il guardiano.
Virgilio spiega a Catone la missione affidata da Beatrice, finalizzata alla redenzione di Dante, che cerca la libertà. Viene menzionata Marzia per ottenere benevolenza, ma Catone chiarisce i limiti della legge ultraterrena. Il custode fornisce poi le istruzioni per la purificazione iniziale, ordinando di cingere Dante con un giunco e di lavargli il viso, affinché, “ogne sucidume quindi stinghe” e sia presentabile al “primo ministro, ch’è di quei di paradiso”. Viene infine indicata la via da seguire, poiché “lo sol vi mosterrà, che surge omai, prendere il monte a più lieve salita”.
Incontro con Manfredi e ascesa alla piaggia
Incontro con lo spirito del re Manfredi di Sicilia e descrizione della faticosa salita.
Sommario
Il blocco si apre con l’incontro tra i pellegrini e un gruppo di anime, tra le quali spicca quella di Manfredi di Sicilia. Egli si presenta come il “nepote di Costanza imperadrice” e racconta di aver trovato la salvezza nonostante i suoi “orribil… peccati”, poiché “la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei”. Affida a Dante un messaggio per la figlia Costanza, affinché lei sappia la verità sulla sua sorte, e spiega la condizione particolare della sua pena, legata alla “contumacia” nella quale è morto. Il testo prosegue con una digressione dottrinale sulla natura dell’anima e sulla sua capacità di concentrarsi, un concetto di cui il poeta fa “esperïenza vera” ascoltando lo spirito, tanto da non accorgersi del passare del tempo. La parte finale è dedicata alla faticosa ascesa dei due lungo un sentiero angusto, “onde salìne / lo duca mio, e io appresso, soli”, un’impresa che richiederebbe di “voli; / dico con l’ale snelle e con le piume / del gran disio”. La fatica fisica del narratore è palpabile quando, giunto in “su l’orlo suppremo”, esclama: “O dolce padre, volgiti, e rimira / com’io rimango sol, se non restai”.
Incontro con le anime del Purgatorio (16)
Anime morte di morte violenta implorano preghiere.
Il sommario riferisce l’incontro con le anime trapassate per forza, desiderose di notizie e di suffragi. Viene descritta la loro richiesta di rallentare il passo e la loro condizione di morti peccatori ma redenti, “pentendo e perdonando”. Due anime in particolare, Jacopo del Cassero e Bonconte da Montefeltro, si fanno avanti. La prima chiede preghiere per la sua purgazione, raccontando di essere stato assassinato in un agguato per ordine di Azzo VIII d’Este: “li profondi fóri ond’uscì ’l sangue… fatti mi fuoro in grembo a li Antenori”. La seconda, Bonconte, morto nella battaglia di Campaldino, narra la sua fine presso il fiume Archiano, dove, “forato ne la gola”, spirò invocando Maria, mentre si consumava la contesa per la sua anima tra “l’angel di Dio” e un demone.
Blocco 17: L’incontro con Sordello e l’invettiva contro l’Italia
Un’anima lombarda si rivela e scatena una feroce invettiva sulla condizione politica dell’Italia, seguita da un’accusa a Firenze.
Il pellegrino e Virgilio, desiderosi di accelerare la salita, incontrano l’anima solitaria di Sordello. Dopo un iniziale silenzio altero, la rivelazione della comune origine mantovana provoca un commovente abbraccio tra i due poeti. Questo gesto di solidarietà municipale diventa il pretesto per una violenta invettiva contro l’Italia, definita “serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!”. La polemica si allarga alla denuncia delle lotte intestine, dell’assenza dell’imperatore e della corruzione dei tiranni locali, con un’accusa diretta a Firenze per la sua instabilità e le sue leggi ineffettive, “che fai tanto sottili / provedimenti, ch’a mezzo novembre / non giugne quel che tu d’ottobre fili”. Dopo questa digressione, il dialogo riprende con Sordello che interroga Virgilio sulla sua identità e condizione, per poi offrirsi come guida verso un luogo di sosta per la notte.
