Carl von Clausewitz - Della Guerra - Dettagli | 33d
1. Genesi e sviluppo dell'opera
La genesi di un'opera sistematica e le circostanze della sua pubblicazione postuma.
Il blocco descrive il metodo di lavoro dell'autore, caratterizzato da uno sviluppo sistematico delle idee e dall'ambizione di creare un'opera duratura. Viene poi narrata la biografia dell'autore, segnata dagli impegni militari che interruppero il suo lavoro scientifico, e la sua morte prematura, che lasciò l'opera incompiuta. La vedova ne curò la pubblicazione, basandosi sui manoscritti originali e su un'opera di riordino supportata da amici e collaboratori. Sono incluse due note dell'autore che illustrano lo stato frammentario dell'opera, il progetto di un rimaneggiamento organico basato sul principio che "la guerra non è se non la continuazione della politica con altri mezzi" e le immense difficoltà di una teoria della guerra, pur riconoscendo la validità di alcune proposizioni fondamentali.
L'autore inizialmente si rivolgeva a un lettore esperto, ma la sua indole lo portò a "sviluppare tutto in forma sistematica". Desiderava evitare i luoghi comuni e "scrivere un libro che non potesse essere dimenticato dopo due o tre anni". L'opera fu arricchita durante il suo incarico a Berlino, divenendo "lo scopo della sua esistenza". Tuttavia, nuovi incarichi militari lo costrinsero a interrompere il lavoro. Dopo la sua morte, i manoscritti, da lui stesso sigillati, furono pubblicati dalla vedova, la quale espresse gratitudine per gli amici che l'aiutarono nell'opera di riordino. Nelle sue note, l'autore definisce i manoscritti una "raccolta di frammenti" e delinea l'architettura dell'opera, sottolineando la necessità di un rimaneggiamento per dare maggiore unità alle idee. Affronta le difficoltà di una teoria della guerra, notando come molti generali agiscano per intuito, ma sostiene l'utilità di idee chiare, citando alcuni principi fondamentali come "La difesa è la forma più forte [...] l'attacco è la più debole" e "La vittoria non consiste esclusivamente nella conquista del campo di battaglia, ma nella distruzione materiale e morale delle forze combattenti".
Blocco 2: La natura assoluta della guerra e i suoi limiti nella realtà
L'impiego illimitato della forza e i principi moderatori che emergono dalla realtà concreta dei conflitti.
Il blocco delinea la natura intrinseca della guerra come atto di forza spinto all'estremo, un "impiego assoluto della forza" dove "i belligeranti si impongono legge mutualmente". Questo concetto astratto, che definisce la guerra come un atto il cui "impiego della quale non esistono limiti", conduce logicamente a un'estremizzazione degli sforzi, poiché lo scopo ultimo è "ridurre il nemico all’impotenza". L'analisi identifica tre criteri illimitati derivanti dall'azione reciproca: l'impiego della forza, lo scopo di disarmare l'avversario e la "tensione estrema delle forze", dove ogni belligerante deve "proporzionare il nostro sforzo alla sua capacità di resistenza". Tuttavia, il testo precisa che questa tensione verso l'assoluto è un puro "giuoco del pensiero" nel campo astratto. Nella realtà, la guerra è moderata da elementi contingenti: "non è mai un atto isolato" e "non consiste in un solo urto istantaneo". Le "deficienze, influenti su entrambe le parti, costituiscono già un principio moderatore", allontanando il conflitto dalla sua forma ideale e puramente logica.
3. La natura negativa dell'intenzione e il mezzo del combattimento
La strategia della resistenza come forma di attacco e il ruolo fondamentale del combattimento nell'arte della guerra.
Sommario
Il blocco delinea la natura negativa dell'intenzione strategica, dove "la resistenza è invece una forma di attacco, mediante la quale si deve distruggere tanta forza del nemico, che egli sia obbligato a rinunziare al suo intendimento". Questo approccio, sebbene meno efficace in singoli atti, conferisce maggiore sicurezza e permette di "sorpassare l'avversario nella durata della lotta, e cioè di spossarlo". Lo scopo diventa così prolungare il conflitto fino a quando il nemico, per eccessivo dispendio di forze, è costretto a desistere, una strategia particolarmente adatta al debole che resiste al potente. Viene quindi introdotto il mezzo universale della guerra: il combattimento. "Non abbiamo che un mezzo in guerra, il combattimento", sebbene il suo impiego sia multiforme e gli scopi perseguibili siano molteplici. Tutta l'attività militare, dal reclutamento alla marcia, si riferisce al combattimento, poiché "tutti i fili motori dell'attività militare fanno capo al combattimento". Tuttavia, lo scopo immediato di un combattimento non è necessariamente la distruzione fisica del nemico; può essere il possesso di una posizione o un effetto dimostrativo, poiché "la distruzione delle forze armate che ci fronteggiano può non essere lo scopo del combattimento, ma solo il mezzo per raggiungere questo scopo". Nonostante questa varietà di scopi, la distruzione delle forze nemiche rimane la base ultima di ogni azione, "il caposaldo finale di tutte le combinazioni", paragonabile al "denaro contante" nelle transazioni commerciali, un regolamento inevitabile da cui nessuna combinazione può prescindere.
4. Carattere, ostinazione e intuito del terreno nella condotta bellica
La difficoltà di agire in guerra tra intuizioni, impressioni contrastanti e la necessità di principi superiori.
Sommario
Il blocco analizza le qualità necessarie al comandante militare, partendo dalla tensione tra le impressioni immediate della guerra e la necessità di principi guida. L'azione si fonda su "intuizioni, presentimenti della verità", mentre il "proprio convincimento è sempre esposto a cozzare contro un torrente di impressioni incessanti". Per resistere a questo flusso, occorre "essere fermo nella propria fede in princìpi superiori già provati"; questa perseveranza, che conferisce "continuità e consequenzialità", costituisce la forza del carattere. Tuttavia, questa forza può degenerare in ostinazione, definita come "un difetto del sentimento" derivante da "un sentimento di contraddizione" e da un "piacere esclusivo di dominare", e non da una convinzione superiore. La trattazione si sposta poi su "l’intuito del rapporto che intercede fra la guerra, la regione e il terreno", una facoltà decisiva che "modifica ed anche cambia talvolta completamente gli effetti di tutte le forze". Questa interdipendenza è "altamente caratteristica dell'attività bellica" e richiede un "senso del terreno", ovvero "la facoltà di concepire prontamente la forma geometrica reale di ciascun terreno". Tale facoltà è un atto dell'immaginazione, che crea una "vera carta topografica interna". Sebbene "l'esercizio e il ragionamento contribuiscono molto", senza l'immaginazione "diverrebbe molto difficile rappresentarsi allo spirito gli oggetti nei loro rapporti di forma". L'importanza di questa abilità cresce con il grado del comandante, poiché egli "deve elevarsi fino ai caratteri geografici generali di una provincia e di un paese". Infine, si afferma che "la cooperazione dell’intelligenza ci appare elemento essenziale" in guerra, e che "nulla è più comune dell’esempio di uomini che perdono la loro efficacia attiva non appena pervengono a posizioni superiori" alle loro capacità intellettuali, sottolineando come "ogni grado della gerarchia forma... una zona distinta di capacità spirituali necessarie".
5. Attriti, Informazioni e Volontà nella Guerra
Le insidie della percezione e la resistenza della materia nella condotta bellica.
