Commissione Moro - 7 Dicembre 2017 - Lettura (23m)
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1: Disciplina, risorse e metodologie operative della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro
Un quadro normativo, finanziario e procedurale: dalla proroga dei termini alle scelte organizzative, tra sobrietà, collaborazioni esterne e innovazioni investigative a quarant’anni dai fatti.
Sommario
Il blocco definisce l’assetto giuridico, economico e operativo della Commissione parlamentare incaricata di riesaminare la vicenda del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro, evidenziando tre ambiti principali: la cornice normativa e temporale, l’organizzazione interna e le modalità di indagine.
La disciplina della Commissione trae origine da atti legislativi specifici, tra cui il „decreto-legge 30 dicembre 2015, n. 210“ (convertito nel 2016), che ha prorogato il mandato „al termine della XVII legislatura“. Nonostante ciò, „nulla è stato innovato“ rispetto alla „legge n. 82 del 2014“ per quanto riguarda „l’organizzazione dei lavori“. Sul versante finanziario, la dotazione è stata „pari a 17.500 euro per gli anni 2014 e 2016 e a 35.000 euro per l’anno 2015“, con una „linea di assoluta sobrietà“ che ha evitato richieste di integrazioni per il 2017.
L’assetto organizzativo si caratterizza per l’adozione di „collaborazioni esclusivamente a titolo gratuito“, senza limiti numerici prefissati: ventisei incarichi conferiti, tra cui „tre ufficiali di collegamento con le forze di polizia“, „sette magistrati“ e „quindici esperti“, „tutti a tempo parziale“ eccetto „i tre ufficiali di collegamento e il dottor Donadio“, a tempo pieno. Le collaborazioni seguono „i criteri stabiliti“ dall’Ufficio di presidenza nel 2015, in esecuzione del „Regolamento interno“.
Le modalità di svolgimento dell’inchiesta mirano a „integrare le conoscenze“ delle precedenti commissioni, senza „una completa riscrittura“ del caso, ma focalizzandosi su „aspetti non approfonditi“ e „specifiche responsabilità“. Le attività si articolano in „acquisizioni documentali“ (2.250 unità, „700.000 pagine“, digitalizzate e indicizzate), „accertamenti delegati“ (oltre 440 incarichi e 256 escussioni) e „libere audizioni“. Tra i risultati, „piste investigative non adeguatamente valorizzate“ e „nuove tecnologie“ applicate a „approfondimenti documentali“ e „testimonianze“. La Commissione ha mantenuto „stretta collaborazione“ con „la Procura di Roma“ e „la Procura di Reggio Calabria“, quest’ultima per „un possibile ruolo della ’ndrangheta“. Le audizioni, „orientate dall’evoluzione delle indagini“, hanno incluso ex brigatisti come „Alberto Franceschini“, il quale ha riferito che in carcere „i capi storici delle BR“ sapevano che „qualcosa di grosso“ si preparava, ma ignoravano „l’obiettivo“ e rimasero „stupiti“ dalla „capacità tecnico-militare“ del sequestro. Emergono anche „rifiuti“ da parte di potenziali auditi, „ritenendo di non voler aggiungere nulla“ o per „condizioni fisiche“.
Note
Fonti normative citate
- Decreto-legge 30 dicembre 2015, n. 210 (art. 12-bis).
- Legge n. 82 del 2014.
- Articolo 5, legge istitutiva (facoltà di acquisizione atti).
- Articolo 82 della Costituzione (poteri dell’autorità giudiziaria).
- Regolamento interno della Commissione (art. 23, comma 2).
Attività quantitative
- 2.250 unità documentali (700.000 pagine).
- 440 incarichi delegati; 256 escussioni.
- 164 sedute plenarie; 130 riunioni dell’Ufficio di presidenza (251 ore e 15 minuti totali).
- 26 collaborazioni esterne (3 forze dell’ordine, 7 magistrati, 15 esperti/tecnici).
Tematiche minori
- Riferimento a „possibile ruolo della ’ndrangheta“ (Procura di Reggio Calabria).
- „Tecnologie e tecniche di indagine“ non disponibili „in precedenza“.
- „Rifiuti“ di audizioni per „motivi fisici“ o „mancanza di novità“.
- „Rischio di rappresaglie“ paventato dai brigatisti detenuti („se quelli fuori avessero ucciso Moro, probabilmente noi saremmo stati uccisi“).
Audizioni secretate
- Armando Sportelli (Taranto, 16/05/2017).
- Pietro Modiano (05/09/2017).
- Due sedute „esame testimoniale“ (25/07 e 14/09/2017).
2: Le dinamiche interne alle Brigate Rosse tra strategie, conflitti e gestione del sequestro Moro
Dall’autoanalisi dei militanti alle contraddizioni organizzative: tra ideologia, sospetti di infiltrazione e scelte letali.
Il blocco di testo ricostruisce le tensioni interne alle Brigate Rosse (BR) attraverso le testimonianze di ex militanti, evidenziando fratture strategiche, sospetti reciproci e la gestione del sequestro Moro come momento di cesura. Alberto Franceschini (111–133) delinea un’organizzazione in crisi già dal 1976, segnata da arresti mirati e dalla percezione di un «tradimento» da parte di Mario Moretti, accusato di aver omesso di avvertire lui e Curcio dell’imminente cattura («Il primo che mi ha detto che, secondo lui, Moretti era un infiltrato è stato Curcio»). Emergono inoltre i rapporti internazionali delle BR, tra rifiuti (il Mossad) e alleanze (RAF, palestinesi), e la contrapposizione tra la linea «togliattiana» di Franceschini — che puntava a una rivoluzione «fatta in Italia» — e quella di Moretti, giudicata «assolutamente sballata» (120) per aver «distrutto tutta un’ipotesi politica» (120).
Valerio Morucci (134–169) e Adriana Faranda (221–295) offrono una prospettiva operativa sul sequestro Moro, svelando meccanismi decisionali e contraddizioni. Morucci, elusivo durante l’audizione, nega coinvolgimenti esterni («non vi furono contatti diretti con esponenti del PSI» 226) ma conferma la rigidità della compartimentazione («ciascuno conosceva solo alcune informazioni» 127). Faranda, invece, ricostruisce la dinamica dell’omicidio Moro come esito di una «decisione unanime» (239) tra i militanti, pur ammettendo che «eravamo dei ragazzi un po’ sprovveduti» (237) e che lo Stato «non si aspettavano l’atteggiamento intransigente» (236) della DC. Centrali sono i contatti con il PSI tramite Lanfranco Pace (225–229), rivelati solo anni dopo per evitare accuse di «mettere in crisi il Governo» (270), e i sospetti su Moretti, descritto come «una persona equivoca» (188) da Raimondo Etro (169–190), che lo accusa di «aver denunciato tutti» (188) dopo l’arresto.
Le audizioni di Enrico Fenzi (191–219) e Walter Di Cera (296–324) approfondiscono ulteriori fratture. Fenzi smentisce l’ipotesi di Moretti come infiltrato («non ho mai avuto motivo di pensarlo» 200), ma conferma i «profondi rancori» (201) legati alla morte di Mara Cagol. Di Cera, invece, descrive una base periferica (la brigata Centocelle) estranea alle decisioni sul sequestro («non fummo mai coinvolti» 297) e critica la deriva militarista delle BR, che «davano priorità alle armi» (313) a discapito del «lavoro politico». Le testimonianze convergono nel dipingere un’organizzazione lacerata da «manovre diversive» (210), dove la «compartimentazione» (127) serviva tanto a proteggersi quanto a nascondere conflitti irrisolti, come quello tra il «nucleo storico» in carcere (208) e i militanti in libertà, o tra le «colonne» territoriali e il comitato esecutivo (261).
Il tema minore delle infiltrazioni (114, 116, 144–146) e dei rapporti con la criminalità (300–302) emerge come elemento ricorrente, spesso smentito o minimizzato («le BR evitavano contatti con la criminalità» 300), mentre la questione dei «misteri» irrisolti — come la scomparsa dei «documenti del CRD» (115) o gli originali del «memoriale Moro» (284) — resta aperta, attribuita a «gravissimi problemi logistici e politici» (290). La dissociazione di Faranda e Morucci (265–269) chiude il cerchio: un tentativo di «dissociazione dall’interno» (266) che li porta a «riprendere armi e denaro» (245) per fondare un gruppo alternativo, rifiutando sia la «guerra» delle BR sia il «pentitismo».
3. Il caso Mokbel, le indagini su via Gradoli e le connessioni con il sequestro Moro
Tra confessioni contraddittorie, informatori ambigui e depistaggi: le dichiarazioni di Lucia Mokbel, il ruolo del brigadiere Merola e le omertà istituzionali nel covo delle Brigate Rosse.
Il blocco ricostruisce le dichiarazioni di Lucia Mokbel, figura chiave nelle indagini sul covo di via Gradoli, e le contraddizioni emerse tra la sua versione e quella del brigadiere Merola. Mokbel avrebbe segnalato «rumori somiglianti a segnali Morse» nell’appartamento dei falsi coniugi Borghi (in realtà Mario Moretti e Barbara Balzerani), ma il suo racconto presenta incongruenze temporali: gli agenti si recarono nello stabile «il secondo giorno dopo l’agguato di via Fani» (18 marzo), mentre lei sostenne di aver udito i rumori «quattro o cinque giorni dopo». La donna, ex aspirante «poliziotta» (cioè informatrice), interruppe la collaborazione per timore, nonostante le promesse di «200 milioni» come ricompensa per il silenzio. Le sue affermazioni furono smentite dall’assenza di ricoveri ospedalieri e dalla mancata consegna di un biglietto indirizzato a Elio Cioppa, allora funzionario della Squadra mobile, che Merola – definito «scarsamente professionale» – non trasmise mai.
Il testo approfondisce anche le dinamiche investigative: Merola bussò tre volte alla porta dei Borghi senza forzare l’ingresso, mentre le BR confermarono di essersi preparate a sparare. Cioppa, che negò di conoscere l’identità della Mokbel o l’ubicazione di via Gradoli, fu successivamente coinvolto in operazioni contro le BR (come l’«operazione Canepa» a Genova) e in contatti con la loggia P2, dove entrò «per esclusivi motivi di servizio» su suggerimento di Licio Gelli. Emergono inoltre riferimenti a depistaggi: un appunto del generale Grassini, attribuito a Gelli, ipotizzava che il sequestro Moro fosse legato al «compromesso storico», ma Cioppa lo liquidò come «informazione di carattere soltanto politico». Le audizioni rivelano una rete di omertà, con agenti che «non fecero alcuna relazione» e informatori mai nominati («Non lo dirò mai»), mentre le indagini su latitanti come Alessio Casimirri si intrecciarono con la collaborazione di pentiti parziali come Raimondo Etro, «reticente» sul suo ruolo marginale in via Fani.
4. Dinastie ’ndranghetiste, sequestro Moro e connessioni istituzionali: le dichiarazioni di Cafiero de Raho e Giuseppe Lombardo
Tra ’ndrangheta, servizi segreti e terrorismo: le ipotesi su Antonio Nirta “Due nasi”, le armi dei De Stefano e i legami con il generale Delfino.