Blocco 18: Incontri e riflessioni sulla superbia
Purgatorio: i superbi e la vanità della fama terrena.
Sommario
Il blocco presenta l’incontro con due anime della superbia, Omberto Aldobrandesco e Oderisi da Gubbio, che espongono le cause della loro condanna. Omberto attribuisce la sua rovina all’arroganza derivata dal “l’antico sangue e l’opere leggiadre” dei suoi antenati, che lo portò ad avere “ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante”. Oderisi, miniaturista, riflette sulla vanità della gloria mondana, affermando che “più ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese” e che “l’onore è tutto or suo, e mio in parte”. La sua meditazione si allarga alla caducità della fama in ogni arte, citando come “Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido” e come un Guido abbia tolto “a l’altro Guido la gloria de la lingua”. Egli conclude che “Non è il mondan romore altro ch’un fiato di vento” e che “La vostra nominanza è color d’erba, che viene e va”. Viene poi introdotta la figura di Provenzan Salvani, la cui presunzione di “recar Siena tutta a le sue mani” è mitigata da un atto di umiltà compiuto in vita, quando “per trar l’amico suo di pena… si condusse a tremar per ogne vena”. L’episodio si chiude con Dante che, su invito di Virgilio, si raddrizza dopo aver camminato chinato accanto alle anime.
Note e riferimenti
Il testo è tratto dal Purgatorio della Divina Commedia. Le anime punite sono costrette a portare pesanti macigni che le tengono chine a terra.
Titolo 19: Visione e Incontro nel Fummo
Attraversamento di una nebbia oscura e dialogo con l’anima di Marco Lombardo.
Sommario
Dante, sconvolto da una visione, procede con fatica finché Virgilio lo rimprovera affettuosamente per il suo torpore, spiegando che il suo interrogare serviva a “darti forza al piede”. I due poeti avanzano poi nel vespero, quando un “fummo farsi verso di noi come la notte oscuro”, così denso da togliere “li occhi e l’aere puro”. Questo fumo, paragonato a un “buio d’inferno”, costringe Dante ad aggrapparsi a Virgilio “sì come cieco va dietro a sua guida”. Nell’oscurità, si odono voci che cantano in perfetta concordia “pur ‘Agnus Dei’”, preghiere di anime che “d’iracundia van solvendo il nodo”. Interpellato da una di queste voci, Dante rivela la sua natura di vivo, dichiarando “Con quella fascia che la morte dissolve men vo suso, e venni qui per l’infernale ambascia”, e chiede di conoscere l’identità dell’interlocutore e la retta via. L’anima si presenta: “Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco”, affermando che Dante sta procedendo correttamente, “Per montar sù dirittamente vai”, e chiedendo infine preghiere per la sua redenzione.
Canto 20: Visioni e la Natura dell’Amore
Una sequenza di visioni profetiche precede un trattato sulla genesi dell’amore e sul libero arbitrio.
Il pellegrino è investito da una serie di visioni esemplari: l’impietà di una donna trasformata in un uccello, un “crucifisso, dispettoso e fero”, e una fanciulla che piange la madre suicida, esclamando “Ancisa t’ hai per non perder Lavina; or m’ hai perduta! Io son essa che lutto”. Queste immagini svaniscono quando una luce più potente del consueto colpisce il suo volto. Una voce guida, un “divino spirito” che agisce senza essere pregato, li esorta a salire prima del calare della notte. Virgilio, definito “quel padre verace”, intraprende poi una dissertazione sulla natura dell’amore, spiegando che l’anima è “creato ad amar presto” e si volge verso ciò che piace, e che “quel piegare è amor”. Distingue tra l’istinto amoroso iniziale, che non ha merito, e la facoltà razionale che dà il consenso, “l’assenso”, affermando che “Quest’è ’l principio là onde si piglia / ragion di meritare”. La spiegazione si conclude con il riferimento al “libero arbitrio” che Beatrice intenderà. Il canto si chiude con l’arrivo di una folla di anime penitenti, che corrono citando esempi di solerzia come “Maria corse con fretta a la montagna” e Cesare che “punse Marsilia e poi corse in Ispagna”.