Sommario
Il testo analizza gli "attriti" in guerra, definiti come "quelle difficoltà che si accumulano e producono, nel loro complesso, un attrito, che non ci si può raffigurare esattamente senza aver veduto la guerra". Questi attriti nascono da "cause accidentali" e "piccoli ostacoli" innumerevoli, come le condizioni atmosferiche, dove "talvolta la nebbia impedisce che il nemico sia scorto in tempo" o "la pioggia... ritarda un battaglione". La macchina militare, sebbene apparentemente semplice, è composta da "singoli ingranaggi di cui ciascuno ha un attrito proprio", rendendo imprevedibile il rendimento effettivo delle truppe. Per vincere questi attriti "occorre una volontà di ferro" del comandante, "una volontà energica di un fiero spirito". Un altro tema centrale è la fragilità delle informazioni in guerra, poiché "le informazioni che si ottengono in guerra sono in gran parte contraddittorie, in maggior parte ancora menzognere, e quasi tutte incerte". Questa incertezza, unita alla tendenza umana a credere "più il male che il bene", crea un "crepaccio... fra il progetto e l'esecuzione". Il comandante deve quindi possedere un "certo discernimento" e, nonostante i dubbi, mantenere una "salda fiducia in se stesso" per "conservare il vero equilibrio" e non farsi travolgere dalle apparenze, poiché "l'impressione sui sensi è più potente di quella che elabora il calcolo interno".
6. Della teoria della guerra
Definizione e delimitazione dell'arte della guerra in senso ristretto, con una rassegna critica dei tentativi storici di costruirne una dottrina positiva.
Il blocco delinea l'evoluzione del concetto di arte della guerra, da un'attività inizialmente concentrata sugli aspetti materiali verso una teoria che ambisce a comprendere la condotta bellica propriamente detta. Viene stabilita la distinzione tra tattica e strategia, considerate "due attività che si compenetrano mutualmente nello spazio e nel tempo, ma restano tuttavia essenzialmente distinte". Il testo passa in rassegna i tentativi fallimentari di fondare una dottrina positiva basata su elementi unilaterali e materiali, come la superiorità numerica, l'alimentazione delle truppe o principi geometrici, giudicandoli inadeguati perché "in guerra tutto è indeterminato, e il calcolo non può esercitarsi che su grandezze variabili". Si sottolinea come questi sistemi dottrinari entrino in "contraddizione inconciliabile fra tale teoria e la pratica", trascurando le forze morali e il genio, che "è al di fuori d’ogni regola". La difficoltà suprema per una teoria della guerra risiede nel momento in cui "tocca il dominio dei fattori morali", dove "tutto il sistema delle regole si dissolve nella incertezza delle regioni ideali".
7. Principi, regole e metodi nella condotta della guerra
Analisi delle forme dottrinali e del loro impiego nella teoria e nella pratica militare, con particolare riferimento a tattica e strategia.
Sommario
Il blocco esamina i diversi strumenti dottrinali per la condotta della guerra, distinguendo tra princìpi, regole, prescrizioni e metodi. I princìpi tattici, come "non impiegare senza necessità la cavalleria contro una fanteria non ancora scossa" o "economizzare per quanto possibile le forze, nel combattimento, a pro della sua fase finale", non sono applicabili in ogni caso ma devono rimanere presenti alla mente di chi dirige l'azione. Le regole permettono di riconoscere una verità latente attraverso un singolo indice appariscente; ad esempio, "si attacchi il nemico con raddoppiata energia quando le sue batterie cominciano a ritirarsi dal combattimento", poiché da quell'azione si desume l'intenzione del nemico di ritirarsi. Le prescrizioni e i metodi, spesso codificati nei regolamenti, introducono teorie preparatorie inoculate nelle truppe addestrate. La dottrina come metodo, o "metodismo", è fondata non su premesse determinate ma "sulla probabilità media dei casi" e, sviluppando un'abilità meccanica, risulta indispensabile, specialmente nei gradi di comando inferiori.
L'impiego del metodo è più frequente e necessario scendendo nella scala gerarchica, poiché "ci si può tanto meno fidare del discernimento e del criterio di ciascuno, quanto più l’azione individuale discende nelle regioni subalterne". Al contrario, il metodo perde d'importanza e "si perde poi interamente nelle posizioni più elevate", essendo la guerra composta di "avvenimenti distinti, considerevoli, decisivi, che debbono essere trattati ognuno a sé". Tuttavia, un metodismo eccessivo e acritico, basato sulla mera imitazione di procedimenti passati, può rivelarsi disastroso, come dimostrato dall'annientamento dell'esercito prussiano nel 1806. La critica è presentata come l'applicazione della verità teorica agli avvenimenti reali, essenziale per "ravvicinare tale verità alla vita" e abituare il raziocinio alle sue applicazioni. La critica deve risalire a verità indiscutibili e, pur appoggiandosi alla teoria, non deve usare i suoi risultati come leggi assolute ma come punti di riferimento per il criterio, investigando le cause degli effetti e la pertinenza dei mezzi agli scopi.
Blocco 8: Analisi critica delle campagne di Bonaparte e considerazioni sulla guerra
Valutazione strategica delle scelte di Bonaparte nel 1797 e dei principi dell'esame critico in guerra.
Sommario
Il blocco analizza criticamente le decisioni strategiche del generale Bonaparte durante la campagna del 1797, in particolare il passaggio delle Alpi Noriche e la successiva marcia verso Vienna. Viene esaminato "quale uso poteva il generale Bonaparte fare di questo successo", considerando l'opportunità di "penetrare fino al cuore della monarchia austriaca". La critica si sviluppa su "punti di vista più elevati", valutando i rischi di un'azione temeraria qualora gli Austriaci avessero ritirato "dal Reno, per raccoglierle in Stiria, riserve considerevoli". Si conclude che la minaccia su Vienna, se la capitale era scoperta, poteva costituire lo "scopo finale" per costringere gli avversari alla pace, come di fatto avvenne con la pace di Campoformio, conclusa da Bonaparte che "doveva conoscere perfettamente la posizione disperata dell’arciduca". Viene inoltre discussa l'importanza di considerare mezzi alternativi nelle analisi critiche, poiché "l'esame critico non consiste solo nell’apprezzare i mezzi realmente impiegati, ma anche tutti quelli che era possibile impiegare". A supporto di questo principio, vengono portati due esempi: la decisione di Bonaparte di levare l'assedio di Mantova nel 1796, dove si ipotizza un mezzo alternativo come la resistenza su una "linea di circonvallazione", e la campagna del 1814 di Napoleone, chiedendosi "ciò che sarebbe avvenuto se egli, invece di lasciar da parte Bliicher per volgersi contro Schwarzenberg, avesse ripetuto i suoi colpi contro Bliicher inseguendolo fino al Reno". Il blocco sottolinea infine la necessità di dimostrare la superiorità di un mezzo alternativo, in quanto "la prova che noi esigiamo è sempre indispensabile", basandosi su "verità semplici" per risolvere i contrasti di opinione.
9. Le forze morali nella guerra
L'indispensabile influenza degli elementi immateriali e spirituali sulla condotta e sull'esito del conflitto.