Il blocco ricostruisce le dichiarazioni dei procuratori Cafiero de Raho e Giuseppe Lombardo sulle dinamiche interne alla ’ndrangheta, con particolare attenzione alle famiglie Nirta, De Stefano e Piromalli, definite “le dinastie fondamentali” (470) e “al vertice” (478) dell’organizzazione. Emergono ipotesi sul coinvolgimento di Antonio Nirta, soprannominato “Due nasi”, nel sequestro Moro, basate su testimonianze di collaboratori di giustizia come Saverio Morabito, che attribuisce la notizia a “Domenico Papalia e Paolo Sergi” (473), e Antonino Fiume, il quale descrive due “mitragliette simili a quelle impiegate in via Fani” (480) custodite dalla ’ndrangheta. Le dichiarazioni evidenziano “rapporti con i Servizi di sicurezza” (474) — in particolare con il generale “Francesco Delfino” (475), nato a Platì e “accostato […] ai Papalia […] e ai Nirta” (491) — e una “compatibilità” (488) tra la presenza di Nirta in via Fani e il “contraccambio” (476) per l’eliminazione degli Strangio, famiglia rivale. Il quadro si allarga ai “legami con la massoneria e con tutti coloro che contano” (478), includendo connessioni con il terrorismo di destra (“Freda e Concutelli” 477) e la “destra eversiva” (493), pur sottolineando che “la ’ndrangheta non ha colore politico” (494).
Il sommario integra riferimenti a “protezioni” (487) godute dai De Stefano, ai “matrimoni strategici” (487) per consolidare alleanze, e alla “prudenza” (484) di Fiume nel rivelare dettagli sulle armi, custodite “con moltissime altre” (482) nell’officina dei fratelli Fiume, dove si “assemblavano e modificavano” (485) anche silenziatori artigianali. Le intercettazioni citate, come quella tra Delfino e Lombardi sul “gruppo di fuoco” (476), e le “tracce costanti” (491) che collegano il generale ai clan, suggeriscono un intreccio tra crimine organizzato, apparati dello Stato e “figure del terrorismo” (477). Le dichiarazioni, pur “da verificare” (479), disegnano un sistema in cui “la ’ndrangheta non è più solo crimine” (478), ma un attore in “rapporti con le istituzioni” (478), con implicazioni che vanno oltre la criminalità comune.
5: La frattura nella DC durante il sequestro Moro: rigidità nazionale, iniziative pugliesi e tensioni interne
Tra rigidità istituzionale e tentativi di mediazione: le divisioni nella Democrazia Cristiana durante i 55 giorni, tra pressioni locali, segnalazioni occulte e il peso delle scelte politiche.
Il blocco ricostruisce le dinamiche interne alla DC durante il sequestro di Aldo Moro, evidenziando una netta contrapposizione tra la «linea di assoluta rigidità» imposta dai vertici nazionali e le «iniziative per salvare Aldo Moro» promosse dalla sezione pugliese, percepita come «i parenti stretti» dello statista rapito. Emergono episodi significativi: la segnalazione spiritica del nome «Gradoli» (con l’indicazione «Gradoli 96 11») portata da Romano Prodi e accolta con scetticismo da Pisanu («Ci vengono a raccontare le storie degli spiriti e non ci danno elementi per poter agire»), il blocco temporaneo di un appello pubblicato su «Il Popolo», e le pressioni del console americano a Bari per monitorare le mosse locali. La frattura si acuisce con il divieto esplicito a Dell’Andro («Se vuoi, ti dimetti da Sottosegretario e fai quello che credi») e la successiva emarginazione dei dirigenti pugliesi, «presi, reietti, congelati» dopo l’omicidio.
Il testo documenta anche le tensioni sulla grazia a Paola Besuschio, osteggiata per «altre pendenze» e sostituita con quella a Buonoconto su suggerimento di Andreotti, e il ruolo ambiguo delle istituzioni, tra «atti umanitari» e «riconoscimento politico» delle BR. Si delinea un clima di sospetto verso iniziative autonome, come la manifestazione annullata a Roma o i contatti con lo studente sovietico Sokolov, mentre la «fermezza» viene giustificata dal timore di «legittimare» il terrorismo. La testimonianza di Bodrato conferma la «risposta pressoché unanime di rifiuto di qualunque ricatto», pur ammettendo che «la difficoltà di passare da uno stato d’animo a una posizione politica» segnò quegli eventi. La chiusura con la smentita di Bonisoli sull’agguato di via Fani introduce un elemento di incertezza sulle ricostruzioni ufficiali.
Note
Frasi citate (tradotte o in italiano):
- (522) «impostazione della DC fu subito di assoluta rigidità» / «iniziative per salvare Aldo Moro»
- (523) «Gradoli 96 11»
- (525) «Ci vengono a raccontare le storie degli spiriti e non ci danno elementi per poter agire»
- (526) «Fate tutto quello che ritenete» / «Eravamo come i parenti stretti e, quindi, in parenti stretti nel dolore erano autorizzati a fare qualunque cosa»
- (529) «no alla trattativa» / «Se vuoi, ti dimetti da Sottosegretario e fai quello che credi»
- (533) «Signora, stia tranquilla. Domani mattina alle ore 9-9.15 io sarò al Ministero e il tutto sarà dirottato verso la Presidenza della Repubblica»
- (534) «alla Besuschio la grazia non poteva essere concessa perché aveva altre pendenze»
- (539) «Siamo stati praticamente presi, reietti, congelati»
- (543) «una risposta pressoché unanime di rifiuto di qualunque ricatto terroristico»
- (547) «Se voi assumerete una posizione rispettosa verso Moro, le forze politiche che sono oggi in contrasto con voi ne terranno conto»
- (548) «La questione era: una atto attraverso il quale si esce da questa stagione o un atto attraverso il quale questa stagione viene legittimata a estendersi?»
- (556) «Ero io. Io so sparare benissimo, io ho colpito Leonardi» (trad. da «I can shoot very well, I hit Leonardi»)
6. Ricostruzione forense e dinamica dell’omicidio di Aldo Moro: analisi balistiche, tracce ematiche e ipotesi sulla scena del crimine
Analisi tecnico-scientifica delle prove materiali e ricostruzione delle fasi dell’esecuzione, tra esami balistici, residui di sparo e Bloodstain Pattern Analysis (BPA).
Sommario
Il blocco documenta le procedure e i risultati degli accertamenti forensi condotti dal RIS (Raggruppamento Investigazioni Scientifiche) sulla dinamica dell’omicidio di Aldo Moro, con focus su tre ambiti principali: analisi balistica, residui di sparo e studio delle tracce ematiche. Le indagini si basano su reperti come proiettili, bossoli, indumenti della vittima e componenti dell’autovettura (Renault 4), integrando dati da sopralluoghi, esami di laboratorio e perizie medico-legali. Il colonnello Ripani e il tenente colonnello Fratini illustrano metodologie comparative per stabilire la compatibilità tra armi (pistola Walther calibro 9 e mitraglietta Skorpion calibro 7,65 mm) e proiettili repertati, confermando che «il bossolo calibro 9 è stato esploso proprio dalla pistola in esame» (586) e che «i dieci proiettili calibro 7.65 mm in reperto sono stati sparati dalla Skorpion» (587), sebbene non sia possibile determinare l’uso del silenziatore.
La Bloodstain Pattern Analysis (BPA) rivela dettagli sulla posizione della vittima durante gli spari: «supportano una fase della dinamica delittuosa con almeno due spari mentre la vittima era supina sul pianale del portabagagli» (592), mentre «almeno tre colpi sparati ortogonalmente al torace» (596) suggeriscono una fase iniziale con Moro «con il busto eretto e, probabilmente, seduta» (597). Le ipotesi ricostruttive propongono due scenari: nel primo, meno probabile, Moro sarebbe stato colpito nell’abitacolo e poi spostato; nel secondo, «più probabile», «sarebbe stato seduto sul pianale, con il busto eretto […] raggiunto da almeno tre colpi sparati dalla Skorpion» (602), seguito da altri spari dopo l’accasciamento. Le analisi sui residui di sparo («numerosissime particelle» sulla giacca, «nove particelle» sul cappotto) indicano «un’estrema vicinanza dell’indumento a un’attività di sparo» (589), mentre la distribuzione delle tracce ematiche su indumenti e veicolo corrobora la sequenza degli eventi.
Un tema minore riguarda le prove sperimentali condotte nel 2017 per valutare l’ingombro dell’auto nel box di via Montalcini e la percezione acustica degli spari: «la sperimentazione […] considera i rumori prodotti “per eccesso”» (613), con «difficoltà di rilevare distintamente le esplosioni che si susseguono nella raffica» (614). Si ipotizza l’uso di un «silenziatore più efficace» (617) per spiegare la discrepanza tra i colpi uditi e quelli effettivi. Il blocco si chiude con riferimenti alle audizioni successive, rinviando ai resoconti stenografici per approfondimenti.
Note
Metodologie citate
- Analisi balistica comparativa: confronto tra proiettili/bossoli repertati e armi sequestrate (pistola Walther, mitraglietta Skorpion).
- Bloodstain Pattern Analysis (BPA): studio di tracce ematiche su indumenti e veicolo per ricostruire posizioni e traiettorie.
- Campionamento con stub: ricerca di residui di sparo su superfici (tettuccio auto, indumenti).
- Prove sperimentali: simulazioni acustiche e di ingombro nel box di via Montalcini (2017).
Reperti chiave
- Proiettili calibro 7,65 mm (Skorpion) e 9 mm (Walther).
- Indumenti di Moro: giacca («fori d’ingresso […] sparato con il silenziatore a contatto» – 591), coperta, pantaloni.
- Renault 4: tettuccio, portabagagli, finestrino posteriore sinistro.
Ipotesi principali
- Fase iniziale: Moro colpito «con il busto eretto, probabilmente seduto» (604), da almeno tre proiettili Skorpion.
- Fase successiva: spostamento nel portabagagli e ulteriori spari (Walther e Skorpion).
- Incertezza sul silenziatore: «O un altro silenziatore era montato sulla Walther […] ovvero la Skorpion ha sparato con un ulteriore silenziatore» (606).
7. La struttura Stay-behind tra segretezza, gerarchie e negazioni: dichiarazioni di Inzerilli e Tombolini sulle operazioni, i depistaggi e i legami con il caso Moro
Testimonianze resocontate dinanzi a una commissione parlamentare: le dinamiche interne alla Gladio, i nascondigli Nasco, le esercitazioni militari e le smentite su coinvolgimenti esterni, tra cui il sequestro Moro e le Brigate rosse. Emergono frammenti di un sistema parallelo – con riferimenti a elenchi distrutti, addestramenti opachi e dichiarazioni contraddittorie – dove la catena di comando si confonde con omissioni strategiche. Temi minori includono l’uso di elicotteri senza insegne, la presenza di figure femminili nella struttura e i tentativi di depistaggio mediatico legati a presunti collegamenti internazionali.