Il quinto girone e l’incontro con Ugo Ciappetta
Canto del Purgatorio dedicato alla punizione dell’avarizia e della prodigalità, con l’apparizione dell’ombra di Stazio e il dialogo rivelatore con l’anima di Ugo Capeto.
Il canto si apre con la sete di conoscenza del pellegrino, “mi travagliava, e pungeami la fretta”, mentre segue Virgilio. Appare un’ombra che li saluta, “O frati miei, Dio vi dea pace”, identificata poi come Stazio. Virgilio spiega la loro missione: “per mostrarli, e mosterrolli oltre, quanto ‘l potrà menar mia scola“. Prima di questo incontro, Dante ascolta le voci che celebrano esempi di povertà virtuosa, come ”la larghezza che fece Niccolò a le pulcelle“. Interrogando l’anima che parla, ”dimmi chi fosti“, scopre essere Ugo Capeto, che si definisce ”radice de la mala pianta che la terra cristiana tutta aduggia“. Egli narra le origini umili, ”Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi”, e l’ascesa al potere della sua dinastia, “di me son nati i Filippi e i Luigi”, denunciandone le colpe iniziate “con forza e con menzogna la sua rapina”.
Incontro con Stazio nel Purgatorio (22)
Dall’incontro con l’ombra del poeta Stazio alla spiegazione della sua permanenza nel Purgatorio.
Sommario
L’ombra rivela la propria identità: “Stazio la gente ancor di là mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille”. Spiega di aver scontato oltre cinquecento anni per la colpa della prodigalità, poiché “avarizia fu partita troppo da me, e questa dismisura migliaia di lunari hanno punita”. La sua conversione al Cristianesimo avvenne grazie all’influsso delle opere di Virgilio, definendo l’Eneide “la qual mamma fummi, e fummi nutrice, poetando: sanz’essa non fermai peso di dramma”. L’incontro è segnato dalla commozione di Stazio alla rivelazione che la guida di Dante è proprio Virgilio, tanto che tenta di abbracciarne i piedi, esclamando: “Or puoi la quantitate comprender de l’amor ch’a te mi scalda, quand’io dismento nostra vanitate”. Viene inoltre chiarito un equivoco: Virgilio, avendo interpretato alcuni versi di Stazio, aveva creduto che il collega fosse avaro, ma questi spiega che la sua colpa fu l’eccesso opposto, la prodigalità, correggendo il maestro: “La tua dimanda tuo creder m’avvera esser ch’i’ fossi avaro in l’altra vita, forse per quella cerchia dov’io era”.
Purgatorio: Canto 23
Giunto al girone dei lussuriosi, dove le fiamme purificano e le anime cantano esempi di castità.
Sommario
Il passo tratta della natura dell’anima umana e della sua formazione, spiegando come “lo motor primo a lui si volge lieto / sovra tant’arte di natura, e spira / spirito novo, di vertù repleto” che, unendosi a quanto trova attivo nel feto, “fassi un’alma sola, che vive e sente e sé in sé rigira”. Viene poi illustrato il distacco dell’anima dal corpo alla morte, quando “solvesi da la carne, e in virtute / ne porta seco e l’umano e ’l divino”, e la successiva formazione dell’ombra nel Purgatorio, dove “l’aere vicin quivi si mette / e in quella forma ch’è in lui suggella / virtüalmente l’alma che ristette”. Si precisa che è proprio questa forma a permettere le manifestazioni sensibili, poiché “quindi organa poi / ciascun sentire infino a la veduta” e “Secondo che ci affliggono i disiri / e li altri affetti, l’ombra si figura”. Il canto prosegue descrivendo l’arrivo dei poeti nell’ultima cornice, dove un muro di fiamme costringe a camminare in fila e dove le anime, pur tra le fiamme, cantano inni alla castità, gridando “Virum non cognosco” e celebrando “donne e mariti che fuor casti / come virtute e matrimonio imponne”. L’attenzione si sposta infine sull’incontro con un gruppo di anime che, notando l’ombra proiettata da Dante, ne sono incuriosite e gli si avvicinano con cautela, fino a che una di loro, ardendo “in sete e ’n foco”, gli si rivolge per chiedere spiegazioni.