Sommario
Il testo stabilisce che "gli spiriti, che penetrano tutto l'elemento della guerra" sono fondamentali e "si collegano alla volontà che deve dare impulso e dirigere l’insieme delle forze". Queste forze, come "lo spirito e le altre qualità morali dell'esercito, del condottiero, dei governi", sfuggono a una quantificazione rigida poiché "non si lasciano ridurre in cifre né in categorie; debbono essere veduti e sentiti". Una teoria della guerra che le ignorasse sarebbe "una filosofia ben povera", in quanto "gli effetti delle forze fisiche sono intimamente compenetrati con quelli delle forze morali". La storia è indicata come la fonte migliore per comprenderne il valore, essendo "la sostanza nutritiva più pura e preziosa che la spetta del condottiero possa trarre dalla storia". Viene quindi analizzata la triade delle "forze morali preponderanti": "il talento del capo, la virtù militare dell'esercito e il suo sentimento nazionale". Il loro peso relativo varia a seconda del contesto; ad esempio, "il sentimento nazionale dell'esercito ha massimo peso nelle guerre di montagna", mentre "l'abilità manovriera di un esercito e il coraggio incrollabile" mostrano la superiorità in terreno piano. La "virtù militare dell’esercito" è distinta dalla semplice prodezza e si manifesta in un esercito che "mantiene il suo ordine abituale in mezzo al fuoco più distruttore" ed è "compenetrato da spirito militare". Questo spirito, fondamentale per le parti dell'esercito che il comandante non può dirigere personalmente, "non può scaturire che da due sorgenti: una serie di guerre fortunate e l’attività dell’esercito spinta sovente fino ai più estremi sforzi". Infine, viene esaminata l'audacia, definita come "questo nobile slancio, per mezzo del quale l’anima umana si innalza al disopra dei più minacciosi pericoli", alla quale deve essere riconosciuto un ruolo attivo in guerra.
10. La superiorità numerica, la sorpresa e l'astuzia in guerra
Sulla ricerca della superiorità e sugli espedienti per ottenerla.
Sommario
Il testo analizza il principio della superiorità numerica, considerata essenziale ma non condizione assoluta per la vittoria; "essa dev'essere considerata essenziale e si deve ricercarla sempre, nei limiti dei mezzi esistenti". Dalla ricerca della superiorità relativa discende logicamente la tendenza alla sorpresa, presentata come base di "tutte le imprese di guerra". La sorpresa è un mezzo per ottenere la superiorità numerica e ha potenti "effetti morali sull’avversario", ma la sua attuazione pratica è limitata dall'attrito e dalle circostanze, riuscendo "raramente in grado notevole". Vengono esaminati esempi storici, come le campagne di Federico il Grande e Napoleone, per illustrare come i grandi successi derivanti dalla sorpresa siano rari e spesso favoriti da circostanze fortuite: "anche qui, la fortuna ebbe una parte considerevole". Viene infine introdotto il concetto di astuzia, definita come "un giuoco di prestigio per mezzo di azioni" e strettamente connessa alla sorpresa. Tuttavia, l'astuzia strategica trova scarse applicazioni pratiche a causa della serietà della guerra e della limitata mobilità delle forze, risultando più utile "una facoltà di colpo d'occhio giusto e penetrante". L'astuzia diviene una risorsa praticabile soprattutto in situazioni di debolezza e disperazione, dove si esalta assieme all'audacia.
11. Impiego Strategico delle Forze e Riserva
Sull'impiego simultaneo delle forze in strategia e la limitata utilità della riserva strategica.
Sommario
Il blocco analizza il principio dell'impiego simultaneo di tutte le forze disponibili in strategia, sostenendo che, a differenza della tattica, le perdite strategiche non crescono proporzionalmente alla massa impiegata. Si afferma che "le forze impiegate non siano mai troppo numerose, e che quelle disponibili per impiego debbano impiegarsi simultaneamente". Viene esaminato l'elemento distruttivo delle fatiche e delle privazioni, riconoscendo che "in strategia, in cui i tempie gli spazi sono maggiori, l’effetto non solo è sempre sensibile, ma talvolta è decisivo". Tuttavia, si contesta che queste perdite crescano direttamente con la massa, poiché "la superiorità numerica sul nemico" rende il servizio dell'esercito "tanto più facile". Viene citato l'esempio di Napoleone in Russia per illustrare come la superiorità numerica, sebbene causa di privazioni, sia il mezzo per "estendere il risultato", poiché "con la grandezza del risultato cresce la proporzione del vantaggio". La legge finale enunciata è: "Occorre impiegare simultaneamente tutte le forze destinate ad uno scopo strategico e disponibili per tale scopo". L'analisi si conclude distinguendo la riserva strategica, la cui unica ammissibilità è legata alla necessità di "parare all’imprevisto", a differenza della riserva tattica che prolunga il combattimento. Si precisa che "l’incertezza diminuisce tanto maggiormente quanto più l’attività strategica si allontana dall’azione tattica", riducendo così la necessità di una riserva strategica man mano che ci si avvicina alla sfera politica.
12. La Grande Battaglia e lo Sfruttamento della Vittoria
La teoria della guerra e l'importanza della battaglia decisiva.
Il blocco analizza il concetto di battaglia decisiva, la sua pianificazione e le modalità per sfruttare la vittoria. Viene sottolineato come "solo le grandi vittorie hanno condotto a grandi risultati". La battaglia è definita "una decisione capitale; non però come la sola necessaria", la cui portata dipende dalle forze impegnate e dalle conseguenze. L'analisi prosegue esaminando i fattori che intensificano la vittoria, come la manovra tattica e il rapporto di forze, e la necessità dell'inseguimento, poiché "senza inseguimento, nessuna vittoria può avere grandi conseguenze". Vengono descritti i gradi dell'inseguimento, dalla cavalleria all'avanzata di tutto l'esercito, e gli ostacoli fisici e morali che lo limitano, concludendo che "ordinariamente la notte mette fine all'inseguimento".
13. Ritirata dopo una battaglia perduta e combattimento notturno
La condotta di una ritirata strategica e l'impiego tattico del combattimento notturno.
Sommario
La sconfitta in battaglia spezza le energie dell'esercito, "e più ancora le forze morali di quelle fisiche". Una seconda battaglia, senza nuove circostanze favorevoli, produrrebbe una disfatta completa, forse l'annientamento, poiché "questo è un assioma militare". La ritirata deve quindi continuare fino a che "l'equilibrio delle forze non venga ristabilito", tramite rinforzi, piazzeforti o ostacoli naturali. Per mantenere un rapporto favorevole tra le forze morali, è necessario operare "una ritirata lenta, accompagnata sempre da resistenze, da audaci ritorni offensivi". Le ritirate dei grandi generali "somigliano all'indietreggiamento del leone ferito". I primi movimenti devono essere brevi e non si deve cedere "un palmo di terreno oltre quello che le circostanze impongono". Un criterio fondamentale è cercare "di non farsi imporre la legge dal vincitore", anche a costo di combattimenti sanguinosi per la retroguardia, poiché un'accelerazione eccessiva del movimento "diviene una corsa precipitosa" e fa svanire "gli ultimi residui del coraggio". I mezzi per una ritirata efficace includono "una forte retroguardia composta delle migliori truppe" e "lo sfruttamento razionale del terreno". Viene confutata l'idea di frazionare l'esercito per operare la ritirata, poiché "ogni battaglia perduta costituisce un motivo d'indebolimento e di disorganizzazione, e la necessità più urgente è quella di concentrarsi". Qualsiasi frazionamento che non miri al combattimento in comune è "sommamente pericoloso, contrario alla natura delle cose". Riguardo al combattimento notturno, esso "non è che un'azione di sorpresa accentuata". Sebbene a prima vista possa sembrare di grandissima efficacia, in realtà queste azioni "avvengono molto raramente". Le difficoltà sono molte: le informazioni sul nemico sono spesso incomplete e sorpassate, e "ciò che l'attaccante sa circa il difensore, in caso di sorpresa notturna raramente e forse mai è sufficiente a compensare la mancanza di visione immediata". Il difensore ha il vantaggio di conoscere meglio il terreno, orientandosi "più facilmente di un estraneo". Di conseguenza, "solo ragioni speciali possono indur[re] ad un attacco notturno", che di massima "può assumere solo la forma di combattimento parziale, e di rado quella di una grande battaglia". Il suo scopo principale è attaccare "con grande preponderanza un'aliquota dell'esercito avversario" per arrecarle gravi perdite, sfruttando l'elemento sorpresa che "non può ottenersi che di notte". Tali azioni sono più adatte a piccoli corpi di truppa, poiché "le difficoltà d’attuazione consigliano di limitare a piccole aliquote le azioni notturne" e l'effettuare "movimenti inosservati è condizione essenziale per l’attuazione: e ciò è più facile ad ottenersi con aliquote di piccola forza".