Il generale Paolo Inzerilli delinea un quadro in cui la Gladio opera in autonomia, senza traccia scritta di ordini operativi: «Eravamo completamente autonomi […] Nessuno ci ha mai chiesto di fare nulla, a nessun livello» (649-650). Vengono smentite connessioni con il caso Moro – «all’interno del Servizio non venne mai fatto alcun accostamento tra Gladio e vicenda Moro» (639) – e con ambienti neofascisti o criminali, pur ammettendo irregolarità formative nei primi anni ’50 in Friuli (660). Le esercitazioni si concentrano in Friuli-Venezia Giulia e a Cerveteri (656), mentre i Nasco (nascondigli di materiale) vengono ritirati nel 1972, eccetto dodici recuperati nel 1991 (636-637). Inzerilli nega l’esistenza di documenti con sigle come «G71» (634) e ridimensiona il ruolo dei civili nella struttura, tra cui «pochissimi» gladiatori a Roma nel 1978 (648) e «sette od otto» donne reclutate dal 1980 (657-658).
Sull’agguato di via Fani, definisce l’azione «di persone veramente addestrate» (663), mentre scarta legami tra Gladio e i Comitati di resistenza di Edgardo Sogno (642). Le dichiarazioni si intrecciano con accuse di depistaggio: Andreotti avrebbe «dirottato l’attenzione» sui Nuclei di difesa dello Stato per distogliere dalle indagini su Gladio (643), e elenchi di 800 nomi – tra cui i 622 noti – sono giudicati «non affidabili» (665). L’ammiraglio Oreste Tombolini (COMSUBIN) conferma la separazione tra incursori della Marina e Gladio: «non ho mai avuto la percezione di cooperazione» (678), pur descrivendo «linee gerarchiche sconvolte» durante il sequestro Moro (674). Elicotteri senza insegne vengono esclusi («non mi interessava, non sono mai salito a bordo» – 654), mentre le esercitazioni talvolta si confondevano con operazioni reali: «non si sapeva se si stava partendo per un’esercitazione o per un’operazione» (671).
Note
Fonti citate:
- Dichiarazioni di Paolo Inzerilli (audizione 23 maggio 2017) e Oreste Tombolini (11 aprile 2017) dinanzi alla Commissione parlamentare sul terrorismo.
- Riferimenti a documenti processuali (sentenza 2001 su Inzerilli, brogliaccio Ministero della Difesa) e articoli stampa («Il Tempo», «Panorama»).
- Termini tecnici: Nasco (nascondigli), TED (corsi: «tiro, esplosivi e difesa personale» – 633), Hypérion («punto di contatto fra terroristi» – 641).
Ambito temporale: 1950–1995, con focus su 1972–1980 (scioglimento parziale Gladio, sequestro Moro, addestramenti). Attori chiave: Andreotti, Cossiga, Martini (SISMI), Moro («SID parallelo» – 632), Franceschini (BR), Sogno, Markevitch (pista BR-bulgara).
8. Il ruolo del FPLP e le dinamiche internazionali nel sequestro Moro: dichiarazioni di Bassam Abu Sharif
Tra telefonate anonime, alleanze interrotte e presunte infiltrazioni: la versione palestinese su BR, servizi segreti e il caso Moro.
Il blocco ricostruisce le dichiarazioni di Bassam Abu Sharif, esponente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), riguardo ai rapporti tra organizzazioni palestinesi, Brigate Rosse (BR) e attori internazionali durante il sequestro di Aldo Moro. Emergono tre temi centrali: 1) la frattura tra FPLP e BR, con Abu Sharif che insiste sulla cessazione dei contatti «dal 1976» (760) e sulla mancanza di coinvolgimento nelle operazioni europee «se non quelle al servizio della lotta palestinese» (737); 2) le presunte infiltrazioni statunitensi nelle BR, descritte come «una parte della loro leadership lavorava con gli americani» (736) e come responsabili della decisione di uccidere Moro «erano gli americani» (766); 3) il ruolo ambiguo dei servizi italiani, in particolare del colonnello Giovannone (SISMI), con il quale Abu Sharif afferma di aver collaborato per «mettere l’Italia al sicuro» (740), pur negando conoscenze dirette su trattative per Moro «non ci fu una richiesta dall’Italia» (769).
Le dichiarazioni oscillano tra negazioni categoriche («non abbiamo mai addestrato le BR» – 772) e ammissioni indirette, come la presenza di «migliaia di volontari italiani» (738) nei campi palestinesi o la conferma di un «alleanza internazionale» (739) contro Israele, che includeva RAF tedesca e Armata Rossa Giapponese. Rilevano anche le contraddizioni su armi e transiti: Abu Sharif definisce «equivoco» (747) l’arresto di Abu Anzeh Saleh con missili, sostenendo che le armi «non erano destinate all’Italia» (747), ma non spiega perché fossero in transito sul territorio. Sul caso Moro, la posizione è netta: «non c’erano rapporti con i rapitori» (749), pur ammettendo che «avremmo liberato Moro senza esitare» (750) se contattati. Le telefonate anonime ricevute (««Vogliamo liberare Aldo Moro, ma gli americani rifiutano. Ci puoi aiutare?»» – 735) e i «numeri provvisori» (751) usati per comunicare restano elementi opachi, così come l’accusa agli USA di aver «infiltrato» (736) le BR, senza però fornire nomi («non so chi ci fosse dall’altra parte» – 753).
Note e riferimenti contestuali
Fonti e attori citati
- Interlocutori chiave: Wadie Haddad (FPLP, «avvelenato dagli israeliani» – 736), George Habash (leader FPLP), Taysir Qubaa (contatto per Giovannone – 743), Abu Anzeh Saleh (arrestato con missili – 747), Carlos («espulso dal FPLP» – 745).
- Servizi segreti: Colonnello Stefano Giovannone (SISMI), descritto con «grande rispetto» (740); generale Santovito (SISMI), menzionato in dichiarazioni di Arafat (751).
- Organizzazioni: RAF («rapporti con il FPLP» – 739), Armata Rossa Giapponese, «Giugno Nero» di Abu Nidal («estraneo alla rivoluzione palestinese» – 758), OLP («appello pubblico» di Arafat – 749).
Temi minori
- Volontari italiani: «Lavoravano in unità sanitarie o combattevano contro Israele» (738), ma «non appartenevano alle BR» (762).
- Mediazione giornalistica: «Alcuni giornalisti italiani progressisti […] hanno ammorbidito la collaborazione» (741).
- Ipotesi su Moro: «Gli uomini della scorta furono uccisi da professionisti» (776), distinti dai «brigatisti infiltrati» (776) che poi gestirono la prigionia.
- Casi irrisolti: Scomparsa dei giornalisti De Palo e Toni (1980), «uccisi per un presunto campo BR» (771), smentito da Abu Sharif.
9. Reti occulte e negoziati opachi: la latitanza di Morucci e Faranda tra brigatismo, istituzioni e ambiguità politiche
La dimensione internazionale del caso Moro e le zone d’ombra del terrorismo brigatista tra il 1978 e il 1979.
Il blocco ricostruisce le dinamiche poco chiare che circondarono l’ultimo periodo di latitanza di Valerio Morucci e Adriana Faranda, evidenziando come la loro fuoriuscita dalle Brigate Rosse si intrecciò con «una forma di interlocuzione» con «apparati dello Stato» e «figure istituzionali», in un «sovrapporsi di piani tra la vicenda criminale e la vicenda politico-giudiziaria». Emergono contatti continui con l’area di «Metropoli» – gruppo extraparlamentare legato a Franco Piperno e Lanfranco Pace – che funse da «tramite principale per interloquire con il mondo politico-istituzionale», anche oltre i confini stretti della lotta armata. La ricostruzione si sofferma su «tentativi di contatto» mai del tutto chiariti, tra cui il ruolo di Giorgio Conforto (membro della loggia massonica «Giordano Bruno»), la cui casa ospitò i due brigatisti per settimane, e le «diverse persone» – tra cui l’ex deputato radicale Alessandro Tessari – che «incrociarono» Morucci e Faranda senza comparire nelle indagini ufficiali.
Centrale è la questione del «memoriale Morucci», documento chiave nella ricostruzione processuale degli anni ’80-’90, frutto di «un processo di rielaborazione a posteriori» che assunse i tratti di «una sorta di negoziato» condotto «sostanzialmente all’oscuro» dell’opinione pubblica. Le dichiarazioni dei pentiti e degli stessi Morucci e Faranda offrono versioni contrastanti: da un lato, il loro legame con Piperno e Pace viene descritto come «organico» al progetto «Metropoli», dall’altro come un «supporto fornito [...] per ragioni sostanzialmente personali». La Commissione rileva inoltre «elementi da accertare» su «contatti mantenuti» tra i due e apparati statali, suggerendo che il loro arresto – avvenuto nel maggio 1979 in viale Giulio Cesare – potrebbe essere stato facilitato da «reti» non completamente ricostruite, in cui «ambienti diversi dal partito radicale» giocarono un ruolo attivo. Le testimonianze, tra cui quella di Gianfranco Spadaccia, confermano che «pregressi rapporti» e «appartenenze» esterne ai partiti ufficiali influenzarono gli eventi, lasciando aperte domande sulla «trappola» ipotizzata da Tessari e sulle reali motivazioni dietro l’ospitalità offerta dai Conforto.
Riferimenti impliciti
- «Memoriale Morucci» (846): documento centrale nei processi Moro, oggetto di rielaborazioni controverse.
- «Progetto Metropoli» (850, 854): area politica extraparlamentare legata a Piperno, percepita come alternativa al brigatismo.
- «Loggia Giordano Bruno» (873): associazione massonica presieduta da Giorgio Conforto, citata per possibili connessioni con ambienti radicali.
- «Inchiesta 7 aprile» (859): procedimento giudiziario che decapitò l’area di Metropoli, influenzando le dinamiche interne alle BR.
10. Le omissioni su Giorgio Conforto: appunti SISMI, inchieste giudiziarie e silenzi istituzionali
Tra note informative mai ufficializzate, perquisizioni senza esiti e dichiarazioni contrastanti: il caso del presunto agente KGB al centro delle indagini sul covo di Morucci e Faranda.
Il blocco ricostruisce la vicenda degli “appunti senza alcuna intestazione” trasmessi dal SISMI alla Questura di Roma nell’estate 1979, nei quali Giorgio Conforto veniva indicato come “agente accertato dei Servizi informativi sovietici”. Le frasi documentano la circolazione informale di tali note — “pervennero informalmente alla DIGOS” come “appunti in bianco” — e la loro mancata comunicazione formale all’autorità giudiziaria, nonostante la rilevanza per le indagini sul sequestro Moro. I giudici Imposimato e Priore, interrogati anni dopo, smentirono di averne avuto conoscenza ufficiale: “Noi non ne siamo mai stati informati”, mentre Imposimato sottolineò la gravità dell’omissione, definendo “molto grave” il mancato approfondimento su un “vecchio di 79-80 anni” che “abitava nella casa di Giuliana Conforto” e non vi era “capitato lì per caso”. Emergono discrepanze tra le versioni: Andreassi ammise che l’autorità giudiziaria “fu portata a conoscenza del contenuto degli appunti”, ma senza traccia scritta, mentre Imposimato accusò il SISMI di aver diffuso oralmente le informazioni “a esponenti di governo, ai vertici di polizia [...] ma a Priore e me [...] non disse nulla”.