La Trasformazione dell’Albero e il Risveglio
La processione celeste giunge a un albero spoglio, simbolo del peccato originale, e il grifone lega il carro al suo tronco.
Sommario
Il grifone conduce il carro al piede di un albero spoglio, mentre la milizia celeste scompare. L’albero, identificato dal mormorio “Adamo”, viene lodato perché il grifone “non discindi col becco d’esto legno dolce al gusto”. Al contatto con il temo del carro, la pianta si trasforma, rinnovandosi di un colore “men che di rose e più che di vïole”. Dante, sopraffatto, si addormenta e si risveglia per uno splendore e una voce. Ritrovata Matelda, apprende che Beatrice è seduta sotto la fronda nova, circondata dalle sette ninfe, mentre gli altri salgono al cielo. Beatrice profetizza a Dante: “Qui sarai tu poco tempo silvano; e sarai meco sanza fine cive di quella Roma onde Cristo è romano”.
Titolo 25: Le visioni del carro e le profezie di Beatrice
Una serie di visioni allegoriche mostra la corruzione della Chiesa, seguita dalla spiegazione di Beatrice sulle future punizioni divine e sulla redenzione.
Sommario
Beatrice ordina a Dante di osservare e trascrivere le visioni che si susseguono. Un’aquila, “l’uccel di Giove”, piomba sul carro con violenza, piegandolo “come nave in fortuna”. Una volpe affamata, subito scacciata, e un drago che emerge dalla terra e sfonda il carro con la coda, completano gli attacchi iniziali. Il carro si trasforma allora, ricoprendosi di piume e sviluppando “sete teste per le parti sue”, tre collegate al timone e una per ogni lato, un mostro mai visto prima, con le prime tre teste “cornute come bue” e le altre quattro con un solo corno. Appare poi “una puttana sciolta”, seduta sul mostro, e un gigante che, preso da sospetto e ira, la flagella e trascina via la creatura nella selva. Beatrice, dopo aver ascoltato con le sue compagne il salmo ‘Deus, venerunt gentes’, annuncia in latino: “Modicum, et non videbitis me; et iterum… modicum, et vos videbitis me” (“Un poco, e non mi vedrete; e poi di nuovo… un poco, e mi vedrete”). Spiega quindi a Dante il significato profetico delle visioni: “il vaso che ’l serpente ruppe, fu e non è”, ma “non sarà tutto tempo sanza reda l’aguglia”. Profetizza l’arrivo di un messo di Dio, “un cinquecento diece e cinque” (515), che “anciderà la fuia con quel gigante”. Ammette che la sua narrazione possa essere “buia, qual Temi e Sfinge”, ma assicura che i fatti risolveranno l’enigma. Conclude ordinando a Dante di riferire tutto ai vivi e di non celare la visione della pianta “ch’è or due volte dirubata”, poiché chi la danneggia “con bestemmia di fatto offende a Dio”. Spiega infine che la distanza tra la sua dottrina e quella filosofica seguita da Dante è grande “quanto si discorda da terra il ciel”, giustificando così la difficoltà del pellegrino nel comprendere appieno.
Blocco 26
Dall’oblio terreno alla soglia del Paradiso: il viaggio si fa celeste.