Riferimenti
(3075, 3076, 3077, 3078, 3080, 3081, 3086, 3087, 3088, 3089, 3094, 3093, 3103, 3104, 3107, 3115, 3116, 3118, 3119, 3120, 3121, 3123, 3131, 3132)
14. Rapporto delle forze e coordinamento delle armi
Analisi del rapporto quantitativo tra gli eserciti e delle caratteristiche fondamentali delle armi principali in combattimento.
Sommario
Il testo esamina l'importanza del rapporto di forze in guerra, affermando che "l'eccedenza di forza deve fornire un successo molto più sicuro" in battaglie condotte lentamente. Sebbene la forza assoluta sia spesso un dato immodificabile in strategia, "non si deve concludere che sia impossibile sostenere la guerra con un esercito sensibilmente più debole". Per un esercito più debole, la via d'uscita risiede nel limitare gli scopi e la durata dell'azione: "Quanto più piccola è la forza disponibile, tanto più ristretti debbono essere gli scopi". L'energia interna delle forze deve crescere sotto la pressione del pericolo; se a questa energia "si unisce una saggia moderazione negli scopi", si produce quel "giuoco intelligente di colpi brillanti" ammirato in Federico il Grande. Quando la sproporzione è tale che "nessuna restrizione dello scopo può prevenire la catastrofe", occorre concentrare le forze in "un sol colpo disperato", dove "massimo ardimento diverrà per lui la suprema saggezza".
La seconda parte analizza le tre armi principali. Il combattimento consta di due elementi: "il principio dell’annientamento mediante il fuoco, e la mischia ossia il combattimento individuale". L'artiglieria agisce solo col fuoco, la cavalleria col combattimento individuale e la fanteria mediante entrambi. Da ciò deriva "la superiorità e l’adattabilità genetica della fanteria" poiché è l'unica a riunire "tutte e tre le energie elementari". Viene stabilito un ordine d'importanza: "La fanteria è la più indipendente fra tutte le armi", "L'artiglieria è assolutamente incapace d'indipendenza" e "La cavalleria è quella di cui maggiormente si può fare a meno". Tuttavia, "il complesso coordinato delle tre armi conferisce la massima potenza". Determinare la proporzione ideale tra le armi è complesso, in parte perché il loro costo e rendimento sono difficili da paragonare con un'unità di misura univoca.
Blocco 15: Principi Organizzativi e Schieramento Strategico
Considerazioni sulla strutturazione gerarchica degli eserciti, il raggruppamento delle armi e l'evoluzione dello schieramento strategico.
Sommario
Il blocco analizza i principi per la ripartizione di un'armata in aliquote, sostenendo che "il numero di aliquote non dev'essere troppo rilevante, se si vogliono evitare inconvenienti". Viene stabilito che da un quartier generale d'armata è già difficile "il guidare otto aliquote: e il loro numero non dovrebbe mai superare il dieci", mentre per una divisione sono opportune "cifre minori: quattro, al massimo cinque aliquote in sottordine". Un numero eccessivo di aliquote indebolisce "il potere della volontà superiore", poiché "ogni vantaggio scompare quando si debbano dare ordini a un numero così grande di generali". Viene discussa la dimensione ideale di una brigata, considerata "un elemento che possa essere comandato da un uomo solo in modo diretto e cioè nel raggio della sua voce", con una forza abituale "fra i 2000 e i 5000 uomini". Si affronta poi il tema del raggruppamento delle varie armi, necessario per l'autonomia delle unità, in quanto "solo con esso si può ottenere l'autonomia di un'unità". La strategia richiederebbe "il raggruppamento permanente delle armi soltanto per i corpi d'armata, o, se essi non esistono, per le divisioni". Infine, il testo delinea l'evoluzione storica dello "schieramento generale dell'esercito", contrapponendo i metodi del passato, dove la scelta del campo era dettata dalla "comodità quale fattore principale", a quelli moderni, nei quali "la situazione inerente ai periodi in cui non si combatte è tanto compenetrata dei rapporti col combattimento, che non si può pensare più a considerarla come una cosa a sé stante". Oggi, infatti, "il combattimento è il filo della spada, lo stato di non combattimento ne è il dorso, sì che il complesso deve considerarsi come un metallo di fusione".
Blocco 16: La funzione e la condotta dei corpi avanzati
Analisi della resistenza strategica offerta da un corpo distaccato in avanti, delle variabili che ne influenzano l'efficacia e della transizione verso i temi degli accampamenti.
Il blocco esamina la funzione di un corpo avanzato, il cui scopo primario è il guadagno di tempo per il grosso dell'esercito. "Questa prima fase... garantisce già un certo guadagno di tempo". La resistenza, seppur relativa, è resa possibile dalla prudenza di chi avanza, il quale "mantiene le proprie singole colonne dal più al meno ad una medesima altezza" per evitare di essere a sua volta aggirato. L'azione del corpo avanzato è un'ibridazione di movimento e combattimento: "la resistenza di combattimento e il movimento in ritirata sono intimamente fusi". L'efficacia di questa resistenza dipende da diversi fattori, tra cui "la forza del corpo stesso e dalla natura del terreno", "la lunghezza del percorso che deve compiere" e "l’aiuto e dal sostegno che potrà ricevere". Viene citato l'esempio storico del corpo prussiano del generale Ziethen nel 1815, che, nonostante la sproporzione di forze e un percorso breve, "poté far guadagnare più di 24 ore all’esercito prussiano". Vengono quindi proposte stime pratiche sulla durata della resistenza, notando che "un’avanguardia spinta molto in avanti ci faccia guadagnare assai maggior tempo" poiché la notte interviene a favore del difensore. Il blocco si conclude estendendo le considerazioni ai corpi dislocati lateralmente, il cui procedimento è in correlazione con le condizioni della zona di impiego, e introducendo il tema successivo degli accampamenti, definiti strategicamente come "del tutto rispondenti... al combattimento". Viene tracciato un cenno storico sull'evoluzione dei sistemi di accampamento, dall'uso delle tende al loro abbandono dopo le guerre della Rivoluzione francese.
Marce Militari 17
Considerazioni sulla durata, lo sforzo e l'organizzazione degli spostamenti delle truppe, con particolare attenzione all'influenza del bagaglio e al logoramento fisico.
Il testo analizza le marce militari, definendone i tempi, le difficoltà organizzative e l'impatto logorante sulle truppe. Viene stabilito che "le marce più lunghe, prese isolatamente, possono essere di 5 e al massimo 6 miglia", mentre per marce consecutive il limite scende a 4 miglia. La presenza di più divisioni incolonnate aumenta notevolmente la durata, richiedendo fino a 20 ore per 6 miglie. L'unità di misura fondamentale per questi calcoli è la divisione, poiché organizzare le brigate con tempi diversi "è molto raramente opportuno". Viene inoltre distinto tra marce di trasferimento, più flessibili, e quelle che richiedono il raggruppamento giornaliero in divisioni o corpi d'armata, che "richiedono il tempo massimo". Un tema minore è il confronto con esempi storici, come la marcia di Lascy, che coprì 45 miglia in 10 giorni, un'impresa definita "eccezionale anche ai giorni nostri".