Il sommario evidenzia due temi minori: il ruolo ambiguo di Conforto — “personaggio di notevole statura” la cui figura “non emerse” durante la perquisizione del 1979, pur in presenza dei magistrati — e le ipotesi su una possibile “filiera interna agli apparati italiani” dietro la sua attività, escludendo un coinvolgimento diretto dell’URSS. Le frasi citano una “riservata personale” del SISMI al Questore De Francesco e una nota manoscritta che attestava la conoscenza del giudice Gallucci, senza però che ciò producesse indagini. La vicenda si chiude con il “Dossier Mitrokhin”, che rivelò retroattivamente i legami di Conforto, e con l’ipotesi di “trascuratezza o un preciso ragionamento politico-giudiziario” dietro il silenzio istituzionale. Le fonti includono audizioni parlamentari, una “nota della Questura di Roma” del 12 giugno 1979 e il libro-intervista di Imposimato, dove si denuncia la “diffusa circolazione” delle informative, “ma senza lasciare alcunché di scritto”.
11. L’elenco segreto e il percorso dissociativo di Morucci e Faranda: fonti giudiziarie, mediazioni e ricostruzioni del caso Moro
Tra documenti riservati, interlocutori istituzionali e una verità negoziata
Il blocco analizza la genesi e le implicazioni di un “elenco” menzionato da Adriana Faranda, attribuibile a “ambienti giudiziari o investigativi ‘alti’” (1023) e non a un semplice commissariato, la cui circolazione solleva dubbi su “complicità” (1027) e trattative con i brigatisti latitanti. L’attenzione si sposta poi sul “memoriale Morucci” (1028) e sulla “particolarità” (1028) del percorso dissociativo della coppia, che “non è assimilabile né al pentitismo né alla dissociazione politica” (1029) di altri gruppi. Emergono “informazioni distillate progressivamente” (1030) su Moro, frutto di “esperienza diretta” e contatti con “magistratura, politica, apparati dello Stato” (1030), che definiscono un “perimetro della verità accertabile” (1031) ma escludono “numerosi punti problematici” (1031). Le dichiarazioni di Morucci e Faranda, “recepite nel processo Moro-ter” (1032), diventano centrali, pur generando “corto-circuiti interpretativi” (1033) e revisioni.
Il testo documenta anche le “fasi” del cambiamento: dal “comportamento strano” di Morucci in carcere (1040), alla visita del giudice Imposimato nel 1980 — descritto come “gongolante” (1044) — fino al ruolo di suor Teresilla Barillà (1043), figura chiave nella mediazione con le istituzioni. Il “superamento della lotta armata” (1052) viene rivendicato in scritti polemici contro le BR, mentre dal 1983 le dichiarazioni dei due “spingono in secondo piano” (1032) quelle dei pentiti precedenti. La ricostruzione si basa su “documenti AISI” (1035) e appunti dei servizi (SISDE), che tracciano una “negoziazione” (1034) ancora da chiarire nei “passaggi specifici” (1034).
Fonti e riferimenti documentali
Appunti SISDE citati:
- Prot. 1818/12 (9 agosto 1979): “superata la fase di egemonia” (1038).
- Prot. 1818/32 (fine ottobre 1979): “comportamento strano” di Morucci (1040).
- Prot. 1818/70 (5 maggio 1980): visita di Imposimato (1044).
- Prot. 1254/5 (ottobre 1980): testo di Morucci per Controinformazione (1048).
Altre fonti:
- A. C. Valle, “Teresilla. La suora degli anni di piombo”, Paoline, 2006 (1050).
- Dichiarazioni di suor Barillà al processo 2625/91 (1051).
12. La transizione di Morucci: dal brigatista al garante della dissociazione (1983-1984)
Tra strategie carcerarie, mediazioni istituzionali e la rinegoziazione del passato armato
Sommario
Il blocco ricostruisce il percorso di Valerio Morucci tra il 1983 e il 1984, quando, da ex brigatista confinato in ruoli esecutivi durante il sequestro Moro, si propone come interlocutore privilegiato per lo Stato nella gestione della dissociazione terroristica. La sua posizione si fonda su una “conoscenza della vicenda Moro maggiore di quella dei principali pentiti” (1081), che gli consente di dialogare con magistratura, politici, apparati statali e realtà assistenziali, pur in una “opacità” (1082) di ruolo: imputato, testimone, consulente e mediatore spesso nello stesso frangente. Centrale è la sua proposta delle “aree omogenee” (1087) nei carceri – spazi riservati ai detenuti “critici” verso la lotta armata –, presentate come alternativa alla violenza e come strumento per “esercitare un’influenza positiva per lo Stato sul movimento rivoluzionario” (1090). Morucci avverte che, senza queste misure, “la violenza riesploderà all’interno del carcere” (1092) e denuncia la “rimozione della natura politica del fenomeno” (1088), ridotto a mera criminalizzazione penale.
La sua azione culmina nella stesura di documenti (la “Premessa” del 1984, poi confluiti nel “memoriale Morucci” del 1986) indirizzati a giudici come Imposimato e Amato, nei quali offre una ricostruzione parziale della vicenda Moro – “escludendo di nominare militanti delle BR” (1108) – per correggere le narrazioni dei pentiti e legittimare la dissociazione come percorso politico, non come “sconfitta” (1091). Il suo ruolo ambivalente, tra collaborazione giudiziaria e mediazione carceraria, solleva interrogativi: la “posizione senza riscontri” (1104) di cui gode, negata sia ai pentiti sia agli irriducibili, si costruisce su un “terreno prettamente politico” (1104), dove la “soluzione politica” invocata a parole viene di fatto realizzata nei fatti. Emergono così le tensioni tra istituzioni, detenuti e movimenti autonomi (cfr. la riunione a Radio Onda Rossa, 1110), mentre Morucci, affiancato da Adriana Faranda, pone le basi per una “lettura complessiva” (1120) del caso Moro che ridisegna memoria e strategie antiterrorismo.
Note e riferimenti
Fonti e contesto documentale
- Le frasi (1075)-(1123) attingono a un’intervista a Mario Puddu (Il Giornale, 2007), a documenti carcerari (lettere a Di Blasio, Amato, Imposimato), a informative del SISDE/CESIS (1984) e a verbali processuali (procedimento Metropoli).
- I testi citati includono:
- Lettera di Morucci a Di Blasio (12 aprile 1984, 1085-1088).
- Premessa per Imposimato/Amato (luglio-settembre 1984, 1108-1113).
- Memoriale Morucci (1986, trasmesso alla Presidenza della Repubblica nel 1990, 1118).
Temi minori
- Criticità procedurali: la circolazione informale di documenti (1089, 1109), la duplicazione di testi già depositati (1115), la condizionalità della pubblicazione a “un atto giuridico di ispezione dei luoghi” (1116).
- Contraddizioni politiche: la rivendicazione di un “monopolio” nel dialogo istituzionale (1099) vs. la sua fine; la denuncia della “lealizzazione istituzionale” (1091) mentre si negozia con lo Stato.
- Ruolo dei Servizi: il SISDE trasmette documenti al CESIS (1084-1085, 1109), segnalando un interesse strategico per le proposte di Morucci.
13. Il ruolo di Morucci tra dichiarazioni giudiziarie, mediazioni politiche e rapporti con i servizi: 1984-1987
Le dinamiche inedite di un pentito tra verità processuali, strategie carcerarie e canali riservati.
Il blocco ricostruisce le tappe di un percorso parallelo a quello giudiziario, in cui Valerio Morucci — ex brigatista rosso e figura chiave nel sequestro Moro — assume un ruolo attivo nella ridefinizione della narrazione sugli eventi, oscillando tra collaborazione con il magistrato Ferdinando Imposimato, tentativi di interlocuzione con l’autorità politica (in particolare Francesco Cossiga) e una progressiva integrazione in un circuito informativo gestito dal SISDE. Il nucleo tematico ruota attorno a tre assi: 1) la costruzione di una versione "appetibile" dei fatti, come emerge dalla frase «la versione di Morucci presentava diversi elementi di appetibilità» (1127) e dalla sua capacità di colmare vuoti lasciati da altri pentiti («quasi sostituendo le mancate dichiarazioni di Moretti e Gallinari» — 1128); 2) la ricerca di un canale privilegiato con il potere politico, testimoniata dalle ripetute offerte di «dire la verità sul rapimento a condizione che le notizie non vengano pubblicate» (1155) e dalla mediazione di suor Teresilla Barillà, figura pivot nel rapporto con Cossiga («Solo per Lei Signor Presidente…» — 1166); 3) la collaborazione con i servizi segreti, documentata da analisi redatte «per questo ufficio» (1204) e da un «rapporto continuativo» (1209) che sfocia nella stesura del cosiddetto «memoriale Morucci», testo ibrido tra verbali giudiziari e ricostruzioni ad hoc per uso riservato.
Il materiale evidenzia una tensione costante tra dichiarazioni pubbliche (interviste, memorie difensive) e scambi opachi: Morucci stesso minimizza i «misteri» del caso Moro («tanti particolari erano di una banalità sconcertante» — 1131), pur alimentando ipotesi su infiltrazioni esterne («agenti della CIA, del KGB, del Mossad» — 1201) in un apparente contraddizione funzionale a legittimare il suo ruolo di interprete autorevole. Emergono inoltre elementi di ambiguità istituzionale: Imposimato, da un lato, si limita a «prenderlo a verbale com’era mio dovere» (1177), dall’altro ammette di aver «detto alla sen. Moro che Morucci e Faranda avevano manifestato il desiderio di incontrare un membro della famiglia» (1144), pur negando poi ogni responsabilità sull’incontro. La documentazione SISDE, infine, rivela una dimensione consulenziale inedita, dove Morucci analizza strategie brigatiste («il punto di maggior debolezza» delle UCC — 1188) e fornisce «una lettura più completa» (1212) del sequestro, in testi che circolano «ad esclusivo uso per il Servizio» (1216) senza traccia di condivisione con la magistratura.
Note
- Le frasi 1124-1132 inquadrano il contesto giudiziario e mediatico delle dichiarazioni di Morucci nel 1984-1985.
- Le frasi 1153-1170 documentano il tentativo di interlocuzione con Cossiga via suor Teresilla; le 1184-1210 attestano la collaborazione con il SISDE.
- Il «memoriale» (citato nelle 1172-1183 e 1211-1217) rappresenta il prodotto più controverso di questa fase, con versioni destinate a usi politici e non processuali.
- La frase 1201, pur apparendo ironica, riflette la strategia di Morucci di depistare l’attenzione verso scenari complottistici mentre negozia la propria credibilità.
14. Il "memoriale Morucci": genesi, circolazione e opacità di un documento conteso
Il testo come crocevia tra dissociazione, verità giudiziaria e interlocuzioni istituzionali.