Il pellegrino, purificato dalle acque di Letè ed Eunoè, ascende al Paradiso. Matelda e Beatrice guidano la transizione, mentre Stazio si unisce al cammino. Dante, “puro e disposto a salire a le stelle”, varca la soglia del regno celeste. L’autore introduce la terza cantica, invocando Apollo per l’impresa poetica suprema. L’ascesa nel cielo della Luna inizia con una spiegazione cosmologica: Beatrice chiarisce la natura del luogo, affermando che “Le cose tutte quante hanno ordine tra loro”, principio che governa l’universo. Il travolgente ingresso è segnato da una luce accecante e da un suono armonioso, che accendono in Dante un “disio mai non sentito”. Il “trasumanar”, l’andare oltre l’umano, non può essere adeguatamente espresso a parole.
Ascesa alla Luna e la Natura delle Macchie Lunari
Piccioletta barca e l’ingresso nella Luna.
Il passaggio nel cielo della Luna e la spiegazione delle sue macchie. L’autore, guidato da Beatrice, ascende velocemente al primo cielo, descrivendo l’ingresso in una sostanza luminosa e solida. Pone quindi alla guida la questione delle “ombre” lunari, credute dalla tradizione terrestre segni di Caino. Beatrice invita l’autore a esprimere la sua ipotesi, che attribuisce il fenomeno a “corpi rari e densi”. Ella si appresta a confutare questa teoria con un serrato argomentare, asserendo che “se raro e denso ciò facesser tanto, una sola virtù sarebbe in tutti”, mentre i lumi della sfera ottava mostrano “diversi volti”. Preannuncia che se la sua confutazione avrà successo, “falsificato fia lo tuo parere”.
Meccanica Celeste e Apparizioni Lunari
Spiegazione dell’ordine cosmico e incontro con le anime della Luna.
Sommario
Il testo espone la struttura dell’universo, dove “dentro dal ciel de la divina pace / si gira un corpo ne la cui virtute / l’esser di tutto suo contento giace”, descrivendo una gerarchia di cieli che “così vanno, / come tu vedi omai, di grado in grado, / che di sù prendono e di sotto fanno”. L’influenza degli “beati motor” si trasmette ai cieli, poiché “il moto e la virtù d’i santi giri, / […] da’ beati motor convien che spiri”, e l’intelligenza moltiplica la sua bontà “per le stelle spiega, / girando sé sovra sua unitate”. La diversità delle cose non nasce “da denso e raro”, ma da un “formal principio che produce, / conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro”. Segue la narrazione di una visione di “più facce a parlar pronte”, inizialmente scambiate per riflessi, rivelatesi invece “vere sustanze […] qui rilegate per manco di voto”, spiriti con cui il narratore si accinge a dialogare.
Ascesa al Cielo del Sole e Incontro con gli Spiriti Sapienti
Salita inconscia con Beatrice verso la sfera solare. Invito al ringraziamento e visione di una corona di spiriti luminosi.
Il narratore ascende rapidamente al Cielo del Sole, guidato da Beatrice, senza averne piena coscienza. La luce del sole è ineffabile, superiore a ogni immaginazione umana. Beatrice invita a ringraziare Dio, provocando una devozione totale che temporaneamente eclissa la stessa donna amata. Si manifesta una corona di spiriti fiammeggianti, “più dolci in voce che in vista lucenti”, che circondano i due viandanti. Il loro canto è una gioia celeste inesprimibile. Uno di loro, Tommaso d’Aquino, si presenta e spiega la natura del gruppo: sono gli spiriti sapienti della “quarta famiglia de l’alto Padre”. Egli inizia a identificare i componenti del coro, menzionando Alberto Magno, Graziano e Pietro Lombardo, e accenna a una “quinta luce” di amore e sapienza eccezionali, tale che “a veder tanto non surse il secondo”.
La Natura, la Grazia e la Visione Futura
Della discesa delle potenze divine, della variabilità della natura umana e della luce eterna dell’anima.