Un principio centrale è l'enorme influenza logoratrice delle marce, definita "tanto grande che si potrebbe considerarla come un principio attivo, a sé stante, a fianco del combattimento". Questo logorio è causato da "una serie di marce moderate" e aggravato da condizioni come la "deficienza di vettovagliamento e di ricovero, strade cattive" e la necessità di essere sempre pronti al combattimento. La diminuzione del grosso bagaglio, pur avendo avvantaggiato la mobilità, rappresenta soprattutto "un risparmio di forze che un vantaggio nella rapidità dei movimenti". Il testo mette in guardia dalle "teorie sciocche" che sottovalutano gli svantaggi di un'attività incessante, sottolineando come, specialmente in teatro di guerra, le perdite possano "salire a cifre incredibili", come dimostra l'esempio della campagna di Napoleone in Russia del 1812, dove le perdite ammontarono a 105.500 uomini prima di grandi battaglie, principalmente a causa delle marce.
18. Rapporti tattici e strategici tra attacco e difesa
Analisi comparativa dei principi tattici e strategici che regolano l'attacco e la difesa, con particolare enfasi sulla superiore forza intrinseca della forma difensiva.
Il sommario esamina i principi tattici che producono la vittoria, identificati nella sorpresa, nel vantaggio del terreno e nell'attacco da più lati. Viene affermato che "l'attaccante ha a suo favore soltanto una piccola parte del primo e del terzo principio: mentre la più gran parte di questo e tutto il secondo sono a favore del difensore". Il difensore, infatti, "è in grado di sorprendere continuamente il suo avversario col modificare la forza e la forma dei propri attacchi" e "può maggiormente valersi del sussidio del terreno". Viene inoltre analizzata l'evoluzione storica dei metodi difensivi, notando come la difesa si sia adattata per riconquistare la superiorità, ad esempio tenendo "alla mano le proprie forze in grosse masse, senza neppure, di solito, spiegarle, e schierandole al coperto". In ambito strategico, gli elementi di successo includono, oltre ai tre principi tattici, l'appoggio del teatro di guerra, il concorso delle popolazioni e lo sfruttamento di forze morali. Anche qui, "la difensiva è una forma di guerra più forte dell'offensiva", poiché l'attaccante, isolandosi dal proprio teatro, subisce un indebolimento, mentre il difensore "si appoggia su tutti questi mezzi" e "fruisce cioè del soccorso delle sue piazzeforti". Viene infine discusso il concetto di convergenza nell'attacco e divergenza nella difesa, osservando che in strategia la libertà di scelta dell'attaccante è spesso limitata, come quando "la linea di difesa si estende direttamente da un mare all’altro", rendendo impossibili gli avvolgimenti.
19. La superiorità della difesa e i suoi mezzi
La difesa come forma superiore di guerra, fondata sulla preparazione e su mezzi specifici.
Il blocco stabilisce la superiorità intrinseca della forma difensiva, la quale, per essere compresa, deve essere inquadrata fin da principio "nel concetto generale della difesa". Si contesta l'idea dell'attacco come un continuo "cadere addosso al nemico" e della difesa come uno "stato di angustia e turbamento", affermando invece che "la guerra è più necessaria al difensore che al conquistatore". La difesa ideale è presentata come uno stato di preparazione attiva, "preparata nel miglior modo possibile", con un esercito pronto e un condottiero che attende il nemico "con calma ponderazione". Vengono poi analizzati i mezzi specifici a disposizione del difensore, definiti "i pilastri sui quali si regge il suo edificio". Tra questi, la Landwehr, la cui "essenza" risiede in una "cooperazione eccezionale, più o meno volontaria, di tutta la massa popolare", rendendola più adatta alla difesa. Le piazzeforti hanno per il difensore un'"efficacia complessiva" e una "forza intensiva incomparabilmente maggiore". Il popolo offre un'assistenza continua, dalle informazioni, dove il difensore trae "grandi vantaggi dalla completa intesa con gli abitanti", fino alla forma estrema del "popolo in armi". Infine, si considera l'appoggio degli alleati, non quelli normali, ma quelli che hanno un interesse particolare a che lo Stato attaccato non subisca detrimento, in virtù di una tendenza generale degli Stati al mantenimento dello status quo, che costituisce "la migliore sicurezza per i loro interessi comuni".
20. Posizioni Fortificate e di Fianco
Condizioni, efficacia strategica e pericoli delle posizioni difensive trincerate e del loro impiego come minaccia al fianco avversario.
Sommario
Il blocco analizza le condizioni necessarie per l'utilizzo efficace di un campo trincerato, sottolineando che "è condizione essenziale che simili campi siano rafforzati da ostacoli naturali". Viene posta come "prima condizione" la necessità di dotazioni sufficienti, garantite solo se la posizione ha alle spalle un porto, è in comunicazione con una piazzaforte vicina o ha accumulato scorte. Si esamina quindi l'efficacia strategica della posizione, chiedendosi "che cosa l’attaccante può fare contro di essa". Vengono distinti tre scenari principali per l'attaccante: sfilare davanti alla posizione, investirla o, se le prime due opzioni non sono percorribili, limitarsi a contenerla. L'analisi distingue costantemente se la posizione è occupata dal "grosso delle forze" o solo da "un'aliquota relativamente scarsa", evidenziando come nel secondo caso l'importanza sia "del tutto all'influenza che essa può esercitare contro il fianco strategico del nemico". Viene trattato anche il tema specifico dei "campi trincerati adiacenti a piazzeforti", dei quali si elencano caratteristiche e inconvenienti, come il rischio di risultare "dannosi, or più or meno, alla piazzaforte". La parte conclusiva delinea i principi generali: le posizioni forti sono "tanto più indispensabili, quanto meno vasto è il territorio da difendere" e "tanto più efficaci, quanto minore è l'impulso animante l'urto avversario". Infine, il testo definisce le posizioni di fianco, affermando che "qualsiasi posizione che debba essere mantenuta, anche se il nemico sfila davanti ad essa, è una posizione di fianco" e che il loro valore deriva dall' "influenza contro il fianco strategico dell’avversario". Viene sottolineato il carattere di strumento pericoloso di tali posizioni se non sono inattaccabili, poiché, se l'efficacia è debole, "il difensore vedrà posta a repentaglio, or più or meno, la propria ritirata".
21. La difesa in montagna: un'analisi tattica e storica
Un'indagine sulla natura, l'evoluzione storica e l'efficacia tattica della difesa in ambienti montani, con particolare attenzione alla distinzione tra resistenza relativa e assoluta.
Sommario
Il blocco analizza la difesa in montagna, partendo dalla constatazione che "l’enorme difficoltà che incontra una marcia su strade di montagna con forti colonne" e "la forza eccezionale che un piccolo gruppo di uomini riceve da una zona montana ripida" sono i due pilastri della sua rinomanza. Viene descritta vividamente la difficoltà di un movimento in montagna, dove "ognuno pensi: qui basterebbe che il nemico arrivasse con qualche centinaio di uomini, per mandare tutto a rifascio". Tuttavia, si precisa che "una marcia di tal natura attraverso i monti ha ben poco, e magari nulla a che fare coll'attacco in montagna", segnalando un errore di valutazione comune. L'analisi storica ripercorre l'evoluzione di questa forma di difesa, osservando che "prima della guerra dei Trent'anni... una difesa propriamente detta in montagna, per lo meno con truppe regolari, era quasi impossibile" e che solo con l'affermarsi della fanteria e delle armi da fuoco si cominciò a "sfruttare monti e valli". Viene messa in luce la tendenza a estendere le linee difensive, credendo di creare "una ferrea muraglia", e la conseguente "accentuatissima passività" che ne derivava, la quale, unita alla crescente mobilità degli attaccanti, portò a una sconfitta tattica di questo sistema, poiché "il terreno di montagna è, per sua natura, elemento avverso alla mobilità". La trattazione si concentra quindi sulla distinzione fondamentale tra resistenza relativa e assoluta, concludendo che "per la resistenza della prima specie, il terreno di montagna si presta in alto grado... per la seconda invece, in generale non è adatto". Viene ribadito che "un piccolo gruppo di uomini, in montagna, è molto forte" e che questa forza è decisiva per una resistenza relativa, ma si contesta l'idea che una linea composta da molti di questi forti gruppi sia ugualmente solida, poiché spesso si equivoca "fra una regione impervia ed una inaccessibile" e la sicurezza della connessione tra i posti può basarsi "addirittura su un'illusione". La forza di un singolo posto non risiede nel rendere impossibile l'aggiramento, ma nel "costringere il nemico ad impiegare forze e tempo sproporzionati all’efficacia del singolo posto".