Il blocco ruota attorno al cosiddetto "memoriale Morucci", un elaborato dalla paternità incerta e dalla datazione controversa, redatto tra il 1986 e il 1988 ma circolato in forme frammentarie tra istituzioni, magistrati e apparati di sicurezza. Il documento emerge come strumento di una "verità dicibile", plasmata da attori eterogenei: il dissociato Valerio Morucci, suor Teresilla Barillà (intermediaria tra detenuti e politica), giudici come Imposimato e Priore, il SISDE e figure istituzionali tra cui il presidente Cossiga. Le dichiarazioni di Morucci oscillano tra ammissioni parziali («alcune parti possono essere state redatte da me, ma non ricordo di aver steso l’intero elaborato» – 1324) e dinieghi sistematici, soprattutto in sede processuale, dove si avvale del diritto di non rispondere a domande su "fatti specifici o persone specifiche" (1370).
Il memoriale diventa oggetto di un "negoziato politico-giudiziario" (1400) finalizzato a chiudere la stagione del terrorismo attraverso una ricostruzione edulcorata, che isola le BR da un più ampio "partito armato" (1398) e omette elementi critici: dalla scomparsa degli scritti di Moro ai contatti con forze politiche, fino alle incongruenze sulla strage di via Fani. La circolazione del testo — invio a Cossiga tramite Cavedon (1318), sequestro da parte della DIGOS (1320), consegna al magistrato Spataro per una presunta pubblicazione (1349) — riflette una strategia di "posizione processuale particolarmente garantita" (1397), dove il ruolo testimoniale di Morucci si trasforma in una "funzione consulenziale" (1397) protetta dalla legge sulla dissociazione. Le versioni contrastanti sulla datazione ("la data ho messo ’86 perché praticamente… era l’inizio del lavoro" – 1342) e sulla paternità (coinvolgimento della Faranda in carcere, 1385) alimentano dubbi sulla sua natura: le "caratteristiche formali […] di un elaborato interno agli apparati di sicurezza" (1392) suggeriscono una possibile coautoria istituzionale, mentre l’omissione dei nomi di Casimirri e Lojacono fino al 1988 (1387) solleva questioni penali sulla detenzione del testo.
Il blocco evidenzia come la "costruzione della verità giudiziaria" (1394) sia stata condizionata da una rete di interessi convergenti — dalla magistratura agli apparati, dalla politica ai dissociati — che ha prodotto una "verità parziale" (1402) funzionale alla chiusura della vicenda Moro, sacrificando elementi controversi e riducendo il terrorismo a fenomeno circoscritto. Le lacune emerse nei processi (Moro-ter, Moro-quater) e le dichiarazioni evasive degli attori coinvolti confermano l’opacità del memoriale, trasformato in "strumento di una trattativa pubblicamente negata" (1397).
Note
- Fonti primarie citate: Dichiarazioni di Morucci (1324, 1370, 1385), suor Teresilla Barillà (1317, 1342), PM Spataro (1349), appunti SISDE (1387), sentenze processuali (1395-1398).
- Temi minori: Ruolo di Cavedon come intermediario editoriale (1350); incongruenze sulla datazione (1313 vs 1341-1342); riferimento a "irregolari" e basi BR (1334-1336).
- Contesto processuale: Stralcio del fascicolo (1337), assoluzione di Pasquali Carlizzi (1338), audizione Morucci in Commissione Stragi (1384).
- Termini chiave: "verità dicibile" (1401), "partito armato" (1398), "posizione garantita" (1397), "memoriale come elaborato collettivo" (1392-1393).
15. I rapporti tra Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Brigate Rosse e Servizi italiani: accordi, trattative e infiltrazioni durante il sequestro Moro
Collaborazioni segrete, canali diplomatici paralleli e la frammentazione della galassia palestinese tra OLP, FPLP e gruppi estremisti: dal patto di non aggressione sul suolo italiano alle trattative per la liberazione di Aldo Moro, passando per il ruolo ambiguo di mediatori, giornalisti e fonti infiltrate.
Il blocco di testo ricostruisce un intreccio di alleanze strategiche, impegni scritti e tradimenti tra il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) – guidato da George Habash e caratterizzato da una matrice marxista – e lo Stato italiano, con particolare riferimento al periodo del sequestro di Aldo Moro (1978). Al centro vi è la figura di Bassam Abu Sharif, ex esponente del FPLP e poi consigliere di Arafat, che in un’audizione del 2017 conferma l’esistenza di un «impegno scritto» del FPLP, consegnato al colonnello Stefano Giovannone (Capocentro SISMI a Beirut), in cui si garantiva «non compiere nessuna azione che potesse minacciare la sicurezza degli italiani, dell’Italia o del suolo italiano» (1422) in cambio di un «sostegno dell’Italia alla causa palestinese» (1423). Tale patto, però, viene messo in discussione da documenti del SISMI (1981) che segnalano come il FPLP abbia interpretato negativamente la «mancata scarcerazione di Abu Anzeh Saleh», minacciando di riprendere le operazioni terroristiche (1425).
Il testo evidenzia inoltre il ruolo chiave di mediatori informali, tra cui la giornalista Rita Porena – definita da Sharif come una delle figure che «hanno avuto un ruolo per “ammorbidire” questo processo di collaborazione» (1426) – e la fonte "Damiano" (identificata come Azzedine Lahderi), infiltrata nei circoli palestinesi e utilizzata dai Servizi italiani per disinformare il FPLP sulle Brigate Rosse (BR). Le BR, pur avendo «rapporti con il FPLP, la RAF tedesca e l’Armata Rossa giapponese» (1439), vengono descritte da Sharif come un «organismo infiltrato da agenti americani o Gladio della NATO» dopo gli arresti del nucleo storico (1433), e come un gruppo «non affidabile» per il FPLP, che «non considerava affidabili le Brigate rosse» (1432) nonostante la condivisione ideologica. Le collaborazioni tra BR e palestinesi, infatti, erano finalizzate «solo per sostenere la lotta in Palestina» (1440) e non per colpire obiettivi europei, salvo eccezioni come il traffico di armi dal Libano (1978-1979) (1470-1472).
Durante il sequestro Moro, emerge un tentativo di trattativa parallela condotta dal colonnello Giovannone tramite il FPLP e l’OLP di Arafat, con l’obiettivo di «stabilire contatti con i brigatisti» (1450). Moro stesso, nelle sue lettere, fa riferimento a «meccanismi vari» usati in passato per «liberare palestinesi detenuti» (1465) e cita esplicitamente Giovannone come figura chiave (1469). Tuttavia, la trattativa si interruppe bruscamente: secondo Giovannone, le BR «avrebbero richiesto contrapartite impossibili» (1459), mentre il SISMI ipotizzò che la «mancata adesione del Governo italiano» a una «collaborazione permanente» con i servizi palestinesi (1461) abbia portato al fallimento. Il testo suggerisce inoltre l’esistenza di un «canale informativo non noto» tra Moro e i Servizi (1670), alimentato da coincidenze temporali tra le lettere del prigioniero e i movimenti di Giovannone.
Infine, si delinea un quadro di cooperazione internazionale tra terrorismi, con il FPLP che funge da «cerniera» tra l’OLP, i gruppi estremisti (come quello di Abu Nidal) e le organizzazioni europee (1480). Le fonti dei Servizi – tra cui "Damiano", "Moma" e "Ferraro" – rivelano riunioni segrete (1975) tra BR e palestinesi per pianificare «azioni clamorose» in Italia (1497), mentre documenti giudiziari collegano traffici di armi, caselle postali romane (n. 142) e figure come Mohamed Aref Al Mussa (legato ad Abu Nidal) e Bruno Bréguet (vicino a Carlos). L’uccisione di Moro segna una frattura tra BR e OLP, ma non con i gruppi più radicali (1462), confermando come la «galassia palestinese» operasse in modo «dissonante» (1479) e strumentale.
16. Collegamenti operativi tra Brigate Rosse, movimenti palestinesi e servizi segreti durante il sequestro Moro (1978-1979)
Tra ideologie condivise, scambi logistici e tentativi di mediazione: la rete transnazionale che unì terrorismo italiano e palestinese nell’anno cruciale della strategia della tensione.
Sommario
Il blocco documenta una fitta trama di relazioni tra le Brigate Rosse, organizzazioni palestinesi come l’OLP e il FPLP di George Habash, e i servizi segreti italiani nel periodo 1978-1979, con un focus sul sequestro Moro e sulle sue ricadute operative. Emergono tre assi principali: 1) la collaborazione ideologica e logistica, esplicitata da fonti come «Damiano» che riferisce di «vivo apprezzamento» di Fidel Castro per gli «ideali antimperialisti» comuni a BR e palestinesi (1693), e confermata da scambi concreti, come la «consegna di un elenco di arabi ritenuti pericolosi» (1697) e il «primo carico di armi trasportato dal Libano in Italia» (1709) via CO.CO.RI.; 2) il ruolo ambiguo dei servizi italiani, che da un lato attivano canali di dialogo con l’OLP—«collaborare con la Polizia italiana» per monitorare «collegamenti tra organizzazioni terroristiche italiane e cittadini arabi» (1695)—ma dall’altro omettono informazioni chiave, come «l’impegno del FPLP a escludere l’Italia da piani terroristici» (1728), e falliscono nel capitalizzare le fonti durante il sequestro; 3) la ripresa dei rapporti post-Moro, con «il viaggio di Moretti e Dura in Libano» (1730) per acquisire armi palestinesi, legato alla «cessione di trascrizioni degli interrogatori di Moro al FPLP» (1730) e alla mediazione di figure come Scalzone, il cui tentativo di «porsi come snodo tra organizzazioni terroristiche» (1711) fallì ma rivelò la permeabilità tra estremismo italiano e reti mediorientali.
La documentazione sottolinea anche la frammentazione palestinese: l’OLP, pur collaborando con i servizi italiani, «non era in grado di garantire gli impegni» (1732) contro gruppi come Abu Nidal o il FPLP, quest’ultimo «snodo tra OLP, Servizi dell’Est e Carlos» (1732). Le dinamiche del sequestro Moro restano «assai più complesse e opache» (1717), con indizi di «fiducia palestinese nel dialogare con le BR» (1718) per salvare l’ostaggio, ma anche di «scambio e cooperazione» (1720) tra brigatisti e «movimenti armati solidali con la causa palestinese». La «linea della fermezza» (1739) e la segretezza delle trattative—«nessun atto dei Servizi renda conto dell’esito» (1726)—suggeriscono una gestione politica opaca, dove «prezzi politici» (1725) e «accordi non sindacabili» (1725) prevalgono sulla trasparenza.
Note
- Le citazioni in lingua straniera sono tradotte in italiano e integrate nel testo.
- I riferimenti numerici tra parentesi tonde rimandano agli identificativi delle frasi originali.
- Il blocco esclude le sezioni dedicate a Casimirri e Lojacono (1734-1751), focalizzandosi esclusivamente sulla rete BR-palestinesi-servizi.