Il testo tratta della discesa graduale della potenza divina, che “più non fa che brevi contingenze”, ovvero le cose generate. Spiega la diversità naturale tra gli uomini, paragonando l’influenza celeste a un sigillo su cera di qualità variabile: “la natura la dà sempre scema, similemente operando a l’artista ch’a l’abito de l’arte ha man che trema”. Viene poi discusso il caso eccezionale di Salomone, la cui “regal prudenza” lo distingue, e si mette in guardia dal giudicare senza distinzione, poiché “quelli è tra li stolti bene a basso, che sanza distinzione afferma e nega”. La parte conclusiva risponde a un dubbio sulla luce dell’anima dopo il Giudizio Universale: la “luce onde s’infiora / vostra sustanza” rimarrà eternamente. La visione di Dio, l’ardore e il raggio di luce cresceranno progressivamente, poiché “la sua chiarezza séguita l’ardore; l’ardor la visïone, e quella è tanta, quant’ ha di grazia sovra suo valore”. Anche dopo la resurrezione dei corpi, la luce “non potrà tanta luce affaticarne: ché li organi del corpo saran forti a tutto ciò che potrà dilettarne”. Vengono citati, come esempi negativi, filosofi come Parmenide e eretici come Sabellio e Arrio, “che furon come spade a le Scritture / in render torti li diritti volti”.
Profezia e Rimpianto di Cacciaguida
Cacciaguida rievoca l’antica Firenze e preannuncia l’esilio di Dante.
Viene descritta l’antica nobiltà fiorentina, pura e gloriosa, in contrasto con la decadenza presente causata dall’arrivo di nuove famiglie e dalla confusione sociale: “la cittadinanza, ch’è or mista di Campi, di Certaldo e di Fegghine, pura vediesi ne l’ultimo artista”. L’avo elenca le grandi schiatte del passato, come “li Ughi e… i Catellini, Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi”, e rimpiange i tempi in cui “Fiorenza in sì fatto riposo, che non avea cagione onde piangesse”. Viene poi spiegato come “la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade”, citando l’esempio della famiglia Buondelmonti, il cui rifiuto delle nozze portò lutti: “o Buondelmonte, quanto mal fuggisti le nozze süe per li altrui conforti!”. Infine, Cacciaguida, guardando nel punto “a cui tutti li tempi son presenti”, profetizza l’esilio del poeta con parole chiare: “Qual si partio Ipolito d’Atene per la spietata e perfida noverca, tal di Fiorenza partir ti convene”, confortandolo però definendolo “ben tetragono ai colpi di ventura”.
Titolo 32: La Giustizia Divina e la Corruzione Terrena
Visione celeste nel sesto cielo: le anime beate formano simboli e un’aquila, denunciando l’ingiustizia dei potenti.
Sommario
Le anime del cielo di Giove si dispongono in figure luminose, componendo dapprima le lettere che formano l’esortazione biblica “Amate la giustizia, voi che giudicate la terra”. Successivamente, si organizzano nella sagoma di un’aquila, la quale, parlando con una sola voce, si erge a simbolo della giustizia divina. L’aquila condanna aspramente la corruzione dei sovrani cristiani del tempo, affermando che “or si fa togliendo or qui or quivi lo pan che ’l pio Padre a nessun serra”, evidenziando come l’avidità abbia sostituito la guerra. L’invettiva si conclude con un severo monito per chi detiene il potere temporale, ricordando che “Pietro e Paulo, che moriro per la vigna che guasti, ancor son vivi”, a sottolineare la vivacità della testimonianza dei fondatori della Chiesa contro i suoi attuali corrotti.
Canto 33: La Scala degli Splendori e la Condanna della Corruzione
Discesa di anime luminose e dialogo con un’anima beata sulla predestinazione e la corruzione della Chiesa.