Difesa in Montagna 22
Analisi tattica delle peculiarità e degli svantaggi della difesa in un terreno montuoso, con particolare riferimento alla battaglia difensiva.
Sommario
Il blocco analizza la difesa in montagna, distinguendo tra la resistenza di piccoli posti e la battaglia difensiva condotta con il grosso delle forze. Per un singolo posto, "l'appoggio d’ala ha adempiuto al proprio compito" e la posizione può disporre di "ali forti". Tuttavia, in una posizione estesa, la situazione muta radicalmente: un attacco concentrato su un punto debole, se ha successo, fa sì che "tutto il sistema va a rifascio". Ne consegue che "la resistenza relativa è molto maggiore in montagna che non in pianura", ma non cresce proporzionalmente con l'aumentare delle masse. Quando l'obiettivo diventa una "vittoria positiva", la difesa si trasforma in una battaglia difensiva, diventando un mezzo e non più un fine. In questo contesto, il terreno montuoso è "elemento paralizzante" per il difensore, poiché "manca o scarseggia di strade" e vi è "mancanza del libero campo di vista". Questi fattori "paralizzano o azzoppano tutta la miglior metà della resistenza". Si aggiunge il costante "pericolo di esser tagliati fuori", un timore che "indebolirà tutti i muscoli dell’atleta lottante" e rende il difensore eccessivamente sensibile ai fianchi. La teoria conclude sconsigliando il terreno montuoso per una battaglia decisiva, poiché il carattere della difesa rischia di degenerare in una "semplice difesa in montagna", un pericoloso "scivolamento" da evitare. Al contrario, per "combattimenti d'importanza secondaria, invece, la montagna può tornar molto utile", in quanto non implicano una "difesa assoluta".
23. Critica del concetto di "posizione-chiave" e analisi dell'azione di fianco strategica
Una disamina degli errori dottrinali sulla chiave del territorio e dei principi dell'azione strategica sul fianco.
Sommario
Il blocco contesta la teoria, attribuita forse a Lloyd, che identifica la "chiave del territorio" con punti elevati o displuviali, giudicandola una fantasia priva di fondamento pratico. Si sostiene che "tutto ciò che si è scritto circa la sua influenza sugli avvenimenti di guerra, esagerando ed applicando erroneamente concetti in se stessi giusti, alla fine del secolo XVIII e al principio del secolo XIX, è completamente fantastico". Questa concezione, nata da un'espressione occasionale usata dai condottieri, è degenerata in un "sistema geologico" illusorio, distaccato dalla realtà militare, come dimostrato dalle campagne nei Vosgi (1793-94) e a Langres (1814). Il testo propone quindi una definizione strategica di "posizione-chiave" come una zona il cui possesso è indispensabile per penetrare in un territorio, sottolineando come "per lo più la migliore chiave per l’accesso al territorio risiede nell’esercito nemico". La seconda parte analizza l'azione strategica di fianco, distinguendo tra efficacia sulla linea di comunicazione e su quella di ritirata. Si precisa che l'aggiramento non ha valore di per sé, ma solo in relazione a condizioni specifiche: "tutti questi effetti, come già abbiamo detto, non dobbiamo riprometterceli dal puro aggiramento né dalla pura forma geometrica nello schieramento delle forze, bénsì e soltanto dalle condizioni inerenti é opportunamente manifestantisi". Vengono infine esaminate le condizioni che rendono vulnerabile una linea di comunicazione, ovvero la sua lunghezza, una giacitura obliqua rispetto allo schieramento e l'attraversamento di territorio ostile.
Blocco 24: Forme di aggiramento e ritirata strategica
Analisi delle manovre per interdire la ritirata al nemico e degli effetti di una ritirata volontaria nel proprio territorio.
Sommario
Il blocco distingue due forme principali di aggiramento strategico per minacciare la linea di ritirata avversaria. La prima prevede l'impiego di tutte le forze, con il rischio di "scoprire le nostre spalle". La seconda forma, che comporta il "frazionamento delle forze", presenta il pericolo della "separazione fra le proprie forze", mentre l'avversario, "avvantaggiandosi della linea interna, rimane colle proprie riunite". I motivi per correre questo rischio sono tre: "la ripartizione iniziale delle forze", "una grande superiorità materiale e morale" o "la mancanza di energia d’urto in un avversario". Vengono citati esempi storici, come l'avanzata di Federico il Grande in Boemia nel 1757 e la campagna del 1813, dove gli Alleati, "data la loro grande superiorità materiale", spostarono il teatro di guerra. Un altro esempio è la campagna del 1812, in cui i Russi poterono avanzare "contro le spalle dell’esercito principale francese" perché "Mosca avrebbe costituito il punto culminante della linea d’operazione francese". Viene sottolineato come l'efficacia di tali azioni dipenda dall'"energia d’urto" dell'avversario, come dimostra il confronto tra il piano difensivo russo al campo di Drissa, che sarebbe stato "una pazzia" all'inizio della campagna, e la sua efficacia a campagna inoltrata. La seconda parte del blocco esamina la "ritirata volontaria nell'interno del paese" come forma di resistenza. In una ritirata volontaria, con una "resistenza quotidiana misurata", "la lotta costerà per lo meno tante perdite all’attaccante quante al difensore". Al contrario, in una ritirata dopo una sconfitta, le perdite sono "sproporzionate" e può avvenire la "dissoluzione completa delle sue forze". L'attaccante subisce un indebolimento progressivo, mentre il difensore in ritirata beneficia di "rinforzi" e di una netta superiorità logistica, poiché "dispone dei mezzi per accumulare dovunque rifornimenti", mentre il nemico "deve portarsi dietro tutto", causando "mancanza di rifornimenti".
Blocco 25: La difesa in assenza di una decisione
La strategia difensiva quando non si cerca lo scontro decisivo.
Il blocco analizza i principi della difesa quando non è ricercata una battaglia decisiva. Il difensore mira a proteggere il proprio territorio e le piazzeforti senza impegnarsi in combattimenti rischiosi, sfruttando il vantaggio dell'attesa. L'attaccante, dal canto suo, cerca di conquistare obiettivi come parti di territorio, depositi o piazzeforti non protette senza correre il rischio di una decisione. Viene esaminata in dettaglio la prassi di schierare l'esercito davanti a una piazzaforte per proteggerla, una scelta giustificata dalla "pigrizia ed inazione morale" e dal fatto che, in tal modo, "l'avversario non può attaccarla senza battere prima l’esercito". Questo procedimento, sebbene apparentemente illogico, è comune e si basa sul calcolo che, se l'avversario non vuole la battaglia, il difensore rimane in possesso del territorio "senza neppure estrarre la spada dal fodero". Vengono citati esempi storici, come Federico il Grande, ma anche il caso controproducente del Duca di Bevern a Breslau. Un motivo secondario per questo schieramento è la comodità di rifornirsi dalla piazzaforte. Il blocco tratta inoltre della protezione del territorio mediante uno schieramento esteso delle forze, spesso supportato da trinceramenti. In tali campagne, la perdita di singoli posti difensivi è considerata di scarsa conseguenza, poiché raramente mina l'intero sistema; il concentramento delle forze per offrire battaglia è di solito sufficiente a fermare l'avanzata nemica, limitando le perdite a "qualche tratto di terreno, ad alcuni uomini e cannoni".