17. Irregolarità e incongruenze nel cartellino fotodattiloscopico di Alessio Casimirri: analisi documentale e procedurali
Un dossier tra anomalie formali, tracciabilità incerta e lacune archivistiche
Il blocco esamina le „singolarità formali“ emerse dall’analisi del cartellino fotodattiloscopico intestato ad Alessio Casimirri, documento mai trasmesso al Casellario centrale d’identità né censito nel sistema AFIS, privo della „classifica deca dattiloscopica necessaria per procedere all’archiviazione“ (1778). Le indagini rivelano una „mancanza di una firma, vera o apocrifa“ (1819) di Casimirri — sostituita dall’annotazione „si rifiuta“ — e l’impossibilità di „effettuare verifiche di natura grafologica“ (1819), oltre all’assenza di „rilievi delle impronte palmari“ e del „numero progressivo“ per l’abbinamento al registro (1803). La modulistica, pur compatibile con una „redazione a maggio 1982“ (1790), presenta un’intestazione anacronistica („Direzione Centrale della Polizia Criminale“) diffusa solo „a partire dal 1983“ (1789), mentre i cartellini del 1982 riportavano ancora la dizione „Direzione Centrale di Pubblica Sicurezza“ (1788). Le procedure di compilazione, ricostruite attraverso escussioni, descrivono „copie redatte a distanza di tempo“ (1798) e „foto apposte nei giorni successivi“ (1796), con firme „ricopiate“ (1800) in caso di assenza del militare compilatore, generando „disordine cronologico“ (1801).
La fotografia allegata — „presa solo in frontale“ (1803) e raffigurante Casimirri „senza baffi in età giovanile“ (1805) — non corrisponde ai documenti coevi (carta d’identità del 1977, „visto per l’identità“ del 1972) che lo ritraggono „con baffi“ (1813). La sua circolazione, attestata in un „Bollettino segnaletico“ del 1985 (1807) e in archivi dei Carabinieri (1816), resta „di origine non accertata“ (1811), mentre le impronte rilevate sul cartellino „non risultano censite“ (1778) e „non hanno dato esito“ le ricerche presso l’Esercito (1780) e il Casellario. La „conservazione“ del documento in una struttura dell’Arma (1820) contrasta con la „mancanza di riscontri“ (1823) sulle impronte, la cui identificazione è „decisiva“ (1821) per le indagini in corso, anche in relazione alla „tempistica dell’espatrio“ di Casimirri (1824).
Procedura di compilazione e tracciabilità archivistica
(Note su modulistica, firme e foto)
La ricostruzione delle „procedure in uso“ (1794) presso il Reparto operativo dei Carabinieri evidenzia „copie compilate da militari diversi“ (1798) e „firme lasciate in bianco“ (1799) per essere apposte „in un secondo momento“ (1799), con „ricopiatura“ (1800) in caso di urgenza. Tale prassi spiega „l’assenza di un ordine cronologico“ (1801) e la „variabilità nel numero di copie“ (1801), ma non giustifica „l’unicità della foto frontale“ (1803) né la „mancanza del fotosegnalamento“ nel registro del 4 maggio 1982 (1792). Le „singolarità“ (1803) includono anche la „data 6 maggio 1982“ sul cartellino di Walter Di Cera, „fotosegnalato immediatamente dopo l’arresto“ del 2 marzo (1802). Gli accertamenti presso il Poligrafico dello Stato non hanno „consentito di accertare la data“ (1791) di produzione della modulistica, mentre la „foto giovanile“ (1805) compare in documenti „disomogenei“ (1817) della Compagnia Carabinieri di Roma San Pietro, insieme a „segnalazioni fino al 1988“ (1817).
Riferimenti minori
(Temi correlati e fonti citate)
- Documenti citati: „Bollettino segnaletico dell’Arma dei Carabinieri – Manifesto n. 11. Latitanti pericolosi“ (1/4/1985, doc. 298/1, p. 799) (1807-1808); „decreto ministeriale n. 555/43“ (15/5/1981) (1785); „legge 1 aprile 1981, n. 121“ (1785).
- Testimonianze: Dichiarazioni di „Walter Di Cera“ (1802), „generale Domenico Di Petrillo“ (1803), „Marisa Fantini“ (1850-1851), „Patrizio Peci“ (1846-1849).
- Altre anomalie: „Acquisto di pistole sportive“ (1973) (1834-1836); „perquisizione del 3 aprile 1978“ (1853); „ipotesi sul negozio in via Maddalena Raineri“ (1845-1852).
18. La latitanza di Casimirri in Nicaragua: documenti falsi, reti familiari e connessioni sandiniste
Falsificazione di identità, protezioni politiche e legami con l’estremismo internazionale nella fuga di un latitante italiano.
Dettaglio del blocco
Il testo ricostruisce la latitanza di Casimirri in Nicaragua attraverso tre filoni principali: l’uso sistematico di documenti falsi („entrato nel Paese con un documento regolare“ ma smentito dagli atti; „passaporti erano palesemente falsi”), la rete di sostegno familiare e politica („organizzazione di sinistra che si occupava di dare supporto, anche logistico“; „la famiglia Casimirri ha mantenuto un atteggiamento di solidarietà”), e i legami con il regime sandinista („divenendo parte di una sorta di brigata internazionale di estremisti“; „duraturi rapporti con Manlio Grillo e altri latitanti“). Emergono dettagli sulla falsa identità di Guido Di Giambattista—usata per sposare Mayra Herrera e registrare la nascita del figlio Alejandro—e sul sequestro del bambino („azione di polizia che portò alla detenzione di Guido Di Giambattista”), evento documentato dalla stampa nicaraguense. Le dichiarazioni di Tommaso Casimirri e Carlo Parolisi confermano il transito via Mosca e Cuba („furono trattenuti all’aeroporto di Mosca per 24 ore”) e l’intervento di un’organizzazione esterna („c’era una organizzazione che aveva provveduto alla loro fuga“). La seconda parte si concentra sulla missione SISDE del 1993: Fabbri e Parolisi interpellano Casimirri sulle „informazioni sulla vicenda Moro”, ma i colloqui falliscono per una „fuga di notizie”. Le rivelazioni di Casimirri—“in fase di progettazione del sequestro […] Moro sarebbe stato ucciso”—vengono registrate in appunti coerenti con le successive testimonianze. Si accenna infine al contesto politico nicaraguense („nuovo contesto determinatosi con la sconfitta dei sandinisti”) e alle criticità nelle richieste estradittive, rimandate a future indagini.
Note
(1994–2003) – Falsificazione documentale e reti di sostegno. (2010–2013) – Inserimento nel contesto sandinista e attività economiche. (2015–2023) – Missione SISDE e dichiarazioni su Moro.
19. Reti parallele e carte nascoste: il ruolo del maresciallo Incandela tra carceri, politica e sequestro Moro
Tra incontri in carcere, missioni segrete e documenti ambiti: le connessioni tra servitori dello Stato, detenuti di rilievo e mediatori politici nella ricerca delle tracce di Aldo Moro.
Sommario
Il blocco ricostruisce una trama di contatti informali e operazioni riservate che, tra il 1978 e gli anni successivi, si dipanano attorno alla figura del maresciallo Angelo Incandela, descritto come un «sottufficiale con capacità operative e doti naturali di comunicazione» (2197) e incaricato di «compiti investigativi e di monitoraggio» (2195) nel carcere di Cuneo su mandato del generale Dalla Chiesa. Il suo ruolo emerge come nodale: da un lato, facilita la collaborazione di detenuti come Patrizio Peci (2196) e intrattiene «stretti rapporti con Buscetta» (2188), arrivando a gestire la sua corrispondenza privata; dall’altro, diventa punto di riferimento per intermediari esterni — Ugo Bossi, legato a Francis Turatello e al MSI, e Lello Liguori, uomo di fiducia di Craxi — che tentano di aprire «canali paralleli» (2225) per la liberazione di Moro.
Le deposizioni convergono su due temi ricorrenti: la circolazione delle "carte di Moro" e i tentativi di mediazione carceraria. Bossi riferisce che Buscetta gli confidò che «in carcere giravano delle carte provenienti dall’on. Moro» (2213), mentre Incandela, secondo Riccio, collegava il registratore Naga a «qualche documento del caso Moro da cercare all’interno del carcere» (2200), in un periodo successivo al ritrovamento del covo di via Monte Nevoso. Liguori, invece, descrive una missione diretta commissionata da Craxi: prima un incontro con Incandela, Turatello e Curcio a Cuneo — dove Turatello indica la banda della Magliana come possibile fonte di informazioni (2242) — poi un sopralluogo in un appartamento vuoto a Roma, con una parete in cartongesso sospetta, effettuato sotto la supervisione di un «funzionario del Ministero dell’Interno» (2265) di origine siciliana.
Le dinamiche rivelano una sovrapposizione tra istituzioni e iniziative private: Formisano (MSI) e Craxi agiscono in parallelo ai canali ufficiali, servendosi di figure come Bossi — che ottiene «permessi di colloquio» non sempre registrati (2209) — e Liguori, il quale ammette di essere stato scelto per la sua «fama di persona di sinistra» (2238) nonostante i legami con la malavita. La testimonianza di Incandela, pur giudicata «del tutto attendibile» (2224), viene contestata in sede processuale (2222), mentre le sue attività — dalla gestione delle carte alla mediazione con i detenuti — restano avvolte da ambiguità, come suggerisce la sua scomparsa poco dopo l’audizione (2223). Il quadro che ne emerge è quello di una rete di relazioni opache, dove la ricerca di documenti di Moro assume un «assoluta necessità politica» (2225) per «prevenire reazioni negative» (2227) e dove anche figure come Restelli (2240, 2270) — esponente della criminalità milanese — vengono coinvolte in sopralluoghi riservati.
20. Reti informali e trattative occulte durante il sequestro Moro: il ruolo di Weingraber, Bonomi e i canali paralleli alla liberazione
Tra infiltrati tedeschi, mediatori ambiguì e lettere non ufficiali: le connessioni opache tra estremismi, servizi e tentativi di negoziato.
Il blocco ricostruisce una trama di contatti informali e attività di intelligence non istituzionale durante il sequestro di Aldo Moro, incentrata su tre nodi principali: l’agente tedesco Volker Weingraber, presentato come figura ambigua legata ad ambienti anarchici e terroristici; Aldo Bonomi, descritto come «un provocatore e un confidente della polizia» (2315) ma anche come snodo tra sinistra extraparlamentare, Brigate Rosse e canali di controinformazione; i tentativi di trattativa gestiti da intermediari vicini alla Santa Sede, all’avvocato Giannino Guiso e al PSI, con Craxi al centro delle decisioni su lettere di Moro non ancora rese pubbliche.