Il narratore assiste alla discesa di una moltitudine di splendori, paragonata a “pole insieme, al cominciar del giorno”, che si dispongono in cerchio. Una di queste luci, particolarmente vicina, si rivela essere l’anima di Pietro Damiano. Il narratore, spinto da Beatrice, gli chiede perché la sua sfera celeste sia silenziosa e perché proprio lui sia stato scelto per avvicinarsi. La luce spiega che il silenzio è dovuto alla percezione umana limitata, “Tu hai l’udir mortal sì come il viso”, e che il suo avvicinarsi è un atto di carità divina, non di maggiore amore. Sulla questione della predestinazione, l’anima afferma che la visione di Dio le permette di comprendere le ragioni supreme, ma che la profondità dell’“etterno statuto” è inconoscibile per qualsiasi mente creata, avvertendo che “La mente, che qui luce, in terra fumma”. Rivelata la sua identità, Pietro Damiano condanna aspramente la corruzione dei “moderni pastori”, che “Cuopron d’i manti loro i palafreni, sì che due bestie van sott’ una pelle”, un grido di protesta che si conclude con un urlo collettivo di tale potenza da sopraffare il narratore, il quale, stupito, si rivolge a Beatrice per essere rassicurato.
Paradiso XXXIV: La visione finale e il trionfo di Cristo
Dalla sfera delle stelle fisse alla corte celeste: ascesa e trionfo.
Il racconto si sposta dalla contemplazione delle stelle fisse alla visione della corte celeste. Dante, guidato da Beatrice, osserva “quanto mondo sotto li piedi già esser ti fei” e ne sorride “del suo vil sembiante”, approvando il distacco dai beni terreni. La vista si volge allora al trionfo di Cristo: “Ecco le schiere del trïunfo di Cristo e tutto ’l frutto ricolto del girar di queste spere!”. Appare una luce abbagliante, “un sol che tutte quante l’accendea”, identificata come la sapienza che “aprì le strade tra ’l cielo e la terra”. Dante, sopraffatto, non sostiene la vista di Beatrice finché lei lo invita a guardare “il bel giardino che sotto i raggi di Cristo s’infiora”, indicando “la rosa in che ’l verbo divino carne si fece”. La scena si popola di schiere di beati e di un angelo che, come “una facella, formata in cerchio a guisa di corona”, canta e circonda Maria, mentre tutti i lumi “facean sonare il nome di Maria”. I beati, come bambini verso la madre, “in sù si stese[ro] con la sua cima” mostrando il loro affetto per la Vergine, in un’apoteosi di luce e devozione che conclude l’ascesa.
Canto 35: La Professione di Fede e la Speranza
L’esame sulla fede e l’arrivo dell’apostolo Giacomo per interrogare Dante sulla speranza.
Il pellegrino professa la sua fede in “uno Dio solo ed etterno, che tutto ’l ciel move, non moto, con amore e con disio”, citando le prove da “Moïsè, per profeti e per salmi, per l’Evangelio”. La sua dichiarazione è così gradita che l’apostolo Pietro lo cinge tre volte, “benedicendomi cantando”. Dopo questa prova, giunge l’apostolo Giacomo, “il barone per cui là giù si vicita Galizia”. Beatrice lo invita a parlare della speranza, definita come “uno attender certo de la gloria futura, il qual produce grazia divina e precedente merto”. Viene inoltre accennato il desiderio di Dante di tornare poeta e di ricevere l’alloro “in sul fonte del mio battesmo”.
Dimostrazione dell’Amore Divino e Dialogo con Adamo
L’essenza divina e la rivelazione del primo amore.
Il discorso verte sulla natura dell’amore per Dio, giustificato dall’intelletto umano e dalle autorità concordi, e spinto da “tutti quei morsi che posson far lo cor volgere a Dio”. L’anima è tratta “del mar de l’amor torto” verso la riva dell’amore retto, amando le creature divine “quanto da lui a lor di bene è porto”. Segue una visione beatifica e l’incontro con l’“anima prima”, Adamo, al quale il poeta si rivolge devotamente. Adamo discerne la voglia del poeta “nel verace speglio” e si accinge a rivelare la durata del suo soggiorno nell’Eden, la “propria cagion del gran disdegno”, e la lingua da lui usata. Spiega che la colpa non fu “il gustar del legno”, ma “solamente il trapassar del segno”. Riferisce di aver desiderato Dio per 4302 anni e di averlo visto tornare sui “lumi de la sua strada” per 930 volte. Afferma che la sua lingua “fu tutta spenta” prima della Torre di Babele, poiché “l’uso d’i mortali è come fronda in ramo”. Rivela infine la durata della sua permanenza nel Paradiso Terrestre.