26. La difesa del territorio e i suoi mezzi
Difesa attiva del territorio attraverso movimenti rapidi e guerra di posti, in opposizione a una difesa passiva e statica.
Il blocco analizza i principi della difesa territoriale, enfatizzando l'integrazione di mezzi attivi e passivi. Viene esaminata l'importanza dei movimenti laterali rapidi per frapporsi all'avversario, dando origine alla "guerra di posti". Si discute come questa condotta sia efficace specialmente contro un avversario non risoluto o nella seconda parte di una campagna. Il testo sottolinea l'evoluzione delle marce e degli schieramenti, passati da un formalismo rigido a una maggiore libertà d'impiego delle aliquote. Viene poi affrontata la possibilità che l'attaccante, privato di obiettivi concreti, cerchi una vittoria fine a se stessa, per il "puro onore delle armi". Conseguentemente, il difensore deve vigilare per evitare che propri corpi subiscano combattimenti svantaggiosi, come illustrato dagli esempi storici di Landshut e Maxen. L'importanza di una volontà autoritaria del comandante in capo è ribadita per prevenire disastri. Infine, si accenna all'influenza dei rifornimenti e, soprattutto, alla protezione delle linee di comunicazione, definita "una delle condizioni principali per lo schieramento da scegliersi".
27. L'Essenza e l'Obbiettivo dell'Offensiva Strategica
Analisi della natura composita dell'attacco e del suo fine ultimo nella condotta della guerra.
Sommario
Il blocco esamina la natura intrinseca dell'offensiva strategica, smontando l'idea di un attacco come azione pura e omogenea. Viene affermato che "l’attacco non è un tutto omogeneo, ma è costantemente commisto a princìpi difensivi". Questi elementi difensivi sono presentati non come un rafforzamento, ma come "un male inevitabile", "il peccato originale, il germe di morte" che agisce da "elemento ritardatore" a causa della perdita di tempo e dell'inerzia. La necessità di pause durante l'avanzata e la protezione delle retrovie impongono momenti di difesa che, essendo di natura debole, indeboliscono l'offensiva stessa, poiché "ciò che l'attaccante deve trascinare con sé, in fatto di elementi difensivi, si compone dei peggiori elementi di questa forma". La difesa finale, con cui ogni attacco deve terminare, e la cui natura condiziona il valore dell'intera offensiva, è un altro tema minore affrontato. In contrapposizione alla difesa, che presenta molte gradazioni, l'attacco è descritto come sostanzialmente uniforme, poiché "l’offensiva non possiede che un solo principio attivo". La seconda parte del testo definisce l'obbiettivo dell'offensiva strategica, identificato primariamente nella conquista del territorio, che "è dunque l'obbiettivo dell'attacco". Tuttavia, questo obiettivo non è necessariamente totale, ma può essere limitato a "una provincia, un distretto, una piazzaforte", con un valore negoziale. Viene infine osservato che, nella pratica, i piani offensivi e difensivi non sono rigidamente separati, ma "sfumano spesso in modo indeterminato verso la difesa, come i piani di difesa tendono verso l’attacco", e un attacco può arrestarsi o proseguire oltre le intenzioni iniziali senza una transizione netta verso la difesa.
28. Della Difesa e dell'Attacco in Diversi Contesti Tattici e Strategici
Le difficoltà della difesa e le caratteristiche dell'attacco in battaglia, nel passaggio di fiumi, contro posizioni difensive, campi trincerati e zone montane.
Sommario
Il blocco analizza le dinamiche dell'attacco e della difesa in varie situazioni operative. Nella battaglia difensiva, il difensore cerca di "guadagnare tempo" mantenendo la decisione in sospeso, mentre l'offensiva è caratterizzata da incertezza, poiché l'attaccante "brancola nell’ignoto". Si sostiene che "l’attacco di fianco, e cioè la battaglia a fronte cambiata, è d'altronde più efficace della forma avvolgente". Un tema minore è l'importanza dell'inseguimento, definito come un complemento "ancora più indispensabile dell’intera azione" nella battaglia offensiva. La trattazione si estende poi al passaggio di fiumi, descritto come "sempre molto incomodo per l’attaccante" poiché, una volta superato, egli resta "vincolato ad un solo punto di passaggio". Viene discussa l'efficacia della difesa fluviale, che in assenza di una grande decisione da parte dell'attaccante assume "grande valore", ma che, se impiegata erroneamente, può diventare un vantaggio per l'offensiva. L'analisi prosegue con l'attacco a posizioni difensive, dove si afferma che "l’attaccare un avversario valente, in una buona posizione, è una decisione preoccupante", e che un attacco non frontale presenta "difficoltà alquanto minori". Riguardo ai campi trincerati, un trinceramento ben organizzato è considerato "un posto inespugnabile", rendendo il suo attacco "un compito molto difficile, e forse inattuabile". Infine, per le zone montane, si conclude che per un attacco dotato di forze e decisione per una grande battaglia, andare "ad urtare l'avversario nei monti" può essere vantaggioso, nonostante l'esperienza comune suggerisca il contrario, come dimostra la constatazione che "un esercito avanzante per attaccare [...] ha considerato come fortuna inaudita il fatto che il nemico non avesse presidiato i monti intermedi".
La Natura della Guerra 29
La discrepanza tra il concetto assoluto di guerra e le sue manifestazioni reali, e le conseguenze teoriche e pratiche di questa divergenza.
Sommario
Il blocco analizza la contraddizione tra la guerra nella sua "forma assoluta", un concetto ideale di conflitto totale e logicamente consequenziale, e la guerra come si manifesta nella realtà, che spesso appare come "un prodotto bastardo, una sostanza priva d’intima coesione". Viene citato l'esempio delle guerre napoleoniche, in cui "l’impetuoso Bonaparte l’ha prontamente elevata a quell’altezza" della forma assoluta, per dimostrare la validità pratica del concetto. Tuttavia, si osserva che la maggior parte dei conflitti storici, ad eccezione di quelli di Alessandro e di alcune campagne romane, non corrisponde a questo ideale. La teoria deve quindi riconoscere che "la guerra può essere più o meno 'guerra'", ammettendo "vari gradi d'intensità" e basandosi su "un giuoco di probabilità, di eventualità, di fortuna o di sfortuna". Ne consegue che l'analisi della guerra deve partire dal concetto assoluto come punto di riferimento fondamentale, ma deve anche "lasciando un posto a tutti gli elementi estranei che in essa interferiscono", come "le incertezze, le esitazioni proprie dello spirito umano". Viene infine esaminata la "intima struttura della guerra", contrapponendo la visione della guerra come "un tutto indivisibile" in cui solo il risultato finale conta, alla visione per cui "il risultato finale non è altro che la somma dei risultati parziali". La teoria deve conservare entrambi i concetti, considerando il primo come fondamentale e il secondo come una modificazione dettata dalle circostanze, illustrando questa dualità con gli esempi contrastanti delle campagne di Federico il Grande, che perseguiva "scopi secondari" come "guadagnare tempo e forze", e delle guerre napoleoniche, che vedevano le nazioni stesse pesare "sul piatto della bilancia".
L'evoluzione della guerra e dello Stato moderno 30
Dalla frammentazione medievale alla guerra come affare di governo nel XVIII secolo.