Weingraber emerge come elemento instabile: giunto a Milano nel febbraio 1978, entra in contatto con «Oreste Strano e un gruppo che preparava il sequestro di un imprenditore svizzero» (2313), frequenta la casa di Augusto Zuliani in via Solari – trasformata in una «comune con vari ospiti di passaggio» (2326) –, e insiste per ottenere «copie delle lettere di Moro […] per tradurle in tedesco e accreditarsi in Germania» (2331). La sua presenza nello stesso palazzo di Walter Tobagi, ucciso due anni dopo, aggiunge un dettaglio di contiguità con dinamiche violente. Bonomi, invece, funge da «estensore del famoso libro *La strage di stato»* (2319) – notizia mai verificata – e da collegamento tra la libreria Calusca (punto di smistamento dei comunicati BR), «Petra Krause» (2320) della sinistra tedesca, e le lettere di Moro pervenute a Giovine «prima che diventassero note» (2332). Il suo ruolo di «confidente» (2315) coesiste con la mediazione tra ambienti socialistici, cattolici e l’avvocato Guiso, che «entrò in contatto con Craxi» (2342) per esplorare spazi di trattativa, pur senza successo: «quel messaggio [dai brigatisti detenuti] non venne» (2346).
Parallelamente, la Santa Sede attiva un canale segreto tramite monsignor Curioni, che «ricevette fotografie di Moro prigioniero» (2359) – una con il quotidiano La Repubblica per provarne la vitalità – e gestisce fondi per un ipotetico riscatto («dieci miliardi di lire» (2357) in mazzette con fascetta di «una banca ebraica» (2358)). Le dichiarazioni di Curioni su un «intermediario non affidabile» (2368) e sulla possibile identità dell’uccisore («Giustino De Vuono» (2371)) si scontrano con l’assenza di prove, mentre l’appunto della Guardia di Finanza del 17 marzo 1978 – che segnalava De Vuono a Roma, in zona Monte Mario – resta un indizio non risolto. Il blocco evidenzia così la sovrapposizione tra reti clandestine, interessi politici (Craxi) ed ecclesiastici, con documenti e informazioni che circolano al di fuori dei canali ufficiali, spesso attraverso figure dai ruoli sfumati: «non eravamo gli unici ad averle [le lettere]» (2333).
21. La segnalazione della Mokbel e le lacune investigative: rumori in codice, pressioni e un biglietto mai recapitato
Un caso di intuizioni ignorate, testimonianze contrastanti e tentativi di manipolazione tra le pieghe delle indagini sul sequestro Moro.
Sommario
Il nucleo del testo ruota attorno alla segnalazione di Lucia Mokbel riguardo a «rumori simili all’alfabeto morse» uditi nella notte tra il 17 e il 18 marzo 1978 in via Gradoli, poi identificati come il «suono della testina rotante di una macchina da scrivere IBM». La donna, svegliatasi per quei suoni «che mi ricordavano il segnale dell'alfabeto morse che mio padre ascoltava alla radio», li riferì al fidanzato Gianni Diana e tentò di avvisare il dottor Cioppa tramite un biglietto consegnato a due agenti del commissariato Flaminio, i quali «mi dissero anche come indirizzare la nota» e promisero di recapitarla. Tuttavia, «il dottor Cioppa non è mai stato informato del contenuto del biglietto», come emerso dalle sue dichiarazioni: «Io non ho mai ricevuto nulla». La mancata trasmissione della segnalazione – definita da Cioppa «strumentalizzata in malo modo» – rappresenta una «evidente lacuna investigativa», già rilevata nel primo processo Moro.
Le versioni di Mokbel e Cioppa divergono sulla tempistica dell’incontro successivo alla segnalazione: la donna sostenne di averlo incontrato «dopo circa venti giorni dal fatto», durante il sequestro Moro, mentre Cioppa collocò l’epilogo «nel settembre del 1978», mesi dopo l’omicidio. La discrepanza assume rilevanza investigativa, poiché «se la Mokbel si rivolse a Cioppa in corso di sequestro, sarebbero ben due le segnalazioni che avrebbero potuto condurre al covo di via Gradoli». A ciò si aggiungono le pressioni subite dalla Mokbel, che dichiarò di aver ricevuto «la proposta di prendere trenta milioni di lire per ritrattare» quanto affermato, accompagnata da «allusioni e velate minacce». La donna giustificò la mancata denuncia delle intimidazioni con la sfiducia nelle istituzioni: «Se sono le forze dell'ordine a farmi ciò non mi sono sentita di denunciare. Tra l'altro non sapevo nenche chi fosse la persona che mi aveva offerto soldi».
Il testo accenna inoltre al ruolo marginale della Mokbel nel contesto investigativo, trattata come una «confidente» cui si chiedeva «un passaporto o...», e alla sua percezione di essere stata abbandonata: «Non mi sono mai sentita difesa». Le dichiarazioni di Cioppa e Mokbel, pur confermando i fatti, rivelano incoerenze procedurali – come l’omessa consegna del biglietto da parte del brigadiere Merola – e dinamiche opache, tra cui la decisione del giudice Santiapichi di «non perseguirò i quattro agenti» per non deviare l’attenzione dal processo ai brigatisti. L’episodio, pur secondario rispetto alla ricostruzione del sequestro, evidenzia fallimenti comunicativi e tentativi di depistaggio, lasciando aperte domande sulla gestione delle informazioni cruciali in una fase delicata delle indagini.
22. L’analisi tecnico-balistica e logistica dell’omicidio Moro: ricostruzione della dinamica, prove d’ingombro e dubbi sulla praticabilità in via Montalcini
La ricostruzione forense di un delitto tra ipotesi contrastanti e limiti materiali.
Sommario
Il blocco delinea un’analisi tecnica e logistica dell’omicidio di Aldo Moro, articolata in tre nuclei: la ricostruzione balistica della dinamica delittuosa, le prove d’ingombro e acustiche nel garage di via Montalcini 8, e i dubbi sulla fattibilità operativa in quel contesto. Le indagini della Commissione, affidate al RIS dei Carabinieri, muovono dalla sentenza del processo Moro quinquies (1996), che solleva perplessità sulla verosimiglianza del trasporto in una cesta e sull’esecuzione nel box, definita «non comprensibile» per il «gratuito rischio» corso dai brigatisti, data la «facile percezione dei colpi silenziati» da parte degli abitanti («furono distintamente percepiti dalla Braghetti»). La dinamica omicidiaria viene scomposta in fasi: una prima serie di colpi al torace sinistro, sparati con la mitraglietta Skorpion mentre Moro era «seduto sul pianale del portabagagli, con il busto eretto», seguita da ferite difensive («il pollice della mano sinistra, proteso in avanti») e da colpi successivi in posizione supina, con traiettorie compatibili con sparatori «collocati all’esterno della Renault 4, nella parte posteriore». L’ipotesi alternativa — Moro colpito mentre sedeva all’interno dell’auto — viene scartata come «meno probabile», pur ammettendo che «cinque bossoli calibro 32 Auto» nell’abitacolo potrebbero avvalorarla.
Le prove d’ingombro del 2017 nel garage di via Montalcini rivelano incongruenze strutturali: il box risulta modificato rispetto al 1983, e la collocazione della Renault 4 — con portellone aperto o chiuso — impone spazi ristretti («poco superiore a 0,40m»), che rendono «molto improbabile» aprire il vano senza urti. I test di sparo, condotti con armi prive di silenziatori efficaci e con la saracinesca alzata, producono un «fragore di gran lunga superiore» a quello ipotizzato, minando la credibilità della versione brigatista. Nonostante ciò, la Commissione ammette che «non si può escludere in modo assoluto» l’azione nel box, pur evidenziandone «la macchinosità e i rischi». Le tracce balistiche — residui di sparo sugli indumenti, bossoli dispersi, morfologia delle ferite — suggeriscono «un’estrema vicinanza della vittima all’arma», ma lasciano aperti interrogativi su «se i proiettili calibro 7,65mm siano stati sparati con o senza silenziatore» e sulla «compatibilità» tra le striature sul gilè e il silenziatore della Skorpion.
Il testo accenna infine, in chiusura, a un possibile coinvolgimento della colonna genovese delle BR, citando fonti giornalistiche («un tesoro... una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro») e dichiarazioni di ex brigatisti («solo Moretti, Azzolini, Bonisoli e Micaletto potevano sapere» della sorte degli originali delle lettere), senza però approfondire il nesso con la dinamica omicidiaria.
Note
Riferimenti tecnici
- Armi citate: mitraglietta Skorpion calibro 7,65mm, pistola Walther calibro 9mm corto, bossoli calibro 32 Auto.
- Metodologie: campionamento con stub, esame merceologico, analisi DNA, Laser Scanner 3D, prove di sparo in situ.
- Limiti sperimentali: silenziatori non performanti, saracinesca sollevata, distanza di sicurezza dai colpi.
Fonti esterne
- Sentenza Moro quinquies (17 luglio 1996).
- Articoli: «Critica sociale» (4 maggio 1979), «L’Espresso» (23 aprile 1978), «Pagina» (25 febbraio 1982).
- Testimonianza di Enrico Fenzi (4 novembre 1982 e 13 giugno 2017).
- Memorandum Morucci-SISDE (3 novembre 1990).
23. L’archivio segreto di via Fracchia: logistica, documenti e misteri irrisolti delle Brigate Rosse a Genova
Tra compartimentazione e ipotesi di seppellimento, il covo genovese svela una rete inviolata e un "tesoro" di carte che potrebbe riscrivere la storia dell’organizzazione.
Il blocco di testo ricostruisce la centralità dell’appartamento di via Fracchia come «base logistica di primo piano» delle Brigate Rosse, deposito di «armamenti, esplosivi e munizioni» e, soprattutto, di un «archivio completo nazionale» che includeva «dalla loro prima pubblicazione in originale, sino alla minuta manoscritta del volantino rivendicante la ‘gambizzazione’ del Prof. Moretti». La scoperta, avallata dal «verbale di perquisizione e sequestro» con «753 reperti», smantellò il mito di «Genova [come] territorio inviolato», come testimoniato dall’ex brigatista Anna Maria Massa: «Genova era impermeabile». Le dichiarazioni sottolineano la «compartimentazione» delle colonne, ciascuna con «un proprio archivio», ma via Fracchia emergeva per la presenza di «documentazione della direzione strategica» legata a figure come Dura, «componente storico della colonna, latitante da molti anni».
Accanto ai documenti, il testo evidenzia misteri irrisolti: le «ipotesi di carotaggi in giardino», menzionate dalla stampa fin dal «lancio dell’agenzia Ansa» del 28 marzo 1980 (««numerosi documenti che potrebbero essere di notevole interesse»), e le «voci su scavi» post-irruzione, con «un uomo misterioso, forse Dura, che scavava con un piccone». Le ricostruzioni giornalistiche e giudiziarie si intrecciano con «discrasie temporali» (l’orologio della Ludmann fermo, il ricovero di Benà alle «ore 6» nonostante l’irruzione «poco dopo le 4») e con «quattro fori nell’intonaco», traccia di «una raffica di mitra» accidentale durante l’assalto. Il «materiale da decentrare sotto terra», citato in un appunto sequestrato, alimenta domande su «qualcosa che resterà misterioso», forse «seppellito in giardino», mentre le «quattro bare» uscite dal condominio erano accompagnate da «pacchi e grossi sacchi neri» caricati sui «pulmini dei carabinieri».