Titolo 37: La Creazione e la Natura degli Angeli
La creazione degli angeli, la caduta di Lucifero e la difesa della verità scritturale contro gli errori dei dotti.
Sommario
Beatrice spiega la creazione degli angeli, avvenuta simultaneamente con il tempo e l’universo, “in sua etternità di tempo fore”, come un atto d’amore affinché lo splendore divino potesse, “risplendendo, dir ‘Subsisto’”. Descrive la gerarchia cosmica, dove le sostanze angeliche, “quelle furon cima / nel mondo in che puro atto fu produtto”, furono create in “puro atto”, mentre la “pura potenza tenne la parte ima”. Confuta poi l’idea di Girolamo secondo cui gli angeli furono creati molto prima del mondo, affermando che “questo vero è scritto in molti lati / da li scrittor de lo Spirito Santo”. La caduta è attribuita al “maladetto / superbir di colui che tu vedesti / da tutti i pesi del mondo costretto”, mentre gli angeli rimasti fedeli, “modesti / a riconoscer sé da la bontate”, furono premiati con una “ferma e piena volontate”. Beatrice critica aspramente le speculazioni filosofiche terrene che confondono la verità, poiché “tanto vi trasporta / l’amor de l’apparenza e ’l suo pensiero!”, e condanna chi, per apparire, “s’ingegna e face / sue invenzioni”, come la falsa credenza che durante la Passione di Cristo “la luna si ritorse”, quando invece “la luce si nascose / da sé”.
Blocco 38: La Visione della Rosa Celeste e l’Addio a Beatrice
La descrizione della milizia celeste e del congedo dalla guida.
Il testo descrive la visione della candida rosa in cui sono disposte le anime beate, “la milizia santa che nel suo sangue Cristo fece sposa”. Viene illustrato il movimento degli angeli, simili a “schiera d’ape che s’infiora”, tra il fiore e la luce divina, portando “de la pace e de l’ardore”. La luce divina è penetrante, “sì che nulla le puote essere ostante”. Il pellegrino, stupito, osserva “visi a carità süadi” e la “forma general di paradiso”. Un tema minore è la profezia politica: sul “gran seggio” “sederà l’alma… de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia verrà”. Il culmine è l’improvvisa sostituzione di Beatrice con un “sene vestito con le genti glorïose”, che induce il pellegrino a chiedere “Ov’ è ella?”.
La Disposizione dei Beati e la Gloria di Maria - 39
La struttura della Rosa Mistica e la preghiera angelica.
Sommario
Viene descritta la disposizione ordinata dei beati all’interno della candida rosa, “secondo lo sguardo che fée la fede in Cristo”. Da un lato siedono “quei che credettero in Cristo venturo”, ovvero i salvati dell’Antico Testamento, e dall’altro “quei ch’a Cristo venuto ebber li visi”, i salvati del Nuovo. L’ordine è stabilito dalla grazia divina, che “a suo piacer di grazia dota diversamente”, come dimostra l’esempio biblico dei gemelli Esaù e Giacobbe, “che ne la madre ebber l’ira commota”. La scena culmina con la visione di Maria, sulla quale “tanta allegrezza piover, portata ne le menti sante”. L’arcangelo Gabriele, “quello amor che primo lì discese”, le si rivolge cantando “Ave, Maria, grazia piena”, un inno a cui “rispuose a la divina cantilena da tutte parti la beata corte”.