Il testo analizza la trasformazione della natura della guerra, parallelamente al consolidamento degli Stati moderni. Inizialmente, gli Stati medievali non erano unitari, ma "aggregati di forze con scarsa coesione", le cui azioni non erano guidate da "un'intelligenza unica". Questo spiega eventi come le "scorrerie continue degli imperatori tedeschi in Italia" senza un'intenzione di conquista completa. Il processo di unificazione interna, esemplificato dalla Francia sotto Luigi XI e dalla Spagna sotto Ferdinando il Cattolico, portò alla creazione di monarchie forti con eserciti permanenti basati su "arruolamento e sul danaro". I governi, "convertendo in imposte pecuniarie le prestazioni dei loro sudditi", concentrarono il potere nel tesoro, rendendo la guerra un affare di governo, "straniandola ancor più dall’interesse del popolo". Conseguentemente, la guerra perse "la tendenza all’estremo", divenendo "un vero giuoco, in cui il tempo ed il caso mescolavano le carte", uno strumento usato con circospezione per obiettivi modesti, come "impadronirsi di qualche pegno provvisorio per trarne partito nelle trattative di pace". L'equilibrio politico europeo e un sistema diplomatico raffinato impedivano a condottieri come Gustavo Adolfo o Federico il Grande di compiere conquiste su vasta scala. La Rivoluzione francese segnò una rottura radicale: "Improvvisamente la guerra era ridivenuta una questione di popolo", rendendo i mezzi e gli sforzi bellici illimitati e spostando nuovamente il pericolo verso l'estremo.
31. La trasformazione della guerra in causa nazionale e i suoi principi
Dalla reazione europea a Bonaparte alla teoria della guerra assoluta.
Sommario
La forza militare di Bonaparte, "appoggiata a tutta la potenza della nazione", attraversò l'Europa infrangendo ogni resistenza. La reazione si destò in tempo: in Spagna la guerra divenne spontaneamente popolare; in Austria, nel 1809, si fecero "sforzi straordinari" con la creazione di riserve e della Landwehr; la Russia nel 1812 prese Spagna e Austria a modelli, sfruttando le sue "dimensioni colossali". Fu la Prussia, in Germania, a fare della guerra "una causa nazionale", entrando in campagna con forze doppie nonostante una popolazione ridotta. Germania e Russia opposero così alla Francia "circa mezzo milione di uomini". La guerra fu condotta con una "energia nuova" e in otto mesi il teatro fu trasportato "dall’Oder alla Senna", costringendo Parigi a chinare il capo. Da allora, la guerra cambiò interamente natura, avvicinandosi "alla sua essenza originaria, alla sua perfezione assoluta". I mezzi impiegati non ebbero più "limiti visibili" e lo scopo militare divenne esplicitamente "l'abbattimento dell'avversario". L'elemento della guerra, "sbarazzato da ogni barriera convenzionale, irruppe con tutta la sua naturale violenza". La ragione di ciò fu "la partecipazione dei popoli a questi grandi interessi politici", derivante dalla Rivoluzione francese e dal pericolo estremo rappresentato dalla Francia.
La teoria della guerra deve quindi considerare che "ogni epoca ha le sue proprie forme di guerra". Tuttavia, dalla guerra assoluta dell'epoca più recente si possono trarre principi generali. Il concetto di partenza è che "lo scopo della guerra dovrebbe, idealmente, essere sempre l’atterramento dell’avversario". Questo non significa sempre "la conquista integrale dello Stato nemico", ma individuare e colpire il "centro di gravitazione di potenza" dell'avversario, che può risiedere nel suo esercito, nella capitale, in un alleato o in un capo. Esempi storici mostrano che la decisione arrivò con la battaglia di Austerlitz nel 1805, che fu "decisiva", mentre "il possesso di Vienna" non lo fu; fu necessaria Friedland per dare "il colpo di grazia" nel 1807. Il vincitore, una volta colpito questo centro, deve agire "contro il complesso avversario, anziché contro una sua parte" e non lasciargli "il tempo di riacquistarlo" l'equilibrio.
32. La natura dell'offensiva e gli obiettivi limitati nella guerra
La critica alla guerra offensiva metodica e la delimitazione degli scopi bellici.
Sommario
Il testo contesta l'idea di una guerra offensiva cosiddetta metodica, ritenendo che ogni pausa o fase intermedia non renda più sicuro il successo, ma lo renda più incerto. Si afferma che "ogni termine di fase, ogni punto di arresto, ogni stazione intermedia siano cosa illogica" e che un arresto, se necessario, sia "un male, se pur necessario, il quale, lungi dal rendere il successo più sicuro, lo rende più incerto". Viene poi esaminato l'obiettivo bellico quando non è possibile l'atterramento completo del nemico, distinguendo tra la conquista di una parte del territorio nemico e la conservazione del proprio in attesa di tempi migliori. La scelta tra offensiva e difensiva è guidata dalla prospettiva futura: "l'atteggiamento d’attesa, cioè la guerra difensiva, si basa sempre su questa speranza. Per contro, la guerra offensiva, ossia lo sfruttamento del momento attuale, s'impone, ogniqualvolta l'avvenire offra migliore prospettiva al nemico che a noi". Il caso di un piccolo Stato in conflitto con forze superiori è portato ad esempio: se prevede un peggioramento, "deve attaccare, non già perché la forma offensiva gli procuri di per sé un vantaggio — poiché essa non fa che accrescere anzi la sproporzione fra le forze — ma perché esso sente il bisogno di liquidare del tutto la questione prima che sopraggiungano i cattivi periodi preveduti". Infine, si introduce l'influenza decisiva dello scopo politico sull'obiettivo bellico, notando come nelle alleanze tradizionali l'impegno sia spesso limitato, poiché gli Stati "non si obbligano, ordinariamente, che per uno scarso contingente corrispondente alle clausole del trattato", trattando la guerra come "un affare commerciale".
Piano di Guerra 33
Un piano d'azione concentrato per una campagna offensiva decisiva contro la Francia, con la descrizione delle forze necessarie e la confutazione di strategie alternative considerate errate.
Sommario
Il piano di guerra consiste in due attacchi principali convergenti: il primo, con 300.000 uomini dai Paesi Bassi, deve "marciare su Parigi e dare una battaglia generale alle armate francesi"; il secondo, con 300.000 uomini sull'Alto Reno, avanza "contemporaneamente" per procedere "verso la Senna superiore e di là verso la Loira". L'obiettivo dei generali è "cercare la battaglia generale necessaria, e darla con un rapporto di forze ed in circostanze che promettano una vittoria decisiva", sacrificando tutto per questo scopo e distraendo "la minor forza possibile". L'attacco deve imitare "la punta di una freccia vigorosamente lanciata, e non la bolla di sapone che si gonfia fino a scoppiare". Viene sconsigliato un attacco dall'Italia, poiché "un attacco contro il mezzogiorno della Francia è da scartarsi" in quanto non farebbe che "risvegliare nuove forze ostili". Viene inoltre respinta l'idea di un'influenza dominante della Svizzera, definendo "più insensato" il volerle attribuire un'importanza decisiva, e si ritiene di scarsa importanza lo spazio fra i due attacchi principali, poiché "quando 600.000 uomini si riuniscono a due o trecento chilometri da Parigi", preoccuparsi di coprire le retrovie "sarebbe contro il buon senso". La connessione tra i due attacchi non deve essere diretta, ma risiede nel fatto che "se uno dei due attacchi fallisse [...] il successo dell’altro porrebbe da sé rimedio". Le imprese accessorie, come quella degli Austriaci in Italia e lo sbarco di truppe inglesi, non devono influenzare i due grandi attacchi, in quanto il loro scopo è già raggiunto se "queste forze non rimangono inattive". Il testo critica inoltre l'attuale ordinamento della Confederazione tedesca, ritenendo che in guerra "uno Stato federale forma un nucleo assai poco consistente", e afferma che "l’Austria e la Prussia sono i due centri naturali d’urto della potenza tedesca", il "forte della lama" a cui deve piegarsi l'organizzazione.