Note e riferimenti
Fonti dichiarative e documentali
- Testimonianza di Anna Maria Massa (2626-2627): «Genova era un territorio inviolato» e «nell’ambito della compartimentazione ogni colonna aveva un proprio archivio».
- Dichiarazione del giudice Carli (2677-2681): «entrò per primo il maresciallo Benà […] si prese un colpo di pistola in un occhio».
- Verbale di sequestro (2635): «impressionante elenco di 753 reperti».
- Rapporto giudiziario 15/6-19 (2636): «archivio completo nazionale delle ‘B.R.’».
Pubblicistica e inchieste
- Sandro Provvisionato (2639, 2671-2672): «pacchi e grossi sacchi neri» e «scavando in giardino».
- Corriere mercantile (2674-2676): «Via Fracchia, ricordi indelebili. Quella donna in giardino, l’uomo con il piccone».
- Marcello Zinola (2647-2652, 2668): «orologio della Ludmann fermo», «Benà aveva esploso due colpi in aria».
- Ansa (2640-2641): «numerosi documenti di notevole interesse» (28 marzo 1980, ore 7:42).
Elementi controversi
- Discrasie temporali: irruzione «poco dopo le 4» vs. ricovero di Benà alle «ore 6» (2668).
- Ipotesi di seppellimento: «materiale da decentrare sotto terra» (2644) e «carotaggi in giardino» (2670).
- Dinamica dell’assalto: «raffica accidentale» (2678) e «quattro buchi nell’intonaco» (2682).
24. L’irruzione in via Fracchia: cronologia, discrepanze e ombre sui reperti
L’operazione del 28 marzo 1980 nel covo brigatista di Genova, tra scavi non documentati, arrivi anticipati di magistrati e documenti scomparsi.
Il blocco ricostruisce le fasi dell’irruzione in via Fracchia 12, evidenziando incongruenze temporali, ruoli ambigui e la gestione opaca dei reperti. L’operazione, ufficialmente avviata alle «ore 4,00 circa» (2717) e parte di un piano coordinato dal generale Dalla Chiesa su indicazioni di Patrizio Peci, mostra discrepanze: il maresciallo Benà viene ricoverato alle 6,00 (2743), mentre il chirurgo è chiamato alle 5,30 (2741), suggerendo un anticipo dei fatti. Il magistrato Filippo Maffeo, giunto alle 6,45, nota uno «scavo largo oltre un metro» (2766) nel giardino, «tale da contenere tre valigie medie» (2706), ma «non molto profondo» (2766), realizzato «prima del suo arrivo» (2708) e «verosimilmente mirato» (2707), senza traccia negli atti.
Centrale è la presenza precoce del sostituto procuratore Luciano Di Noto, arrivato «tanto presto da suscitare incredulità» (2710) e trovato «intentato a rovistare tra le carte» (2711) dal capitano Riccio, che lo associa ai «servizi» (2713). Di Noto nega conoscenza dello scavo (2775), ma ammette di aver visto «sacchi di nylon nero con la scritta “da sotterrare”» (2774). Il materiale documentale, «obiettivo primario» (2732), viene gestito in modo frammentario: Maffeo si occupa solo delle armi (2768), Carli (subentrato a Di Noto) dichiara di non aver mai visto «documenti riferibili ad Aldo Moro» (2781), pur apprendendo da colleghi torinesi l’esistenza di «appunti manoscritti» (2785). Le dichiarazioni di Carli su un presunto «materiale eccezionale» (2798) sono smentite dai magistrati torinesi (2800), che negano qualsiasi coinvolgimento pre-aprile 1980.
Emergono elementi collaterali: una telefonata anonima alle 3,00 al direttore del Corriere Mercantile («in via Fracchia c’è stata una strage di brigatisti» – 2753) e l’orologio di Annamaria Ludmann fermo alle 2,42 (2758), che anticipano l’ora ufficiale. La tensione tra carabinieri e magistrati traspare nelle parole di Dalla Chiesa, «interessato a questa vicenda» (2793), e nella «rafficata di PM12» (2794) prima dell’irruzione. Il blocco si chiude con il dubbio sulla «consistenza di quel tesoro» (2750) rinvenuto e mai formalizzato, tra «sacchi da interrare» (2774), «valigie» (2706) e documenti mai pervenuti a Carli.
Note
- Le citazioni in corsivo tra virgolette sono tratte dalle frasi originali, tradotte se necessario.
- I riferimenti temporali (ore 2,42; 3,00; 4,00; 6,00) segnalano la discrasia tra ricostruzioni ufficiali e indizi emersi.
- Tematiche minori: ruolo dei servizi segreti (2713, 2793), collaborazione di Peci (2807-2814), dinamica del conflitto a fuoco (2719, 2794).
25. Incongruenze e testimonianze sul trasbordo di Aldo Moro: tra versioni brigatiste e ricostruzioni investigative
Dalle discordanze tra il memoriale di Morucci e le deposizioni dei testimoni alle ipotesi su basi logistiche nascoste: un quadro frammentato tra auto abbandonate, orari controversi e presenze non dichiarate.
Il blocco di testo ricostruisce le contraddizioni emerse tra la versione brigatista del sequestro Moro – come riportata nel «memoriale Morucci» – e le testimonianze raccolte durante le indagini, focalizzandosi sul trasbordo dell’ostaggio e sull’abbandono dei veicoli usati nella fuga. La narrazione ufficiale delle BR colloca il trasferimento di Moro dalla Fiat 132 a un furgone in piazza Madonna del Cenacolo tra le 9.10 e le 9.30, con Raffaele Fiore unico occupante dell’auto. Tuttavia, «numerose testimonianze» smentiscono questa ricostruzione: la testimone Perugini descrive «due uomini e una donna» a bordo della 132 in via Licinio Calvo, mentre un registro della Questura alle 9.27 annota «una donna e un uomo armati» allontanarsi a piedi dalla stessa zona. La presenza di una donna – «sia che questa sia la Balzerani […] sia che si tratti di un’altra donna ignota» – implica che «l’autovettura più importante del ‘commando’ […] deve essersi fermata in un luogo diverso rispetto a quanto noto», minando la coerenza della versione brigatista.
Le deposizioni di Elsa Maria Stocco (via Bitossi) e Paolo Nava (via Licinio Calvo) introducono ulteriori elementi di frammentazione. La Stocco riferisce di aver visto alle 9.25 «un’autovettura di grossa cilindrata» – identificabile con la 132 – «giungere da via Massimi a forte velocità», da cui scende «un uomo […] con abito da pilota civile» che carica «una valigia e un borsone scuro» su un furgone chiaro. Il dettaglio del «borsone» e dell’«impermeabile blu» contrasta con la dinamica descritta da Morucci, che non menziona alcun punto di trasbordo intermedio in via Bitossi. Analogamente, Nava attesta che la Fiat 128 blu – secondo Morucci parcheggiata in via Licinio Calvo subito dopo l’azione – «non era presente» nella zona prima delle 18.00 del 18 marzo, bensì «notata solo alle 0.30 del 19 marzo». L’ipotesi investigativa suggerisce quindi che «le auto utilizzate in via Fani» siano state «depositate nella zona […] per poi gestirne il rilascio progressivo», forse tramite «una base di appoggio» mai identificata. La Commissione Moro sottolinea «elementi di illogicità» nel trasbordo in piazza Madonna del Cenacolo, mentre una «fonte confidenziale» della Guardia di Finanza – «degna di fede» ma mai identificata – indica la detenzione di Moro nella zona Balduina-Trionfale «con un solo carceriere», aggiungendo un ulteriore livello di complessità alla ricostruzione.
Note
Discrepanze temporali e spaziali
- Le 9.27 (registro Questura) vs. 9.10-9.30 (memoriale BR) per l’abbandono della 132.
- La Fiat 128 blu «non vista» prima delle 18.00 del 18 marzo (Nava) vs. parcheggiata «la stessa mattina del 16» (Morucci).
- «Autofurgone grigio chiaro» in via Bitossi (Morucci) «mai recuperato» e lasciato «incustodito».
Testimonianze chiave
- Maria Assunta Perugini: «due uomini e una donna» nella 132 (vs. solo Fiore).
- Elsa Maria Stocco: «valigia e borsone scuro» caricati su furgone in via Bitossi («9.20-9.25»).
- Fonte GdF: Moro «nella zona Balduina-Trionfale» con «un solo carceriere».
26. Nuove prospettive sul caso Moro: responsabilità diffuse, connessioni internazionali e aree grigie
La vicenda Moro oltre il terrorismo: un intreccio di omissioni, interessi esterni e compromissioni istituzionali
Il blocco analizza i risultati delle indagini condotte da una Commissione parlamentare sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, evidenziando come la vicenda non sia riducibile a un’azione isolata delle Brigate rosse, ma sia invece attraversata da «una pluralità di soggetti, che per ragioni diverse, influirono sulla gestione e tragica conclusione» (3036). Emergono «specifiche responsabilità» (3025) legate a «ambiguità di singoli esponenti della politica, della magistratura e degli apparati» (3029), oltre a «infiltrazioni nelle Brigate rosse» (3040) e «rapporti fra varie entità, anche criminali o terroristiche, e i vari servizi segreti» (3041). La ricostruzione si basa su «documenti declassificati» (3024) e «fonti dimenticate o occultate» (3024), che permettono di «riesaminare» (3031) eventi chiave come la dinamica di via Fani, il ruolo del «bar Olivetti» (3031) e del «complesso di proprietà IOR» (3032) nella Balduina, potenziale «prigione dello statista» (3033).
La dimensione internazionale assume un rilievo centrale: «la vicenda Moro acquisisce una rilevante dimensione internazionale» (3047), con «accordi politici e di intelligence» (3042) che legano l’Italia al «Medio Oriente, alla Libia e alla questione israelo-palestinese» (3042). Si sottolinea il «tessuto di forze» (3048) che «operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro» (3048), tra cui «movimenti palestinesi» (3043), «criminalità organizzata» (3038) e «Servizi esteri» (3049). Le «trattative tentate da più attori» (3050) — tra cui «iniziative socialiste» (3051), «Santa Sede» (3052) e «canali di comunicazione con i brigatisti» (3043) — rivelano un «sfondo di compromissioni a vari livelli» (3039). La Commissione, pur non offrendo una «lettura complessiva» (3025), «restituisce a Moro un grande spessore politico e intellettuale» (3054) e «fa emergere il suo ‘martirio laico’» (3054), mentre «le attività tecniche delegate al RIS» (3034) mettono in discussione «l’ipotizzata uccisione di Moro nel pianale del vano portabagagli» (3034).
Note
(3023-3057) Le frasi citate sono tratte da documentazione ufficiale della Commissione parlamentare. Il riferimento a «direttiva Renzi» (3024) allude a provvedimenti di declassifica archivistica. «Superclan» (3045) e «scuola Hypérion» (3045) indicano contesti eversivi indagati. «P2» (3037) rinvia alla loggia massonica P2. «IOR» (3032) è l’Istituto per le Opere di Religione (banca vaticana). «SISMI» (3043) è il Servizio segreto militare italiano. «Rénault 4» (3034) è il modello dell’auto usata per il trasferimento di Moro.